giovedì 3 dicembre 2015

UN RACCONTO STORICO: IL MAVLET DEI LUPI

Aquilino
Il Mavlèt dei lupi




MANIFESTO a Milano giugno1728: “Ritratto della Fiera Bestia veduta sul contado di Novara dove ha fatto e sta facendo strage di uomini e donne di ogni età, particolarmente nel territorio di di Oleggio,  Ghemme, di Momo e di Barengo e come si è ragguagliato da lettere e notizie riportate nella pubblica Gazetta di Milano n° 26 del 30 giugno 1728”


Nel giugno del 1728 avevo otto anni, essendo nel ’20 nato il 31 di dicembre, giorni di falò nelle cascine per bruciare sia l’anno vecchio sia gli spiriti maligni che gli si erano accumulati addosso. E forse uno spiritello me lo portavo anch’io nel cuore, come sospettavano in molti, dopo che il mio gemello era venuto alla luce morto; e così fino a due anni prima mi era capitato di sentirmi chiamare “il gemello vivo”. Poi altre vicende di vita s’erano portate via il sospetto che il fratellino l’avessi ammazzato io nella pancia della mamma. Questo, e il giorno della nascita infuocato come un inferno, avevano fatto di me uno da tenere d’occhio. Forse fu proprio il sospetto a rendermi irrequieto e passionale, impulsivo e temerario. Battezzato Pietro (e Paolo il morticino), fui chiamato dai più il Mavlèt per la mia abilità con il falcetto, adoperato con l’incoscienza del bambino che vuole bruciare i tempi per entrare a far parte del mondo degli adulti. Non ero un bambino benvoluto, soprattutto a causa delle piccole prepotenze e di una sanguigna predisposizione alla rissa, con la quale m’illudevo di risolvere i contrasti. Eppure non pativo solitudine. Avevo il mio esiguo seguito di succubi, del quale la coetanea Margherita Spagnoli era la regina. 

Il giorno 8, un lunedì, accompagnavo mio padre al mercato delle bestie,  avendo da rimpiazzare una capra che ci era morta, del cui latte mia madre aveva necessità. Allora non lo sapevo, ma dopo la mia nascita mia madre non era più rimasta incinta. L’aveva considerato un brutto segno divino, una punizione per chissà quali colpe non tanto sue quanto di qualcuno che aveva vicino, o il figlio o il marito, per cui si negò a mio padre che s’aggiustò con una vedova consolatrice; e con me fu sempre più brusca. Altri figli non potendo avere, mio padre si legò a me, l’erede. E le mie intemperanze le accettò come forza di carattere, lasciando a mia madre il compito, a lei gradito, di raddrizzarmi all’obbedienza con parole e con fatti per me dolorosi.
Nel giorno di mercato c’era una ressa straordinaria di cui i negozianti si erano più volte lagnati con il podestà. Con cinque mulini e sette forni, e più di cinquemila abitanti, Oleggio attirava moltitudine dai borghi di confine. Mio padre ne godeva i frutti, dato che il suo lavoro di carradore era stimato fin nel Milanese. Il lunedì era quasi impossibile entrare in un’osteria, c’erano vacche ovunque, non solo in piazza, fin sotto i portici; e non scherzo se dico che più volte una capra o un asino erano entrati in una mescita suscitando l’ira dell’oste.
“Ci lasciano tanta merda da spazzare, vero” rideva mio padre”, ma basta chiamarla concime e vedere che gli affari prosperano, che c’è da lamentarsi?”

