Aquilino
Il Mavlèt dei lupi
MANIFESTO a Milano giugno1728:
“Ritratto della Fiera Bestia veduta sul contado di Novara dove ha fatto e sta
facendo strage di uomini e donne di ogni età, particolarmente nel territorio di
di Oleggio, Ghemme, di Momo e di Barengo
e come si è ragguagliato da lettere e notizie riportate nella pubblica Gazetta
di Milano n° 26 del 30 giugno 1728”
Nel
giugno del 1728 avevo otto anni, essendo nel ’20 nato il 31 di dicembre, giorni
di falò nelle cascine per bruciare sia l’anno vecchio sia gli spiriti maligni
che gli si erano accumulati addosso. E forse uno spiritello me lo portavo
anch’io nel cuore, come sospettavano in molti, dopo che il mio gemello era venuto
alla luce morto; e così fino a due anni prima mi era capitato di sentirmi
chiamare “il gemello vivo”. Poi altre vicende di vita s’erano portate via il
sospetto che il fratellino l’avessi ammazzato io nella pancia della mamma.
Questo, e il giorno della nascita infuocato come un inferno, avevano fatto di
me uno da tenere d’occhio. Forse fu proprio il sospetto a rendermi irrequieto e
passionale, impulsivo e temerario. Battezzato Pietro (e Paolo il morticino),
fui chiamato dai più il Mavlèt per la
mia abilità con il falcetto, adoperato con l’incoscienza del bambino che vuole
bruciare i tempi per entrare a far parte del mondo degli adulti. Non ero un
bambino benvoluto, soprattutto a causa delle piccole prepotenze e di una
sanguigna predisposizione alla rissa, con la quale m’illudevo di risolvere i
contrasti. Eppure non pativo solitudine. Avevo il mio esiguo seguito di succubi,
del quale la coetanea Margherita Spagnoli era la regina.
Il
giorno 8, un lunedì, accompagnavo mio padre al mercato delle bestie, avendo da rimpiazzare una capra che ci era
morta, del cui latte mia madre aveva necessità. Allora non lo sapevo, ma dopo
la mia nascita mia madre non era più rimasta incinta. L’aveva considerato un brutto
segno divino, una punizione per chissà quali colpe non tanto sue quanto di
qualcuno che aveva vicino, o il figlio o il marito, per cui si negò a mio padre
che s’aggiustò con una vedova consolatrice; e con me fu sempre più brusca.
Altri figli non potendo avere, mio padre si legò a me, l’erede. E le mie
intemperanze le accettò come forza di carattere, lasciando a mia madre il
compito, a lei gradito, di raddrizzarmi all’obbedienza con parole e con fatti
per me dolorosi.
Nel
giorno di mercato c’era una ressa straordinaria di cui i negozianti si erano
più volte lagnati con il podestà. Con cinque mulini e sette forni, e più di
cinquemila abitanti, Oleggio attirava moltitudine dai borghi di confine. Mio
padre ne godeva i frutti, dato che il suo lavoro di carradore era stimato fin
nel Milanese. Il lunedì era quasi impossibile entrare in un’osteria, c’erano
vacche ovunque, non solo in piazza, fin sotto i portici; e non scherzo se dico
che più volte una capra o un asino erano entrati in una mescita suscitando
l’ira dell’oste.
“Ci
lasciano tanta merda da spazzare, vero” rideva mio padre”, ma basta chiamarla
concime e vedere che gli affari prosperano, che c’è da lamentarsi?”
Pure
in quella confusione di compravendite e baratti, richiami striduli e colloqui
animati, incidenti come il toro che scappava tra la gente facendo qua ridere e
là gridare di paura, la notizia dell’accaduto piombò limpida come un mastello
di acqua ghiacciata sulla testa di uno sprovveduto.
Mi
stava parlando un fattore amico del papà, il Gerolamo Bonini, che nonostante la
mia bizzarria mi aveva in simpatia.
