Aquilino
LE BACCANTI TRA IL POTERE RELIGIOSO E QUELLO POLITICO
Citazioni dalla traduzione di Giulio
Guidorizzi
Scrive
Caterina Barone (https://identitlterit.wordpress.com/
16 febbraio 2011): “Nelle Baccanti si fronteggiano due mondi: quello
dell’irrazionale, dello spirito che si sposa armonicamente con la fisicità e
che si pone in sintonia e comunione con la natura e con il dio; e quello della
ragione che propugna il proprio ideale di governo, di controllo, di rispetto
delle norme a salvaguardia dell’ordine costituito. Da qui si articolano una
serie di polarità: libertà e tirannide; tolleranza e intransigenza; istintività
e calcolo; relativismo e dogmatismo. Ma nello svolgimento della trama gli
opposti si mescolano e si contaminano, perché se Penteo è irresistibilmente
attratto dall’universo dionisiaco al quale cerca di opporsi e si apre ad esso
travestendosi da baccante per salire sul Citerone e spiare i riti delle Menadi,
Dioniso da parte sua rivela un’indole da tiranno, spietato e crudele oltre ogni
misura”.
Gli
opposti si mescolano e si contaminano, ma non sua sponte, bensì per una strategia finalizzata a imporre la
supremazia del potere religioso su quello politico. Penteo è vittima designata,
come colui che osa l’impossibile e precipita nel baratro che lui stesso ha
scavato, pretendendo di potere fare a meno della divinità.
La
tragedia si sarebbe potuta aprire con il ritorno di Penteo a Tebe, e invece è
Dioniso a sostenere il prologo, proclamando fin da subito la superiorità della
propria sfera divina su quella umana. Egli ci informa che ha mutato l’aspetto
divino in umano, e quindi si presenta più come sacerdote che come dio. Così
voglio interpretarlo, con una lettura atea della tragedia che escluda la
possibilità che un dio si faccia vivo a Tebe. Di conseguenza, egli è davvero
figlio di Semele e di chissà chi, come hanno sostenuto le sorelle, Agave
compresa, madre di Penteo. Il suo ritorno a Tebe nelle vesti di sacerdote di
Dioniso è causa di un doppio imbarazzo: egli è il figlio illegittimo che
testimonia il peccato compiuto dalla madre e che potrebbe rivendicare il trono
contro Penteo (Memorie drammaturgiche e esiti spettacolari, saggi di M. Sella e
F. Macrì in “Studi e materiali per le Baccanti di Euripide” a cura di A.
Beltrametti); ed è l’alfiere di un culto orientaleggiante che Penteo intende
vietare in nome della tradizione. Possiamo paragonare Dioniso a un missionario
che dal potere civile si vede preclusa la strada delle conversioni, al quale si
contrappone con due tipi di armi: la suggestione e la violenza.
D’altronde
la sua stessa origine è violenta. Dioniso indica agli spettatori “il sepolcro
della madre folgorata e le macerie fumanti della casa”, distrutta da un
incendio che afferma provocato da Zeus-fulminatore apparso in tutta la propria
potenza all’amante, esaudendone il desiderio di vederlo (Le Baccanti o
l’ossessione della visione di I. Rizzini, in “Studi e materiali…” cit.). Nelle
vesti di predicatore ha visitato l’Asia con successo e ora vuole imporre il
culto in Grecia. Per vendicarsi delle sorelle che hanno negato l’origine divina,
induce le donne di Tebe a lasciare i ginecei “percosse dal pungolo della
follia”. Indossata la nebride e portando il tirso, dimorano sul monte Citerone
“sotto verdi abeti, tra nude rocce”. Più che una condizione idillica, un
ritorno alla bestialità, per quanto indorata da canti e danze.
Dioniso
ce l’ha a morte con il re Penteo: “Mi fa guerra, mi allontana dai sacrifici e
non si ricorda di me nelle preghiere”. La laicità di Penteo è non solo
offensiva, ma debilitante: come può prosperare il rappresentante del dio senza
ricevere i doni, privato del dominio sull’umanità fragile e implorante? Deciso
a riconquistare il potere, lancia una dichiarazione di guerra: “Mi unirò alle
menadi e guiderò il loro esercito”.