Pure in quella confusione di compravendite e baratti, richiami striduli e colloqui animati, incidenti come il toro che scappava tra la gente facendo qua ridere e là gridare di paura, la notizia dell’accaduto piombò limpida come un mastello di acqua ghiacciata sulla testa di uno sprovveduto.
Mi stava parlando un fattore amico del papà, il Gerolamo Bonini, che nonostante la mia bizzarria mi aveva in simpatia.
“Mavlèt” mi contava accarezzandomi la testa, “ci ho un campo da diserbare e se vieni te in quattro e quattr’otto…”
Ma s’interruppe per l’agitazione allarmata che ci crebbe intorno. Ci vollero alcuni minuti per capire che un lupo aveva fatto disgrazie giù in direzione del porto, dove cinque garzoni stavano trasferendo le vacche da un pascolo all’altro. In zona non era una novità, quella del lupo. Si sapeva di assalti a Ghemme, nella primavera. Ma soprattutto rimbalzavano di qua e di là le storie di decine di morti sbranati portate in paese dal biellese e dal varesotto; e il mio papà era uno di quelli, con il suo lavoro, che raccoglieva i racconti meglio della Gazzetta. Io, che mi tenevo in disparte per non farmi cacciare, sentivo tutto e tutto venivo a conoscere. Di come il lupo impara che la preda umana è facile da catturare se è un bambino o una bambina; e di come trasmette l’esperienza agli altri lupi; e anche di come è goloso del sangue, per cui comincia il pasto dalla gola; e di come ci sono lupi che forse lupi non sono, ma spiriti maligni, diavoli, creature dell’inferno; e di come bisogna seppellirli in una fossa profonda quattro braccia annegati dentro la calce viva.
Cogliemmo una voce:
“… l’hanno portata nello spedale, ma ormai…”
“Tu sta’ qua con Gerolamo” mi comandò mio padre lanciando un’occhiata all’amico. Feci segno di sì, serio, ma era una delle mie tante bugie. Il Bonini troppo infervorato a chiacchierare per farmi da guardia, me la svignai verso la chiesa della Santa Maria Annunciata, dove c’era lo spedale. Lo sapevo che non mi facevano entrare, lo sapevo che là dentro c’era qualcosa che non dovevo vedere, ma nessuno mi fermava mai, quando mi fissavo di fare qualcosa. 

Ci arrivai con una corsa a urti e spintoni, gettai un’occhiata giù dalla costa dei Mazzeri e vidi la folla che arrancava per venire a sentire la brutta notizia; e là sulla porta nord della chiesa trovai un muro di gente che non potevo valicare. Mio padre ci era passato oltre perché faceva parte della Confraternita, ma io… Approfittai della sosta per aguzzare le orecchie. Sentii una voce acuta, mi feci sotto più che potei e intravidi il mio amico Giuseppe Vanoli. Lo stordivano di domande e lui, con gli occhi stregati di lacrime, raccontava tra i singhiozzi. La bestia era lunga due braccia, alta uno e mezzo, con la testa porcina, le orecchie cavalline, il pelo caprino lungo e folto, bianchiccio sotto il ventre e anche sulla coda lunga, ma rossiccio e corto sul dorso, con le zampe sottili, il piede largo, le unghie lunghe e grosse, e largo anche il petto, e stretto il fianco... E tutti annuivano perché era davvero bravo a ricordare e a contare facendosi coraggio; ma tanti li vedevo che si scambiavano occhiate come a dire: è un lupo o un drago? un mostro o un diavolo?
Non persi altro tempo, girai dietro il campanile e trovai sgombra l’entrata del prete, così la chiamavamo, proprio dirimpetto alla casa parrocchiale. M’infilai dentro con il fiato sospeso, dato che non entravo mai volentieri nella chiesa dell’Annunciata. Tutti noi bambini sapevamo che sotto il pavimento c’erano gli scheletri di quelli che erano stati impiccati nel campo della forca di Galnago, poco fuori il borgo. Sapevamo pure che gli impiccati erano morti non-morti, perché la loro anima non la volevano nemmeno i diavoli dell’inferno. E quindi se ne stavano là sotto a prendere a pugni la pietra e un giorno o l’altro sarebbero venuti fuori e allora ci sarebbe stata la fine del mondo. Infatti, fissavamo con orrore il pavimento che in più punti si era incurvato, come se lo tirassero dal basso. Qualcuno sentiva anche bruciare le piante dei piedi e si metteva a saltellare intanto che sentiva messa guadagnandosi sberlotti dalla madre.
Lanciai un’occhiata alla madonna di legno rivestita d’oro, che per fortuna se ne stava lì a controllare e a proteggerci.
E sentii il mio respiro forte che suonava tutta l’ansia che avevo dentro.