“Mavlèt”
mi contava accarezzandomi la testa, “ci ho un campo da diserbare e se vieni te
in quattro e quattr’otto…”
Ma
s’interruppe per l’agitazione allarmata che ci crebbe intorno. Ci vollero
alcuni minuti per capire che un lupo aveva fatto disgrazie giù in direzione del
porto, dove cinque garzoni stavano trasferendo le vacche da un pascolo
all’altro. In zona non era una novità, quella del lupo. Si sapeva di assalti a
Ghemme, nella primavera. Ma soprattutto rimbalzavano di qua e di là le storie di
decine di morti sbranati portate in paese dal biellese e dal varesotto; e il
mio papà era uno di quelli, con il suo lavoro, che raccoglieva i racconti
meglio della Gazzetta. Io, che mi tenevo in disparte per non farmi cacciare,
sentivo tutto e tutto venivo a conoscere. Di come il lupo impara che la preda
umana è facile da catturare se è un bambino o una bambina; e di come trasmette l’esperienza
agli altri lupi; e anche di come è goloso del sangue, per cui comincia il pasto
dalla gola; e di come ci sono lupi che forse lupi non sono, ma spiriti maligni,
diavoli, creature dell’inferno; e di come bisogna seppellirli in una fossa
profonda quattro braccia annegati dentro la calce viva.
Cogliemmo
una voce:
“…
l’hanno portata nello spedale, ma ormai…”
“Tu
sta’ qua con Gerolamo” mi comandò mio padre lanciando un’occhiata all’amico. Feci
segno di sì, serio, ma era una delle mie tante bugie. Il Bonini troppo
infervorato a chiacchierare per farmi da guardia, me la svignai verso la chiesa
della Santa Maria Annunciata, dove c’era lo spedale. Lo sapevo che non mi facevano
entrare, lo sapevo che là dentro c’era qualcosa che non dovevo vedere, ma
nessuno mi fermava mai, quando mi fissavo di fare qualcosa.
Ci arrivai con una corsa a urti e spintoni, gettai un’occhiata giù dalla costa dei Mazzeri e vidi la folla che arrancava per venire a sentire la brutta notizia; e là sulla porta nord della chiesa trovai un muro di gente che non potevo valicare. Mio padre ci era passato oltre perché faceva parte della Confraternita, ma io… Approfittai della sosta per aguzzare le orecchie. Sentii una voce acuta, mi feci sotto più che potei e intravidi il mio amico Giuseppe Vanoli. Lo stordivano di domande e lui, con gli occhi stregati di lacrime, raccontava tra i singhiozzi. La bestia era lunga due braccia, alta uno e mezzo, con la testa porcina, le orecchie cavalline, il pelo caprino lungo e folto, bianchiccio sotto il ventre e anche sulla coda lunga, ma rossiccio e corto sul dorso, con le zampe sottili, il piede largo, le unghie lunghe e grosse, e largo anche il petto, e stretto il fianco... E tutti annuivano perché era davvero bravo a ricordare e a contare facendosi coraggio; ma tanti li vedevo che si scambiavano occhiate come a dire: è un lupo o un drago? un mostro o un diavolo?
Ci arrivai con una corsa a urti e spintoni, gettai un’occhiata giù dalla costa dei Mazzeri e vidi la folla che arrancava per venire a sentire la brutta notizia; e là sulla porta nord della chiesa trovai un muro di gente che non potevo valicare. Mio padre ci era passato oltre perché faceva parte della Confraternita, ma io… Approfittai della sosta per aguzzare le orecchie. Sentii una voce acuta, mi feci sotto più che potei e intravidi il mio amico Giuseppe Vanoli. Lo stordivano di domande e lui, con gli occhi stregati di lacrime, raccontava tra i singhiozzi. La bestia era lunga due braccia, alta uno e mezzo, con la testa porcina, le orecchie cavalline, il pelo caprino lungo e folto, bianchiccio sotto il ventre e anche sulla coda lunga, ma rossiccio e corto sul dorso, con le zampe sottili, il piede largo, le unghie lunghe e grosse, e largo anche il petto, e stretto il fianco... E tutti annuivano perché era davvero bravo a ricordare e a contare facendosi coraggio; ma tanti li vedevo che si scambiavano occhiate come a dire: è un lupo o un drago? un mostro o un diavolo?