Ma
chi sono le donne che compongono il tìaso? Sono straniere, vengono dal monte
Tmolo in Lidia; conoscono i misteri divini; sono possedute; adorano la Gran
Madre Cibele; danzano al suono di tamburelli, timpani, flauti e cembali;
mangiano carne cruda; agitano il tirso come un’arma. Un ateniese contemporaneo
di Euripide direbbe: barbare. Niente a che vedere con le signore della polis
dagli istinti imbrigliati. Abbiamo, quindi, due tiasi: uno mitico, delle donne
di Lidia; e uno storico delle tebane. D’altronde, tutto si fa doppio.
Dopo
le donne, il fascino barbaro miete le prime vittime tra gli uomini. Euripide
mette in scena due miti: Tiresia e Cadmo. Il primo è vissuto sia da maschio sia
da femmina, vive da sette generazioni ed è cieco, ma vede nel futuro. Discende
dagli Sparti, i guerrieri nati dai denti del drago ucciso da Cadmo, fondatore
di Tebe. Nella tragedia non viene disegnata la loro aura mitica: abbiamo di
fronte due anziani malmessi che con il baccheggiare si sentono di nuovo
giovani. Quello che cammina a stento prende per mano il cieco e insieme si
dirigono verso il Citerone, ma incappano in Penteo di ritorno da una missione.
Missione per Dioniso, missione per Penteo. Ma il primo viene da lontano, dai
confini della mente; l’altro viaggia entro il regno.
Il
dialogo è posticipato, dato che anche Penteo ha diritto a un prologo con il
quale esporre la situazione dal proprio punto di vista. Della sua assenza,
racconta, si è approfittato un demone di nome Dioniso per invasare le donne e
farle fuggire tutte sul monte, nei boschi. Monti e boschi sono l’altro regno,
quello delle belve, dei mostri, dei banditi. Là si ubriacano e fanno orge con i
passanti. Lui le farà mettere in catene. E farà tagliare la testa allo
“straniero, un mago pratico di incantesimi: ha riccioli biondi tutti profumati
e negli occhi azzurro cupo spira il fascino di Afrodite”. Anche da parte della
polis, dunque, si mette in campo un esercito per quella che in apparenza è una
guerra santa. Per Dioniso, contro gli atei; per Penteo, contro un falso dio
straniero. Sia l’uno sia l’altro pretendono la gestione del divino: Stato
contro Chiesa. Penteo, infatti, è esplicito. Quando scorge i due anziani, viene
preso da ilarità e disgusto e rinfaccia a Tiresia di volere introdurre una
nuova divinità per estorcere soldi ai fedeli: la religione è un affare.
Il
suo cinismo scandalizza il coro che gli rimprovera di insultare sia gli dei sia
il mito impersonato da Cadmo. Tiresia lo accusa di non avere buonsenso. Gli
impartisce una lezione di teologia, rifondando la gerarchia olimpica secondo i
due principi del secco e dell’umido: Demetra nutre gli uomini con i cereali e
Dioniso li libera dai dolori con l’oblio del vino. Gioca poi con le parole alla
moda dei sofisti per spiegare la nascita prodigiosa del dio, capace di
infondere il potere divinatorio e di sconfiggere gli eserciti. Questa immagine
ci fa pensare a Geova, signore delle profezie e degli eserciti. Gli dà poi dei
consigli: non confidare nel tuo potere (laico) e nella tua sapienza (laica), ma
accetta il dio, lasciati possedere da lui. Ossia, cedigli ogni potere e ogni
sapienza. Conclude dicendogli che è un pazzo furioso, dato che non si
sottomette alla divinità.
Cadmo
rincara la dose e gli dice che è uscito di senno. Ma le sue parole hanno una
sfumatura diversa. Eh, l’ambiguità del mito, sembra suggerirci Euripide. Questo
Cadmo che ora, per pura convenienza, va ad adorare Dioniso, non è quello che
aveva spinto le figlie a dubitare del parto soprannaturale della sorella
Semele? Ecco che bisbiglia a Penteo: “Anche se questo dio non esiste,
riconoscilo ugualmente, menti per tuo vantaggio, proclama la sua esistenza
perché si dica che Semele è madre di un dio e ne consegua un grande onore a noi
e a tutto il casato”. Incredibile quanto è antica la strategia di compromesso
tra Stato e Chiesa: facciamo finta di crederci, per il bene comune e
soprattutto nostro.