Me ne sto rasente al muro, convincendomi di essere invisibile; non posso avvicinarmi di più, mio padre è là davanti all’altare maggiore; discute con i suoi pari; se mi vede, mi sbatte fuori a calci. L’occasione propizia arriva presto. La ressa si scompagina per l’arrivo del prete in compagnia di cinque clarisse del monastero di San Giuseppe. Approfitto della confusione (tutti si spostano e hanno da raccontare) per mescolarmi ai chierichetti. Penso: li ha fatti venire per l’estrema unzione? Seguo il prete oltre la soglia dello spedale dei poveri addossato alla chiesa e dal buco d’ombra in cui mi calo la vedo come se ce l’avessi qui a portata di carezza, Margherita Spagnoli di anni otto appena compiuti, la mia regina. Non ha più il naso, non ha più un braccio, i vestiti laceri hanno il colore del sangue tiratole fuori del corpo in un colpo solo, la gola squarciata e così il petto, e ha gli occhi chiusi e la bocca aperta, ma non ha un’espressione di paura, è come addormentata e mi dico che sta facendo un bel sogno e che non ha nemmeno sofferto.
La fisso, la vedo e non la vedo, mi dico è Margherita e mi dico non è Margherita, la vedo e vorrei che aprisse gli occhi e mi salutasse e invece la vedo e penso: copritela, poveretta, che così nessuno deve vederla.
Sento urlare, è la madre, arriva come una tempesta che spinge via tutti e si abbatte sulla sua bambina straziata.
Nello stesso momento suona la campana a martello e non passa un’ora che suonano quelle dei cantoni; e immagino che anche nei paesi vicini i parroci diano l’ordine, e questo è l’allarme e l’ultimo saluto a Margherita, così come a martello rintocca il mio dolore.
Scappai via, con l’odio per i lupi nel mio piccolo cuore già tanto agitato.

Mentre correvo verso casa, giù in valle il lupo, giunto sotto San Donato, azzannò un uomo e tre donne, si avventò contro la Marta della cascina Bellora uscita a quietare i cani che lo respinse con la forca; morsicò quindi la sorella Domenica e un’altra donna. Raggiunta un’altra cascina aggredì una ragazzetta e un bambino e deviò verso i boschi del fiume azzannando Domenico Rega alla mascella, e Marianna Bonis al fianco. Ripresa quindi la fuga verso sud morsicò alla gamba una pastorella salvata dai cani e spaccò il naso a un carrettiere che se ne liberò a frustate.
Nei giorni seguenti non si parlò d’altro. La domenica fu organizzata una processione con messa solenne, alla quale si può dire che parteciparono tutti gli abitanti. Si erano da pochi giorni lasciati per il funerale di Margherita ed erano ancora confusi dal dolore e dalla paura. Su richiesta dei consoli, da Novara fu inviato un distaccamento di cavalleria per stanare la bestia che però (ma era sempre la stessa?) si era spostata di nuovo a Ghemme, dove sbranò un neonato abbandonato nella culla dai genitori in fuga. Nel corso del mese si contarono sedici aggressioni e all’inizio di luglio, da Milano, giunse il Capitano delle Cacce per comandare un esercito: trecentocinquanta uomini con tridente e falce e altri centocinquanta armati di schioppo, tra i quali il mio papà. Dal quale mi presi uno scappellotto perché ripetei per tre volte la mia supplica pressante di partecipare alla battuta con il mio falcetto.
Dopo tanto succo d’erba, voleva sangue di lupo per vendicare Margherita.
Non trovarono il lupo, solo la testa e un braccio di un tale Bartolomeo Perazzone di Cavaglià, di anni nove, ch’era di passaggio con la famiglia e si era appartato per un bisogno.

La calata della bestia sui prati di pascolo fu il motivo per cui imparai prima del previsto l’arte del carradore. Mia madre era sempre più assente verso gli altri e più attenta ai propri mali e alle proprie necessità spirituali, per cui passava più tempo in chiesa e dallo speziale che in casa. Fu quindi mio padre a decretare che non andassi più a fare erba per le conigliere o a tenere animali al pascolo. Resistetti più che potei ai suoi comandi, dato che mi toglieva la possibilità di frequentare i coetanei. E poi m’ero fissato che prima o poi avrei incontrato il lupo assassino e gli avrei tagliato la testa.  Mi carcerò nella bottega insieme agli artigiani e agli apprendisti, a fare il poco che potevo, esortandomi a imparare. A mio padre volevo bene, non riuscivo a portargli astio; tutto l’odio per la mia situazione lo riversai sui lupi. Era colpa loro se la mia infanzia finiva e cominciava l’età adulta.
Dopo qualche mese di mugugni, il carattere esuberante, la curiosità innata e l’abilità per le cose pratiche mi spianarono il terreno verso un’accettazione serena del destino; e mi guadagnai il rispetto e l’amore di mio padre che mi vedeva apprendere in fretta.
Quando compii quattordici anni, mi regalò uno schioppo.
“In giro non lo porti, se non ci sono anch’io. E spari quando te lo dico io” mi disse serio.
Accettai senza recriminazioni, essendomi fatta la convinzione che procedere un passo dopo l’altro premia la pazienza prevenendo le cadute. Il mio carattere d’impulsi e ripicche si piegava al vento della vita. Mi misi quindi in attesa di un’altra caccia al lupo, che purtroppo non giunse. Le bestiacce attaccavano tutte nel biellese, facendo grande strage. Le poche venute giù dalle colline seguendo il Ticino trovarono contadini armati che vegliavano sui piccoli mandriani, come tanti editti avevano raccomandato. E furono inforcate e portate in piazza come trofei per convincere la gente a tenere alta la guardia.
Io fremevo dalla voglia di correre nelle terre infestate per combattere contro i demoni che mi avevano portato via la piccola Margherita. Il cui ricordo, però, era sempre più sbiadito. Non sbiadiva l’odio per i lupi.
Con il tempo, imparai non solo a costruire e vendere carri, ma ad andare d’accordo con la gente, per quanto qualcuno mi trovasse sempre un poco brusco.
“E i lupi, Mavlèt?”
A chi me lo domandava, lanciavo un’occhiata che non gli faceva fare altre domande.