Non
persi altro tempo, girai dietro il campanile e trovai sgombra l’entrata del
prete, così la chiamavamo, proprio dirimpetto alla casa parrocchiale. M’infilai
dentro con il fiato sospeso, dato che non entravo mai volentieri nella chiesa
dell’Annunciata. Tutti noi bambini sapevamo che sotto il pavimento c’erano gli
scheletri di quelli che erano stati impiccati nel campo della forca di Galnago,
poco fuori il borgo. Sapevamo pure che gli impiccati erano morti non-morti,
perché la loro anima non la volevano nemmeno i diavoli dell’inferno. E quindi
se ne stavano là sotto a prendere a pugni la pietra e un giorno o l’altro
sarebbero venuti fuori e allora ci sarebbe stata la fine del mondo. Infatti, fissavamo
con orrore il pavimento che in più punti si era incurvato, come se lo tirassero
dal basso. Qualcuno sentiva anche bruciare le piante dei piedi e si metteva a
saltellare intanto che sentiva messa guadagnandosi sberlotti dalla madre.
Lanciai
un’occhiata alla madonna di legno rivestita d’oro, che per fortuna se ne stava
lì a controllare e a proteggerci.
E
sentii il mio respiro forte che suonava tutta l’ansia che avevo dentro.
Me ne
sto rasente al muro, convincendomi di essere invisibile; non posso avvicinarmi
di più, mio padre è là davanti all’altare maggiore; discute con i suoi pari; se
mi vede, mi sbatte fuori a calci. L’occasione propizia arriva presto. La ressa
si scompagina per l’arrivo del prete in compagnia di cinque clarisse del
monastero di San Giuseppe. Approfitto della confusione (tutti si spostano e
hanno da raccontare) per mescolarmi ai chierichetti. Penso: li ha fatti venire
per l’estrema unzione? Seguo il prete oltre la soglia dello spedale dei poveri addossato
alla chiesa e dal buco d’ombra in cui mi calo la vedo come se ce l’avessi qui a
portata di carezza, Margherita Spagnoli di anni otto appena compiuti, la mia
regina. Non ha più il naso, non ha più un braccio, i vestiti laceri hanno il colore
del sangue tiratole fuori del corpo in un colpo solo, la gola squarciata e così
il petto, e ha gli occhi chiusi e la bocca aperta, ma non ha un’espressione di
paura, è come addormentata e mi dico che sta facendo un bel sogno e che non ha
nemmeno sofferto.
La
fisso, la vedo e non la vedo, mi dico è Margherita e mi dico non è Margherita,
la vedo e vorrei che aprisse gli occhi e mi salutasse e invece la vedo e penso:
copritela, poveretta, che così nessuno deve vederla.
Sento
urlare, è la madre, arriva come una tempesta che spinge via tutti e si abbatte
sulla sua bambina straziata.
Nello
stesso momento suona la campana a martello e non passa un’ora che suonano quelle
dei cantoni; e immagino che anche nei paesi vicini i parroci diano l’ordine, e
questo è l’allarme e l’ultimo saluto a Margherita, così come a martello
rintocca il mio dolore.
Scappai
via, con l’odio per i lupi nel mio piccolo cuore già tanto agitato.
Mentre
correvo verso casa, giù in valle il lupo, giunto sotto San Donato, azzannò un
uomo e tre donne, si avventò contro la Marta della cascina Bellora uscita a
quietare i cani che lo respinse con la forca; morsicò quindi la sorella Domenica
e un’altra donna. Raggiunta un’altra cascina aggredì una ragazzetta e un
bambino e deviò verso i boschi del fiume azzannando Domenico Rega alla
mascella, e Marianna Bonis al fianco. Ripresa quindi la fuga verso sud morsicò
alla gamba una pastorella salvata dai cani e spaccò il naso a un carrettiere
che se ne liberò a frustate.