Cadmo
tenta di incoronare il figlio con l’edera, ma Penteo si ritrae gridando: “Non
toccarmi! Non contagiarmi con la tua follia”. Infuriato, manda i soldati a
devastare l’abitazione-tempio di Tiresia e a catturare lo straniero effeminato
affinché venga lapidato. Un’empietà dietro l’altra. Tiresia gli scaglia contro
un anatema e una minaccia (si augura che il dio non se la prenda con la città),
dandogli del selvaggio pazzo.
Il
Coro, allontanatisi i due vecchi, approfondisce la loro indignazione: “Bocche
senza freni / stoltezza senza leggi / finiscono nella sventura. / (Tenere) il
cuore e la mente / lontani da uomini tronfi. / Io voglio accettare / ciò che la
gente semplice crede.”
Ossia,
la scelta di non adeguarsi al culto comune, di non sottomettersi alla
religione, di non lasciarsi integrare nel sistema, di ragionare con la propria
testa… genera infelicità e rende tronfi, esclusi dalla verità. In modo velato,
anche il Coro esprime non solo disapprovazione per le posizioni di Penteo, ma
minacce: chi non sta con il dio finisce male. Non per niente il nome Penteo
significa “l’uomo della sofferenza”, come gli farà notare Dioniso: “Il nome
stesso dice che sei destinato alla pena”. Non c’è salvezza e non c’è felicità,
senza dio.
Nel
secondo episodio finalmente i due protagonisti s’incontrano e si dipana la
trama architettata da Dioniso. Il suo imprigionamento ricorda quello dei santi
martiri o di Cristo: “Ci porse le mani spontaneamente, senza impallidire, senza
mutare l’aspetto sereno del viso”. Nello stesso momento, un miracolo. Le donne
che i soldati avevano imprigionato su ordine reale tornano sul monte: catene e
chiavistelli caduti ai loro piedi. Penteo non se ne preoccupa, tanto è
soddisfatto di avere in proprio potere lo straniero che millanta origini
divine. Lo tratta da seduttore, riconoscendone le capacità incantatrici. A lui
Dioniso si presenta non come dio, ma come sacerdote. Un sacerdote come non ce
ne sono altri, dato che lui e il dio si guardano in faccia; è il modo in cui
riceve la conoscenza segreta dei riti. Penteo è incuriosito e in parte già
affascinato. Tenta di cogliere in fallo l’avversario, ma non ci riesce. Gli
sottopone allora una dimostrazione di forza, elencandogli quello che gli farà:
il taglio dei capelli (per snaturarlo, per togliergli la fascinazione), la
privazione del tirso (per impadronirsi di un simbolo di potere),
l’imprigionamento (per tenere sotto controllo l’enthusiasmòs, la follia religiosa). I due battibeccano come rivali
adolescenti, o come cervi nella stagione degli amori; ma per Penteo è dura,
dato che il suo vero avversario, il dio, è invisibile e onnipotente. Per darsi
un tono, esclama: “Io sono più potente di te”. E che cosa ribatte Dioniso? “Tu
non sai quello che ti sta accadendo, né quello che fai, e neppure che persona
sei”. In altre parole: tu, senza il dio, senza la religione, non sai e non sei
nulla.
Penteo,
arrabbiato, lo fa chiudere nella stalla; ma il sacerdote non demorde e
profetizza l’ira del dio.
Il coro,
come al solito, affonda ancora di più la lama nella ferita. Penteo, senza il
dio, non solo non può avere né sapienza né felicità, ma non potrà riscattarsi
dalla sua condizione di “mostro dagli occhi selvaggi” nato dal drago, feroce
essere non umano a cui è negato il paradiso.
Nel
successivo terzo episodio, la dimostrazione della potenza divina scuote il
palazzo in senso per niente metaforico, dato che il terremoto lo fa tremare e
una scarica di saette lo incendia. “Gettatevi a terra, tremate, gettatevi a
terra” il dio assale la reggia. Le baccanti hanno le convulsioni, ma il dio,
riprese le vesti di sacerdote, le rassicura.
È
davvero successo quello che narra il coro? Il palazzo crolla senza vittime?