Mi sposai che avevo appena diciotto anni nel maggio 1739, quando da tre mesi eravamo diventati sudditi del re Carlo Emanuele III di Savoia e sottoposti all’autorità del governatore il marchese Rivarolo, di stanza a Novara. Austriaci o savoiardi, noi si pensava a costruire carri e la vita ci portava come una corrente di fiume, che quando si ferma fa palude. Feci tre figli, e a tutti e tre insegnai come fa il lupo, che sta in agguato, sceglie la preda facile, balza fuori come una saetta e se la trascina in un posto tranquillo dove l’azzanna alla gola e la mangia. Di stare attenti soprattutto in primavera, gli insegnai, che le lupe hanno i cuccioli da nutrire.
Fu nel 1765, io di anni 45, che mi ritrovai di nuovo nella tempesta dei lupi mangiatori di uomini e nella bufera dei lupi assatanati, i lupi rabidi. Rabbiosi come lo diventavano le prede ferite, destinate a una morte atroce.
Ero con il mio figliolo maggiore, Paolo, presto a sposarsi con una brava ragazza figlia di panettiere, che s’andava a Milano per una fiera, partiti a notte ancora fonda con il carro migliore, da mostrare per fare contratti anche a lungo termine. Avevamo lavoro per anni, nella nostra bottega.
Ci fermammo a Cusago per ritirare un credito e facemmo ristoro in una locanda, dove mi stupii di trovare l’oste di poche parole, scuro in viso; anzi, di espressione sconvolta. C’erano alcuni operai che si raccoglievano per andare insieme al lavoro e a bassa voce domandai se fosse successa qualche disgrazia.
“Una disgrazia grande” mi rispose uno. “Gli è morto il figlio che sarà neanche tre giorni. Mangiato dal lupo.”
Quella parola, ogni volta che la sentivo, mi scatenava un lampo nella testa e dovevo subito sapere tutto e anche di più, così lo invitai a raccontarmi.
Antonio Gaudenzio di anni dieci portò la vacca al pascolo, ma s’addormentò nella calura del pomeriggio e al risveglio non trovò più l’animale. Lo cercò lungo tutta la piana erbosa, poi entrò nel bosco che si estende tra il Naviglio e la strada per Novara, ma non ebbe l’animo di andare oltre i pochi passi, per paura dei lupi che vi stazionavano. Tornò a casa con la speranza che la vacca ci fosse già arrivata per conto proprio, ma così non era. Il padre lo accolse in malo modo, minacciandolo di castighi paurosi se non avesse riportato la bestia prima del buio, che già cominciava a calare. E così piangendo di disperazione e terrore il bambino se ne tornò al bosco, e ci rimase.
Il padre, non vedendolo tornare, capì quanto era stato crudele a rimandarlo indietro e alle prime luci dell’alba partì alla ricerca del figlio. Trovò invece la vacca che pascolava tranquilla, ma dell’Antonio nessun segno. Ci volle l’aiuto dei compaesani per trovare, il giorno dopo, un lembo di camicia e i calzoncini insanguinati; e, cento passi più in là, la testa scarnata e una mano che pareva aperta a fermare la belva.
Il racconto mi fece piombare in una cupa costernazione e mio figlio Paolo si accomodò al mio silenzio e procedemmo come due che avessero litigato, lo sguardo fisso in avanti.