Nei
giorni seguenti non si parlò d’altro. La domenica fu organizzata una
processione con messa solenne, alla quale si può dire che parteciparono tutti
gli abitanti. Si erano da pochi giorni lasciati per il funerale di Margherita
ed erano ancora confusi dal dolore e dalla paura. Su richiesta dei consoli, da
Novara fu inviato un distaccamento di cavalleria per stanare la bestia che però
(ma era sempre la stessa?) si era spostata di nuovo a Ghemme, dove sbranò un
neonato abbandonato nella culla dai genitori in fuga. Nel corso del mese si
contarono sedici aggressioni e all’inizio di luglio, da Milano, giunse il
Capitano delle Cacce per comandare un esercito: trecentocinquanta uomini con
tridente e falce e altri centocinquanta armati di schioppo, tra i quali il mio
papà. Dal quale mi presi uno scappellotto perché ripetei per tre volte la mia supplica
pressante di partecipare alla battuta con il mio falcetto.
Dopo
tanto succo d’erba, voleva sangue di lupo per vendicare Margherita.
Non
trovarono il lupo, solo la testa e un braccio di un tale Bartolomeo Perazzone
di Cavaglià, di anni nove, ch’era di passaggio con la famiglia e si era
appartato per un bisogno.
La
calata della bestia sui prati di pascolo fu il motivo per cui imparai prima del
previsto l’arte del carradore. Mia madre era sempre più assente verso gli altri
e più attenta ai propri mali e alle proprie necessità spirituali, per cui
passava più tempo in chiesa e dallo speziale che in casa. Fu quindi mio padre a
decretare che non andassi più a fare erba per le conigliere o a tenere animali
al pascolo. Resistetti più che potei ai suoi comandi, dato che mi toglieva la
possibilità di frequentare i coetanei. E poi m’ero fissato che prima o poi
avrei incontrato il lupo assassino e gli avrei tagliato la testa. Mi carcerò nella bottega insieme agli
artigiani e agli apprendisti, a fare il poco che potevo, esortandomi a imparare.
A mio padre volevo bene, non riuscivo a portargli astio; tutto l’odio per la
mia situazione lo riversai sui lupi. Era colpa loro se la mia infanzia finiva e
cominciava l’età adulta.
Dopo
qualche mese di mugugni, il carattere esuberante, la curiosità innata e
l’abilità per le cose pratiche mi spianarono il terreno verso un’accettazione
serena del destino; e mi guadagnai il rispetto e l’amore di mio padre che mi
vedeva apprendere in fretta.
Quando
compii quattordici anni, mi regalò uno schioppo.
“In
giro non lo porti, se non ci sono anch’io. E spari quando te lo dico io” mi
disse serio.
Accettai
senza recriminazioni, essendomi fatta la convinzione che procedere un passo
dopo l’altro premia la pazienza prevenendo le cadute. Il mio carattere
d’impulsi e ripicche si piegava al vento della vita. Mi misi quindi in attesa
di un’altra caccia al lupo, che purtroppo non giunse. Le bestiacce attaccavano
tutte nel biellese, facendo grande strage. Le poche venute giù dalle colline
seguendo il Ticino trovarono contadini armati che vegliavano sui piccoli
mandriani, come tanti editti avevano raccomandato. E furono inforcate e portate
in piazza come trofei per convincere la gente a tenere alta la guardia.
Io
fremevo dalla voglia di correre nelle terre infestate per combattere contro i
demoni che mi avevano portato via la piccola Margherita. Il cui ricordo, però,
era sempre più sbiadito. Non sbiadiva l’odio per i lupi.
Con
il tempo, imparai non solo a costruire e vendere carri, ma ad andare d’accordo
con la gente, per quanto qualcuno mi trovasse sempre un poco brusco.
“E i
lupi, Mavlèt?”
A chi
me lo domandava, lanciavo un’occhiata che non gli faceva fare altre domande.
