Prego, accomodati. Io mi chiamo Romolo. Mamma non c’è. Durante la sua assenza non vuole che faccia entrare gli sconosciuti, ma tu sei speciale e sento di potermi fidare. Evita, però, di calpestare il tappeto in soggiorno. Sì, lo so, è un tappeto e il suo destino è di essere calpestato, ma… non si può. Che strano. Calpestiamo cose che dovremmo amare e rispettare e un tappeto, invece…
Solo io ci passo sopra, ma di nascosto. Con le ciabatte morbide che non lasciano il segno. Lo faccio perché al tappeto fa piacere. Percepisco la sua morbidezza e lui è contento. Anch’io provo un frizzore eccitante, una specie di gioia. Ma anche questa la nascondo con un ghigno: sto facendo una cosa vietata.
Mi chiamo Romolo come il primo re di Roma. Uff, non so se il mio nome mi piace. La conosco la storia di Romolo, so che cosa ha fatto a suo fratello Remo. E penso che di sicuro era un discendente di Caino, e così il mio nome è pesante da portare. Abele, a mio parere, a me sarebbe stato simpatico perché allevava le pecore. Se fossi stato Dio, non avrei fatto capire a Caino che era Abele il mio preferito. Eh, non si dovrebbe fare così, anche se secondo me molti genitori lo fanno, di preferire un figlio intelligente che andrà all’università a uno simpatico che però a scuola non va tanto bene.
Per fortuna io non ho fratelli (dopo di me, la mamma e il papà non hanno più voluto rischiare). Sono figlio unico, eppure i miei genitori prediligono gli altri figli, quelli che poi non hanno avuto.
Non è facile da capire, ma più o meno è così.
Romolo ha fondato Roma, dici tu per consolarmi.
Io Roma non l’ho mai vista per davvero, solo nei documentari. A dire la verità, non ho mai visto nessuna città, io. Nemmeno la mia. Quando mi portano all’ospedale non conta, non è mica un giro turistico. Mi rendo solo conto di quanta gente c’è in giro. Tantissima! Anche all’ospedale… quanta gente! Divento nervoso, ho sempre paura di non sapere che cosa dire e che cosa fare, quando sono in mezzo alla gente.
Io sono abituato a parlarmi da solo nella mia cameretta con la porta chiusa.
Tornando a Roma… e allora? Magari quando sarò grande fonderò anch’io una città, però senza il Colosseo. Ma lo sai che ci facevano ammazzare la gente e chi non moriva subito lo facevano sbranare dai leoni? Io fonderò una città… beh, una città è troppo. Magari un paese. Ma secondo me un punto di ristoro sarebbe più congeniale alla mia riservatezza. Ci viene poca gente e di solito è gente tranquilla che si fa anche una risata.
Roma… chi sono io in quella confusione di milioni di persone?
Un niente.
Se permetti, sono già poco adesso, non ho proprio voglia di sentirmi un niente.
Ho dodici anni, compiuti tre mesi e quindici giorni fa. La mamma mi ha regalato un maglione di un colore strano, molto marrone. Il papà mi ha fatto gli auguri per telefono. Ho dodici anni e la nonna mi ha detto: Come cresci in fretta! A me non sembra di avere mai fretta in niente. Sono un tipo calmo, io. Me lo dice la mia intelligenza pigra di stare calmo e io le do retta, che altro posso fare?
Una cosa ho capito: io non sono come tutti gli altri ragazzi.
Pazienza, mi dico.
Non possiamo mica essere tutti uguali. Sai che monotonia se fossimo tutti uguali? I miei genitori, però, sarebbero contenti se io fossi uguale agli altri. Non cercano mica l’originalità, in un figlio. Anzi…
Sono qui che mi guardo allo specchio. Ne approfitto per farti capire come sono fatto. Ho il viso tondo come la pizza e le guance due pomodori, i denti di mozzarella e gli occhi scuri come i capperi. Sono tondo anche sotto la faccia. Un poco cicciotto, insomma. Ma ho visto in tivù che anche gli altri bambini sono cicciotti. In una cosa, almeno, non siamo diversi.
Sono bello? Non lo so. Nessuno mi ha mai detto niente, al riguardo. Non mi hanno nemmeno mai detto che sono brutto, però. Forse sono un poco bello e un poco brutto.
Ma perché nessuno mi dice mai niente?
Non posso essere io a decidere se sono bello o brutto, non è corretto.
E poi, sono un po’ stanco di essere sempre io a parlare a me di me.