Era pomeriggio quando giungemmo alla fiera e Paolo aveva fame, così ci accomodammo sulle panche di un’osteria all’aperto, che faceva carne e polenta sulla brace. Chiesi subito dei lupi, di quello che sapevano. E la moglie dell’oste ci disse:
“Lupi, sì. E la jena?”
“La jena?”
“Ma non lo sapete che un tale Bartolomeo Cappellini si è fatto scappare una delle due jene che mostrava alla gente dentro una gabbia? E lo sapete voi cos’è una jena?”
Ce lo spiegò con passione, soprattutto perché la sua nipotina era nel gruppo dei ragazzi che avevano trovato scampo sugli alberi, quando la bestia li aveva attaccati.
“E il Cappellini?”
“Lo cercano per metterlo in prigione, ma quello se n’è già uscito dallo stato austriaco e dicono che è già in Veneto a farsi scappare anche l’altra bestia.”
La donna era tutta presa solo dalla jena, ma io volevo sentire le novità dei lupi; e me le passò una brigata di giovani che parevano studenti e chissà che cosa ci facevano lì.
“Di lupi ce n’è fin alle porte di Milano” raccontò uno, “tanto che la gente vive nel terrore. E allora c’è chi si vede venire incontro un vitello o una capra e grida al lupo e scappa. Gli schioppi sono a portata di mano e si spara fin troppo. La sapete quella del contadino che ha sparato palle incatenate e ha buttato giù l’albero invece della bestia? E dell’altro che ha lasciato una vacca attossicata al limite del bosco e ha avvelenato i cani dei vicini?”
“Io ne so una” raccontò un altro. “Di quei baldi giovani… proprio come noi… che si recarono all’osteria di tutto armati e finito il pranzo uno di loro uscì e rientrò gridando che c’era il lupo proprio lì fuori. Balzarono tutti alla battaglia, l’oste soddisfatto perché un ammazzamento avrebbe richiamato avventori. Ma ancora adesso è lì che aspetta i giovani a saldare il conto.”
Raccontavano e ridevano, com’era nello stile della gioventù, ma io rimuginavo sui danni e sullo scompiglio che i lupi portavano tra la brava gente. E mi veniva voglia di armarmi e di entrare nei boschi gridando:
“Sono qua, lupi! Sono il Mavlèt dei lupi! Quello che vi ammazza tutti!”
Lupi senza pietà, lupi che mangiavano i bambini innocenti. Lupi rabbiosi. Entravano nei centri abitati e mordevano tutto, anche le porte delle case, anche gli alberi dei viali. Sul loro cammino erano capaci di mordere cento capi di bestiame, i cani dei fattori, i fattori stessi. E quelli che venivano morsi diventavano rabbiosi a loro volta e chi li salvava da un morbo che pareva inventato da Satana in persona?
Lupi, una disgrazia che più grande non c’è.
Adesso, però, sono vecchio.
Non vado più alle fiere oltrefiume, ci vanno i figli.
Io siedo in bottega e borbotto se un lavoro mi pare fatto male dalle nuove leve che non hanno più la pazienza di una volta. Quando viene gente, domando:
“E i lupi? Si dice qualcosa, dei lupi?”
Certo che se ne dice.
A Varallo Sesia non hanno mangiato il braccio di una bambina dell’età della mia Margherita? Solo che questa l’han salvata le vacche che si sono rivoltate contro la bestia e pare che l’abbiano perfino incornata, perché ha lasciato sangue sull’erba. La bambina vivrà monca, ma vivrà. E su nell’Ossola, i lupi a branchi. Un danno enorme, per il bestiame; tanto che i Consoli hanno comandato una caccia stabilendo un premio di 25 lire a chi un lupo e di 35 lire a chi un orso consegna vivi o morti. E il secolo finisce e sto per finire anch’io. Mia moglie se n’è andata da tempo, i miei figli sono sposati, mi hanno dato nipoti in quantità.
La vita viene, la vita se ne va.