Mi
sposai che avevo appena diciotto anni nel maggio 1739, quando da tre mesi
eravamo diventati sudditi del re Carlo Emanuele III di Savoia e sottoposti
all’autorità del governatore il marchese Rivarolo, di stanza a Novara. Austriaci
o savoiardi, noi si pensava a costruire carri e la vita ci portava come una
corrente di fiume, che quando si ferma fa palude. Feci tre figli, e a tutti e
tre insegnai come fa il lupo, che sta in agguato, sceglie la preda facile,
balza fuori come una saetta e se la trascina in un posto tranquillo dove
l’azzanna alla gola e la mangia. Di stare attenti soprattutto in primavera, gli
insegnai, che le lupe hanno i cuccioli da nutrire.
Fu
nel 1765, io di anni 45, che mi ritrovai di nuovo nella tempesta dei lupi
mangiatori di uomini e nella bufera dei lupi assatanati, i lupi rabidi.
Rabbiosi come lo diventavano le prede ferite, destinate a una morte atroce.
Ero
con il mio figliolo maggiore, Paolo, presto a sposarsi con una brava ragazza
figlia di panettiere, che s’andava a Milano per una fiera, partiti a notte
ancora fonda con il carro migliore, da mostrare per fare contratti anche a
lungo termine. Avevamo lavoro per anni, nella nostra bottega.
Ci
fermammo a Cusago per ritirare un credito e facemmo ristoro in una locanda,
dove mi stupii di trovare l’oste di poche parole, scuro in viso; anzi, di
espressione sconvolta. C’erano alcuni operai che si raccoglievano per andare
insieme al lavoro e a bassa voce domandai se fosse successa qualche disgrazia.
“Una
disgrazia grande” mi rispose uno. “Gli è morto il figlio che sarà neanche tre
giorni. Mangiato dal lupo.”
Quella
parola, ogni volta che la sentivo, mi scatenava un lampo nella testa e dovevo
subito sapere tutto e anche di più, così lo invitai a raccontarmi.
Antonio
Gaudenzio di anni dieci portò la vacca al pascolo, ma s’addormentò nella calura
del pomeriggio e al risveglio non trovò più l’animale. Lo cercò lungo tutta la
piana erbosa, poi entrò nel bosco che si estende tra il Naviglio e la strada
per Novara, ma non ebbe l’animo di andare oltre i pochi passi, per paura dei
lupi che vi stazionavano. Tornò a casa con la speranza che la vacca ci fosse
già arrivata per conto proprio, ma così non era. Il padre lo accolse in malo
modo, minacciandolo di castighi paurosi se non avesse riportato la bestia prima
del buio, che già cominciava a calare. E così piangendo di disperazione e
terrore il bambino se ne tornò al bosco, e ci rimase.
Il
padre, non vedendolo tornare, capì quanto era stato crudele a rimandarlo
indietro e alle prime luci dell’alba partì alla ricerca del figlio. Trovò
invece la vacca che pascolava tranquilla, ma dell’Antonio nessun segno. Ci
volle l’aiuto dei compaesani per trovare, il giorno dopo, un lembo di camicia e
i calzoncini insanguinati; e, cento passi più in là, la testa scarnata e una
mano che pareva aperta a fermare la belva.
Il
racconto mi fece piombare in una cupa costernazione e mio figlio Paolo si
accomodò al mio silenzio e procedemmo come due che avessero litigato, lo
sguardo fisso in avanti.
Era
pomeriggio quando giungemmo alla fiera e Paolo aveva fame, così ci accomodammo
sulle panche di un’osteria all’aperto, che faceva carne e polenta sulla brace.
Chiesi subito dei lupi, di quello che sapevano. E la moglie dell’oste ci disse:
“Lupi,
sì. E la jena?”
“La
jena?”
“Ma
non lo sapete che un tale Bartolomeo Cappellini si è fatto scappare una delle
due jene che mostrava alla gente dentro una gabbia? E lo sapete voi cos’è una
jena?”
Ce lo
spiegò con passione, soprattutto perché la sua nipotina era nel gruppo dei
ragazzi che avevano trovato scampo sugli alberi, quando la bestia li aveva
attaccati.
“E il
Cappellini?”
“Lo
cercano per metterlo in prigione, ma quello se n’è già uscito dallo stato
austriaco e dicono che è già in Veneto a farsi scappare anche l’altra bestia.”