L’incendio si spegne da solo? Sono state le menadi ad appiccare il fuoco? Realtà
e allucinazione si mescolano e le convulsioni delle baccanti che si dimenano al
suolo ci svelano uno stato alterato, una perdita di coscienza della realtà. Gli
animi sono ben disposti a credere a qualunque cosa, innescati dalle parole del
sacerdote. Sacerdote o dio? Dioniso gioca in continuazione entro l’ambiguità
dei due ruoli. Come sacerdote si è presentato a Penteo, ma quello che combina nella
reggia, o dice di combinare, fa di lui un dio. Terremoto, incendio, e poi la
metamorfosi in toro e lo stato confusionario in cui precipita il povero re.
“Attorno alle sue zampe, ai suoi zoccoli, fece correre i legami, pieno di
rabbia: grondava sudore, si mordeva le labbra. Io, accanto a lui, lo osservavo
tranquillo”. Anche Penteo è invasato, ma della propria condizione non prova
godimento, bensì rabbia e frustrazione. “Convinto che la casa bruciasse, si
mise a correre di qua e di là…”. È tutto un abbaglio. Non c’è terremoto, non
c’è incendio, non c’è un dio che si presenta come toro, ma un prete abile di
lingua che fa credere all’uditorio qualunque cosa, accendendo prodigi con uno
schiocco delle dita. Un prestigiatore. Fuori di sé, Penteo minaccia con la
spada un fantasma e assiste al crollo della propria casa… dalla quale però
Dioniso esce sempre tranquillo. “Ha osato far guerra a un dio!” dice del re che
Euripide muove come un burattino ora nella stalla ora nella reggia incendiata e
infine nella reggia che crolla, dalla quale esce in cerca del prigioniero:
surrealismo puro. Tutto è assurdo, tutto è abbaglio e inganno. Penteo è
talmente confuso che deve rivolgersi allo straniero per ricomporre la realtà
che gli sfugge di mano. “In ciò che mi conviene sono sapiente” dice Dioniso
stringendo sempre più il legame che sottomette Penteo al suo potere. Gli impone
di ascoltare il messaggero e Penteo lo fa, ormai succube. Addirittura, il
messaggero ne intacca la sovranità, temendone “l’eccitazione della mente, la
facilità all’ira e l’animo troppo imperioso”. Si delineano quindi in modo netto
due figure: Dioniso sempre autocontrollato e sereno, superiore a chiunque
altro, saggio e autorevole; Penteo suggestionabile, instabile, autoritario.
Il
messaggero descrive ciò che ha visto o ha creduto di vedere: le baccanti tebane
s’inghirlandano, allattano cerbiatti e lupacchiotti e compiono miracoli. Fanno
sgorgare sorgenti d’acqua, di vino, di latte e di miele, trasformando il
sassoso Citerone nel paese della cuccagna. Nonostante l’evidenza, o
l’allucinazione, pastori e mandriani rimangono fedeli a Penteo e si organizzano
per catturare le donne e portargliele. L’assalto alle baccanti è un errore che
pagano caro. Le donne rivelano la propria natura primordiale e la Grande Madre
si manifesta in loro forgiandole come energia pura. Si scagliano contro le
mandrie e squartano e fanno a pezzi le bestie, tori compresi. Poi assaltano i
villaggi, rapiscono i bambini, saccheggiano le abitazioni, affrontano gli
uomini armati e, rese invulnerabili, li mettono in fuga ferendoli con il tirso,
le chiome in fiamme senza che ne abbiano danno. Tornate sul monte, si lavano
nei torrenti mentre i serpenti le ripuliscono del sangue, lambendolo via dalla
pelle. “Chiunque sia questo dio, signore, accoglilo in città: è potente”. Quale
altro dio rende le donne più forti degli uomini? Dioniso è dunque il dio delle
donne. Le libera dalla servitù sessista e impone loro un’altra servitù, quella
del tìaso. Madri e vergini, armate di tirso (il bastone del comando), non sono
più disposte a tollerare la prepotenza maschile e non solo reagiscono, ma
contrattaccano in modo spaventoso, seminando il terrore. Quelle che nel futuro
saranno considerate streghe e messe sul rogo, ora portano il rogo sulla propria
testa, perché il fuoco divino arde in loro. Il dio le ha strappate alle loro
case, ai ginecei, promettendo la libertà, ma le ha snaturate rendendole
combattenti spietate. Le miti donne di Tebe, abituate a obbedire agli uomini di
casa, sono mutate in fanatiche assassine devastatrici.
Per
Penteo, maschilista com’è, “è il colmo della vergogna subire da donne”.
