Sono tornato a scrivere per ragazzi.
Per caso. A fine febbraio mi scrive Nicola Cinquetti, amico con il quale ho scritto
alcuni libri, tanto tempo fa. Anna Vivarelli gli ha chiesto un libro per una
nuova collana e lui intende mandare “Incubo gorango”, un nostro inedito del
2007 di genere comico. Anna ci fa un mucchio di complimenti, ma il libro non è
adatto (troppo spinto per l’editore, contiene nomi come Imbezile e Lidiota e
attività sgradevoli come i rutti, e inoltre i goranghi divorano i nani
burlacchi). Nicola prova altrove, ma dubito che venga pubblicato, per i motivi
che spiegherò più avanti.
Nel frattempo Anna manda anche a me l’invito
a mandarle un testo. Non avendone di pronti, scrivo “Il mio amico Donchisciotte”,
sulla scia di “Il donchisciotte” che ho scritto per una compagnia teatrale. Il
testo le piace e mi fa scrivere subito dalla responsabile della casa editrice “Il
Leone Verde” di Torino. Ci vorranno alcuni mesi, stanno ancora organizzando la
grafica della collana, ma io non ho fretta. Si narra dell’incontro di Felipe,
dieci anni, un tipetto razionale e ligio al dovere, con Don Chisciotte che,
dopo le prese in giro alla corte ducale, ha perso Sancio. Alla fine, Felipe
scopre il piacere di un po’ di follia e la sua mente razionale si arricchisce attingendo
risorse dall’immaginazione.
Mi metto subito a scrivere su un’idea
che ho da tempo: dare ai ragazzi un romanzo breve, con capitoli brevi, una
scrittura ricalcata sul montaggio filmico d’azione e sulle serie televisive. Ma
che cosa racconto? È appena andato in scena “Uomini” con alcuni richiedenti
asilo che drammatizzano il loro viaggio dal Gambia all’Italia. In questo caso
il protagonista deve essere un bambino, Alagi. La storia deve ricalcare la
narrazione classica di abbandoni, agnizioni, fughe, peripezie e lieto fine.
Nasce in pochi giorni un libro abbastanza convulso, che non dà spazio a
descrizioni e spiegazioni logiche: la logica è tutta interna e finalizzata al
flusso degli avvenimenti. Si intitola “Il destino di un bambino”. Al Leone
Verde non interessano storie realistiche. Piace a Emanuele Ramini della Raffaello,
che però chiede di adeguare il testo alla collana, raddoppiandolo, cambiando
il titolo, fornendo spiegazioni in modo da razionalizzare la vicenda. Rifiuto
la pubblicazione, spiegando che il libro è così e non può essere snaturato. Lo
mando a Einaudi El e Giunti.
Mi
rimetto a scrivere. Mi viene in mente, senza motivo apparente, un alunno di
tanti e tanti anni fa, un tipo speciale. Il libro si intitola “Il lupo dietro l’angolo”.
Ecco la presentazione che ho allegato per le case editrici: Riccardo… “Dicono
che sono dispettoso, irresponsabile, pettegolo, vittimista, pigro, egoista,
insensibile, disobbediente, inconcludente…”… Riccardo non è un tipo facile.
Esaspera chiunque, come lui stesso ammette nel prologo di autopresentazione. La
narrazione procede poi in terza persona.
Un
giorno, al momento di salire sullo scuolabus, si volta verso la propria
abitazione e non la trova più. Al posto della villetta colore mattone in cui
abita, un’altra bianca con la porta rossa.
Da
qui ha inizio l’inatteso, il fenomeno che distorce la realtà, la cambia a
capriccio in modo insensato, riservando belle e brutte sorprese.
La
sua guida è un lupo, il lupo risponde ai comandi di Falgand. Ma chi è davvero
Faldang? È forse il Vecchio Lanterna? Colui che rapisce i bambini
trasformandoli in scheletri viventi nella Città Verticale? L’avventura di
salvataggio degli amici Stefano e Rachele rende forse eroico Riccardo, ma non
gli importa più di farsi notare. Ora è cambiato. Ha scoperto un altro sé stesso
che preferisce a quello di prima. L’inatteso è la sua risorsa: c’è sempre modo
di cambiare le cose.
Ora
mi piacerebbe cominciare un quarto libro, ma quello che ho in mente è piuttosto
difficile. Il titolo (parto sempre da un titolo e dal nome del protagonista) “Le
figurine di Marvin”. Un bambino solitario, una diagnosi di autismo. Ritaglia
immagini, le combina in collage bizzarri. Una bambina che sa disegnare quello
che lui traccia in aria. Una comunicazione che si fa rivelazione, forse, sul
futuro. Ci provo.
Mi
diverto, scrivere per ragazzi è sognare. Purtroppo, non basta scrivere bene.
Non basta una bella storia. In Italia si fanno i conti con editor,
bibliotecari, insegnanti. Come ho scritto all’inizio, parole come idiota o
imbecille sono considerate parolacce nell’ambito della scuola elementare e
molte maestre non le vogliono nei libri, le mette in imbarazzo. Così come le questioni
sociali che stimolano domande alle quali non si vuole o non si sa rispondere (suicidio,
abbandono, povertà, disoccupazione, identità sessuale, violenza familiare,
corruzione, ateismo…). Molti contenuti spinosi abbondano nei libri importati
dall’estero, ma si preferisce evitarli nei testi italiani.
E
questo è un ostacolo. L’altro riguarda la scrittura. Gli editor (coloro che
curano la pubblicazione) amano una scrittura semplice, per non dire piatta. Sintassi
banalizzata e lessico impoverito. Ma soprattutto vogliono che la scrittura sia
la fotocopia della realtà (anche immaginaria). Tutti i passaggi logici devono
essere espressi, altrimenti il bambino (o la maestra) potrebbe non capire.
Non concepiscono
una scrittura adeguata ai social, al cinema, alla televisione (scartando le
telenovele). Velocità, suggestione, intuizione, logica interna, salti espressivi…
Molti
vogliono la bella scrittura, non la scrittura d’arte.
Io mi
considero un artista, non un compilatore di romanzetti per bambini.
E non
scrivo per le maestre o le bibliotecarie o gli editor. Scrivo per me e condivo
questa scrittura solipsistica con i bambini, invitandoli a riprendersi il
protagonismo nella scelta dei libri.
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