La
donna era tutta presa solo dalla jena, ma io volevo sentire le novità dei lupi;
e me le passò una brigata di giovani che parevano studenti e chissà che cosa ci
facevano lì.
“Di
lupi ce n’è fin alle porte di Milano” raccontò uno, “tanto che la gente vive
nel terrore. E allora c’è chi si vede venire incontro un vitello o una capra e
grida al lupo e scappa. Gli schioppi sono a portata di mano e si spara fin
troppo. La sapete quella del contadino che ha sparato palle incatenate e ha
buttato giù l’albero invece della bestia? E dell’altro che ha lasciato una
vacca attossicata al limite del bosco e ha avvelenato i cani dei vicini?”
“Io
ne so una” raccontò un altro. “Di quei baldi giovani… proprio come noi… che si
recarono all’osteria di tutto armati e finito il pranzo uno di loro uscì e
rientrò gridando che c’era il lupo proprio lì fuori. Balzarono tutti alla
battaglia, l’oste soddisfatto perché un ammazzamento avrebbe richiamato
avventori. Ma ancora adesso è lì che aspetta i giovani a saldare il conto.”
Raccontavano
e ridevano, com’era nello stile della gioventù, ma io rimuginavo sui danni e
sullo scompiglio che i lupi portavano tra la brava gente. E mi veniva voglia di
armarmi e di entrare nei boschi gridando:
“Sono
qua, lupi! Sono il Mavlèt dei lupi! Quello che vi ammazza tutti!”
Lupi
senza pietà, lupi che mangiavano i bambini innocenti. Lupi rabbiosi. Entravano
nei centri abitati e mordevano tutto, anche le porte delle case, anche gli
alberi dei viali. Sul loro cammino erano capaci di mordere cento capi di
bestiame, i cani dei fattori, i fattori stessi. E quelli che venivano morsi
diventavano rabbiosi a loro volta e chi li salvava da un morbo che pareva
inventato da Satana in persona?
Lupi,
una disgrazia che più grande non c’è.
Adesso,
però, sono vecchio.
Non
vado più alle fiere oltrefiume, ci vanno i figli.
Io
siedo in bottega e borbotto se un lavoro mi pare fatto male dalle nuove leve
che non hanno più la pazienza di una volta. Quando viene gente, domando:
“E i
lupi? Si dice qualcosa, dei lupi?”
Certo
che se ne dice.
A
Varallo Sesia non hanno mangiato il braccio di una bambina dell’età della mia
Margherita? Solo che questa l’han salvata le vacche che si sono rivoltate
contro la bestia e pare che l’abbiano perfino incornata, perché ha lasciato
sangue sull’erba. La bambina vivrà monca, ma vivrà. E su nell’Ossola, i lupi a
branchi. Un danno enorme, per il bestiame; tanto che i Consoli hanno comandato
una caccia stabilendo un premio di 25 lire a chi un lupo e di 35 lire a chi un
orso consegna vivi o morti. E il secolo finisce e sto per finire anch’io. Mia
moglie se n’è andata da tempo, i miei figli sono sposati, mi hanno dato nipoti
in quantità.
La
vita viene, la vita se ne va.
Ma i
lupi restano, questo ho capito. Per quanto gli diamo la caccia, loro
s’inforestano su in montagna, poi vengono giù e qualcuno è ammazzato. Ma gli
altri figliano e tornano a vendicare i morti. Mangiano bambini perché sono
facili da prendere. Sono fatti di carne, i bambini. Se fossi un lupo, anch’io
mangerei bambini. A Milano diventano ancora matti di paura, per i lupi.
“La
Congregazione Municipale di Milano notifica al pubblico d’avere in via
sussidiaria alle providenze già date dalla Regia Conferenza Governativa, ed
attese le straordinarie circostanze del caso, stabilito un premio di Zecchini
50 per l’uccisione di quella qualunque Bestia, che da qualche tempo infesta la
Provincia, e die’ morte ad alcuni fanciulli riportandosi per la prova, e
pagamento al disposto nel recente Avviso della prefata Regia Conferenza, e di
avere inoltre ordinata per agevolare tale uccisione la consegna de’ fucili, e
bajonette dell’ armerìa civica, che si richiederanno per le Comunità dai Regi
Cancellieri distrettuali muniti delle opportune facoltà contro loro obbligo in
iscritto di farne la restituzione in istato lodevole tosto cessato il bisogno.”