Dichiara loro guerra e il sacerdote-dio lo rimprovera bonariamente e lo
consiglia. Penteo non gli dà retta, ma gli ha già ceduto. Non lo vede più come
il responsabile di quanto accade. “Non ti basta essere scampato alle catene?
Accontentati”. La sua generosità è debolezza. Il dialogo riecheggia quello tra
Mosè e il faraone: “Fuggirete tutti” dice il Dioniso-Mosè. “Uomini armati di
bronzo che volgono le spalle davanti ai tirsi delle baccanti.” I deboli (le
donne, gli ebrei) sconfiggono il potente sovrano grazie al potere superiore del
dio.
Penteo
rifiuta comunque ogni tentativo di alleanza e allora Dioniso… “Ah!” lancia un
grido, e aggiunge: “Vuoi vedere le donne tutte insieme sul monte?”. Penteo si
stava allontanando, Dioniso lo richiama con la voce e forse lo tocca sulla
spalla, creando un breve caos sensoriale cui fa seguito un invito suadente.
Sembra un intervento d’ipnosi. Da questo momento in poi, Penteo appare svuotato
di volontà propria. È noto che l’ipnotista non può costringere il soggetto a
compiere azioni contro i propri convincimenti etici, ma con una buona tecnica
può fargli fare cose che nella consapevolezza non farebbe. Ecco quindi che il
potente sovrano accetta di vestirsi da donna. Il maschio si femminilizza e il re
indossa l’identità del nemico, annullando sé stesso. Ciò che ha avviato Dioniso
è la distruzione della personalità, primo stadio per giungere alla distruzione
fisica del rivale.
“Dioniso,
tocca a te. Tu non sei lontano: puniamolo! Se ragiona, non vorrà mai vestirsi
da donna, ma se lo porti fuori di senno si travestirà.” Il sacerdote espone la
strategia vincente: portando i fedeli alla follia (esaltazione, invasamento,
estremismo, fanatismo), può manovrarli come vuole. Il potere nasce dalla follia
dei soggiogati. La gestione del potere fa a meno del raziocinio. Il potere
vincente è irrazionale, si basa su una realtà virtuale gestita da chi lo
detiene.
Nello
stasimo il coro ci parla della condizione femminile e della rivolta bacchica
(Baccanti, Amazzoni, Danaidi, Lemniadi, Pretidi, Miniadi… donne folli che si
rifugiano sui monti e nei boschi, donne che rifiutano l’uomo e lo combattono;
vedi al riguardo “Le ribelli della storia” di Giorgio Galli). La donna come una
cerbiatta inseguita dai cacciatori. La sua mitezza contrasta con i versi
successivi: “Quale il dono più bello degli dei ai mortali? Calcare la mano sul
capo ai nemici, forte”. Si annota, considerata la contiguità delle due immagini,
che la figura biblica del combattente in dio non riguarda solo gli uomini, ma
anche le donne loro prede.
Nel
quarto episodio Dioniso è un serpente incantatore che ormai gioca allo
scoperto, dato che Penteo è bene avviluppato nelle spire. Lo chiama fuori dal
palazzo esortandolo a farsi guardare abbigliato da baccante. Il poveretto non
ha più timore di mostrarsi in pubblico, il suo stato mentale lo mette al riparo
da ogni vergogna: vede due soli, due Tebe, due corna sulla testa del suo psicopompo.
“Ora sì vedi ciò che devi vedere” gli dice Dioniso, soddisfatto. Il re è
domato, si fa un’idea della realtà secondo la volontà del sacerdote-dio e non
secondo la propria. Le sue preoccupazioni non sono più sostanziali, non
riguardano più l’interpretazione e la comprensione della realtà, date in delega, ma gli aspetti
formali dell’esistenza. Si procede quindi alla vestizione come se Penteo
partecipasse a un rito, come se indossasse non un abito da donna che lo
ridicolizza, ma paramenti sacri che lo rendono simile al dio. Acquisisce un
senso di onnipotenza che Dioniso fomenta, rassicurandolo, lusingandolo e al
contempo continuando a guidarlo passo dopo passo. Dioniso fa ciò in cui è
imbattibile: porgere una maschera al pubblico rendendolo protagonista, facendo
di ogni uomo un attore che declama parole altrui. L’esito della recita è
scontato, lo sa Dioniso, lo sa il pubblico, dovrebbe saperlo Penteo con il
quale Dioniso è esplicito: tornerai tra le braccia di tua madre… ti avvii a
cose tremende… troverai una gloria che si alzerà fino al cielo… il vincitore
sarò io, insieme a Bromio (la Trinità: il dio, il sacerdote e la fusione dei
due in un uomo-dio che intende dominare il mondo). Penteo, ora anche lui
cerbiatta insidiata dal cacciatore, può solo dire: le delizie che mi merito.