Ma i lupi restano, questo ho capito. Per quanto gli diamo la caccia, loro s’inforestano su in montagna, poi vengono giù e qualcuno è ammazzato. Ma gli altri figliano e tornano a vendicare i morti. Mangiano bambini perché sono facili da prendere. Sono fatti di carne, i bambini. Se fossi un lupo, anch’io mangerei bambini. A Milano diventano ancora matti di paura, per i lupi.
“La Congregazione Municipale di Milano notifica al pubblico d’avere in via sussidiaria alle providenze già date dalla Regia Conferenza Governativa, ed attese le straordinarie circostanze del caso, stabilito un premio di Zecchini 50 per l’uccisione di quella qualunque Bestia, che da qualche tempo infesta la Provincia, e die’ morte ad alcuni fanciulli riportandosi per la prova, e pagamento al disposto nel recente Avviso della prefata Regia Conferenza, e di avere inoltre ordinata per agevolare tale uccisione la consegna de’ fucili, e bajonette dell’ armerìa civica, che si richiederanno per le Comunità dai Regi Cancellieri distrettuali muniti delle opportune facoltà contro loro obbligo in iscritto di farne la restituzione in istato lodevole tosto cessato il bisogno.”
Questo scrivono a Milano il 7 Agosto 1792.

L’anno dopo, per il mio figlio maggiore Paolo c’è un lutto che ferisce anche me, perché il Clemente Valentini, fornaio, era un bravuomo davvero, generoso e di buon carattere. Un tale Antonio Dazio, detto il Cravè, uno di brutta fama, alto e secco e rugoso come un vitigno, prima dell’alba di un giorno maledetto, ha fatto uscire il suocero di mio figlio per fargli rendere conto di una partita di pane che voleva senza pagare, come già altre volte, perché il Cravè è uno che con la prepotenza pensa di aggiustare la vita.
Clemente gli dice che basta, non è giusto che si faccia mantenere, che deve cercarsi un lavoro e quello, gonfio di vino come una botte, gli dà di bastone e poi di coltello e lo trascina dalle parti del castello e lo butta giù dalla ripa.
Preso dopo una settimana in quel di Arona e riportato a Oleggio è condannato a galera perpetua, con la gente che grida: impiccalo! impiccalo! e se lui è stato un lupo, tanti lupi parevano quelli che lo volevano morto.
E così è, che lupi si è di natura e lupi si diventa anche noi uomini. E adesso che sono vecchio e pronto a chiudere questa partita con la vita, ci vedo meglio di prima che ero giovane e troppo svelto, e quello che vedo non fa paura, mette pace.
I lupi non leggono, e nemmeno ricevono le notizie seduti in una bottega di carradore come faccio io. I lupi, però, sanno. Che per prendersi i bambini devono battagliare con l’uomo. La natura è fatta così, mi dico mentre mi appisolo. Che uno ammazza l’altro per sopravvivere. Siamo solo noi uomini che ammazziamo senza un perché, che facciamo le guerre chissà perché. Eravamo degli austriaci, poi siamo diventati dei Savoia, adesso siamo dei francesi di Napoleone. I lupi sono liberi. Il pensiero più strano che mi viene è questo: io muoio, ci manca ormai pochi mesi, me la sento; e loro continuano a vivere, a ringhiare, a correre, ad azzannare, a uccidere, a mangiare i bambini.
E non è così, la vita?


a)      Documenti vari presso il Museo Civico di Oleggio.
b) Comunicazione presentata al  Seminario “VIVERE LA MORTE NEL SETTECENTO”organizzato dalla “Società Italiana di Studi sul Secolo XVIII” - Santa Margherita Ligure 30 settembre - 2 ottobre 2002.  Si ringraziano gli Autori Aldo Oriani  e Mario Comincini.

c)      Nel ballatoio ligneo che si affaccia sull'atrio della Biblioteca Nazionale Braidense si trova una raccolta di scritti e opuscoli vari di argomento lombardo, costituita da una serie di cartelle che riportano sul dorso la segnatura Miscellanea 14.16. Nell'atmosfera un po' cupa, appesantita dalle strutture di legno antico, ma illuminata dai violenti fiotti di luce che si riversano dalle finestre che si aprono su un cortile interno del palazzo di Brera, emergono dalle cartelle dalla copertina violacea opuscoli di formati differenti, legati insieme. Uno di questi, che appare in apertura di cartella, è un opuscolo di poco più di sessanta pagine, stampato in caratteri piuttosto grandi, su una carta di colore chiaro, di qualità discreta; nel frontespizio il titolo Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia feroce nell'Alto Milanese dai primi di Luglio dell'anno 1792 sino al giorno 18 settembre p. p. In Milano, A spesa dello Stampatore Bolzani, [1792]- Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 14.16.E.8.20 - Edizione digitale a cura di Guido Mura.

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