Questo
scrivono a Milano il 7 Agosto 1792.
L’anno
dopo, per il mio figlio maggiore Paolo c’è un lutto che ferisce anche me,
perché il Clemente Valentini, fornaio, era un bravuomo davvero, generoso e di
buon carattere. Un tale Antonio Dazio, detto il Cravè, uno di brutta fama, alto
e secco e rugoso come un vitigno, prima dell’alba di un giorno maledetto, ha
fatto uscire il suocero di mio figlio per fargli rendere conto di una partita
di pane che voleva senza pagare, come già altre volte, perché il Cravè è uno
che con la prepotenza pensa di aggiustare la vita.
Clemente
gli dice che basta, non è giusto che si faccia mantenere, che deve cercarsi un
lavoro e quello, gonfio di vino come una botte, gli dà di bastone e poi di
coltello e lo trascina dalle parti del castello e lo butta giù dalla ripa.
Preso
dopo una settimana in quel di Arona e riportato a Oleggio è condannato a galera
perpetua, con la gente che grida: impiccalo! impiccalo! e se lui è stato un lupo,
tanti lupi parevano quelli che lo volevano morto.
E
così è, che lupi si è di natura e lupi si diventa anche noi uomini. E adesso
che sono vecchio e pronto a chiudere questa partita con la vita, ci vedo meglio
di prima che ero giovane e troppo svelto, e quello che vedo non fa paura, mette
pace.
I
lupi non leggono, e nemmeno ricevono le notizie seduti in una bottega di
carradore come faccio io. I lupi, però, sanno. Che per prendersi i bambini
devono battagliare con l’uomo. La natura è fatta così, mi dico mentre mi
appisolo. Che uno ammazza l’altro per sopravvivere. Siamo solo noi uomini che
ammazziamo senza un perché, che facciamo le guerre chissà perché. Eravamo degli
austriaci, poi siamo diventati dei Savoia, adesso siamo dei francesi di
Napoleone. I lupi sono liberi. Il pensiero più strano che mi viene è questo: io
muoio, ci manca ormai pochi mesi, me la sento; e loro continuano a vivere, a
ringhiare, a correre, ad azzannare, a uccidere, a mangiare i bambini.
E non
è così, la vita?
a) Documenti vari presso il Museo Civico di Oleggio.
b) Comunicazione presentata al
Seminario “VIVERE LA MORTE NEL SETTECENTO”organizzato dalla “Società
Italiana di Studi sul Secolo XVIII” - Santa Margherita Ligure 30 settembre - 2 ottobre
2002. Si ringraziano gli Autori Aldo
Oriani e Mario Comincini.
c)
Nel
ballatoio ligneo che si affaccia sull'atrio della Biblioteca Nazionale
Braidense si trova una raccolta di scritti e opuscoli vari di argomento
lombardo, costituita da una serie di cartelle che riportano sul dorso la
segnatura Miscellanea 14.16. Nell'atmosfera un po' cupa, appesantita dalle
strutture di legno antico, ma illuminata dai violenti fiotti di luce che si
riversano dalle finestre che si aprono su un cortile interno del palazzo di
Brera, emergono dalle cartelle dalla copertina violacea opuscoli di formati
differenti, legati insieme. Uno di questi, che appare in apertura di cartella,
è un opuscolo di poco più di sessanta pagine, stampato in caratteri piuttosto
grandi, su una carta di colore chiaro, di qualità discreta; nel frontespizio il
titolo Giornale circostanziato di quanto
ha fatto la Bestia feroce nell'Alto Milanese dai primi di Luglio dell'anno 1792
sino al giorno 18 settembre p. p. In
Milano, A spesa dello Stampatore Bolzani, [1792]- Segnatura: Biblioteca
Nazionale Braidense - 14.16.E.8.20 - Edizione digitale a cura di Guido Mura.
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