Aspira al paradiso, troverà l’inferno. E a lui non è concessa alcuna
ribellione. È una vittima sacrificale, il bue agghindato condotto all’altare
dopo avere assunto il sedativo che mistifica la realtà.
Lo
stasimo delle menadi rivela il cambiamento di scena. Per l’apoteosi di Penteo
Dioniso sconvolge il palcoscenico. Non più scene idilliche nella natura, ma
sulla scia della rivolta contro i pastori schiera sulla ribalta un branco di
donne sanguinarie scatenate contro un uomo solo.
“Veloci
cagne di Lissa…”
La
musica si fa frenetica, i ritmi delle tarantolate; ma le baccanti non si
limitano a rotolarsi al suolo; aggrediscono, uccidono. “Venga giustizia: la
spada trapassa la gola dell’ateo.” Un’esecuzione. Identica alle troppe
riportate dalla cronaca di questi anni. In nome di dio. “Mente folle, un
pensiero lacerato. Pretende di vincere, con la sua forza. Ma una morte
immediata rende prudenti, col dio. Stare nei limiti dell’uomo…” e chi decide i
limiti? Il sacerdote-dio. “Mostrati, Bacco: toro, serpente di molte teste,
leone…”. Dioniso bambino, adolescente femmineo, vecchio saggio, ubriaco,
danzante, pantera, toro, serpente, leone, maschera. Dioniso interprete: un
attore, tanti personaggi. Solo così può adattare i testi sacri all’occasione,
al momento storico, alla società in evoluzione, alla diversità, alla politica
che fagocita la politica. Il necrologio del coro: “Cadrà, ucciso da una mandria
di menadi”.
Detto
fatto. Il quinto episodio si apre con l’annuncio del servo: Penteo è morto. E
la corifea? “Signore Bromio, ti riveli un grande dio!”. E poi aggiunge:
“Dioniso, Dioniso, non Tebe ha dominio su di me”.
Il
processo si è concluso. Il potere religioso ha umiliato, sconfitto, sottomesso
e trucidato quello politico. La democrazia della polis è un’utopia, chi comanda
è uno solo, il dio. Perfino il servo è scosso dalle parole del coro: “Non è
bello gioire quando accade una sciagura”.
Scopriamo
che il servo faceva parte della processione che da Tebe ha risalito il
Citerone, formata da soli tre uomini, uno dei quali vestito da donna; il servo quasi
un chierichetto. Giunti in vista delle baccanti, Dioniso compie il miracolo del
pino. Penteo si ritrova… su una forca? legato al palo di un rogo? inchiodato a
una croce? Il suo sembra un esercizio di levitazione. Tipico degli aspiranti
profeti e dei fanatici che dell’enthusiasmòs
s’inventano il privilegio di essere solo loro in contatto diretto con la
divinità. Messa in posizione la vittima, che tutti la vedano, Dioniso scatena
le belve: “Ragazze, vi porto l’uomo che derideva voi, me e i miei riti:
punitelo.” Così, semplicemente. Punitelo. Massacratelo. “Rese folli dallo
spirito del dio” le baccanti avviano la lapidazione, ma “la belva” è troppo
lontana. La credono una bestiaccia, è vero, ma Agave aggiunge: uccidiamola
affinché non sveli le danze segrete del dio. Non è, quindi, una bestia, è un
uomo. “Madre, sono tuo figlio. Abbi pietà, mamma, non uccidere tuo figlio.”
L’agnello pasquale. Una mattanza. Lo fanno a pezzi, lui urlante fino all’ultimo
respiro. Il tirso porta ora un trofeo, la testa del re sacrilego. E Penteo ha
un nuovo corpo, il tirso di Dioniso, la sua arma terrificante. “E io mi
allontano da questo luogo di sventura” conclude il servo. “Essere moderati e
onorare gli dei è la cosa più bella”. Nessuno ha compiuto crimini. Si volta la
testa, si chiudono gli occhi. Si è fedeli, si è sudditi, si è sottomessi più di
prima, dopo il macello.
“Danziamo
in onore di Bacco (…) Bella vittoria: cingere con mano lorda di sangue la testa
del figlio”. Il coro danza e canta. Una processione per accompagnare la vittima
al luogo del sacrificio, un’altra per esibire il cadavere alla popolazione
civile e proclamare il trionfo del bene
nella polis. E Dioniso? Scomparso, la sua missione è conclusa. Va ad avviarne
un’altra dove ci sono atei ed empi a cui dare una lezione; e governanti
arroganti che s’illudono di fare a meno del dio. Riappare, tra poco, ma solo a
livello drammaturgico.
Via
lui, c’è un cambio d’atmosfera. Il coro sembra rinsavire e cala di tono:
“Sventurata donna, mostra dunque ai cittadini la tua preda di vittoria, che
rechi in trionfo”. Un tono di pietà acuito dall’assurdità della scena: una
madre che stacca la testa del figlio dal bastone su cui l’aveva conficcata e l’avvolge
in un sudario lordandosi del suo sangue. Trionfa, Agave, esalta sé stessa di
fronte al padre: “Ho lasciato la spola accanto al telaio e mi sono mossa a
imprese più ardite”. Eh, sì, chi entra in una setta si lascia tutto alle
spalle, ma le imprese ardite quasi sempre rovinano la vita, propria e altrui.
Il
baldanzoso Cadmo non agita più i cembali insieme all’amico Tiresia, che si è
defilato. “Non si può misurare questo dolore.” Non è nemmeno ora il Cadmo
mitico, l’uccisore del drago. Solo un vecchio avvilito, misurato nelle
espressioni perché svuotato. “Ora dovrò andarmene da casa, disprezzato, io, il
grande Cadmo che fondò la razza tebana. (…) Se c’è qualcuno che guarda gli dei
con superbia, osservi questa morte e impari a credere in loro”. Una fede
fondata sul terrore? Conduce passo dopo passo la figlia Agave verso la verità.
Che non ha niente di speciale, è solo realtà. La realtà di un cielo limpido,
“più luminoso di prima”. Terribile presa di coscienza, per Agave. “Dioniso ci
ha rovinato, ora capisco.” Mater dolorosa, ricompone le spoglie del figlio. È
la rovina totale per la famiglia di Cadmo, che non ha più né figli né nipoti
maschi.
In questa desolazione riappare Dioniso, come dio. Suo è l’epilogo. Lo immaginiamo alla testa di una processione imponente, seguito dai portatori di simboli, dai cantori, dalle ballerine e dalle prostitute sacre, dagli orfani, dai reduci, dalle vedove, dai rappresentanti delle corporazioni, dai magistrati, dai comandanti militari, dalla massa orante del popolo. Va a cacciare dalla città la famiglia del vecchio re, famiglia di empi; poi si dirige al palazzo dove impone alla comunità il proprio candidato, un uomo pio, pieno di timor di dio, dal cuore freddo, capace di qualunque crimine e soperchieria in difesa della religione.
Cinico e spietato, Dioniso illustra il tragico destino della famiglia di Cadmo: “… lasciare la città, scontando il castigo per quest’orrenda contaminazione…” L’orrore non sta nell’uccisione di Penteo (“Fu giusto che fosse punito così”), ma nel suo peccato di hybris, di arroganza verso gli dei. Cadmo lo implora: “Abbiamo sbagliato… ma il castigo è troppo grande.” Non c’è niente da fare, questa è la volontà di Zeus. Il dio-sacerdote scarica sempre sul capo degli dei le responsabilità dei propri eccidi. Volontà divina, destino: “Perché esitate davanti a ciò che è inevitabile?”
Cadmo
si umilia, tenta un’impossibile mediazione: nessuno sconto di pena. Agave,
invece, ha il coraggio di opporsi alla volontà del dio, rinnegandolo e
recuperando la propria integrità mentale e morale. “Andrò là dove il Citerone
maledetto non possa vedermi, né io possa vedere il Citerone, dove non esista
nemmeno la memoria del tirso. Di ciò si occupino altre baccanti”. La sua è
comunque una resa; riconosce che il dio non può essere sconfitto e altre
baccanti agiteranno il tirso e magari lo useranno ancora come arma.
La
scena conclusiva, emozionante, prevede che si tolga la nebride e che spezzi il
tirso. Ecco, ora è libera.
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