domenica 23 dicembre 2007

MAMMA BASTARDA


Lo so. Titolo da pugno nello stomaco. Irritante, fastidioso. Ma è un atto d'amore. E anche un faro puntato sulle mie origini. Prendo la pala e scavo dentro di me. Porto alla luce tesori e misere ossa. Mi aiuta ad accettare l'inaccettabile, la degradazione lenta e inesorabile, l'agonia di parole e pensieri di una madre così ingombrante prima e così commovente e straziante adesso. Un teatro in tre parti. Questa è la presentazione.

L’opera è divisa in tre parti, non necessariamente tre atti.

La scenografia della prima parte è costituita da teli color sabbia. Uno ricopre il pavimento. Hanno aperture dalle quali compaiono gli attori, solo con la testa, il busto o con tutta la persona, superando la soglia tra memoria e presente.

La prima parte è quella dell’origine conflittuale, di nascita e morte legate in modo indissolubile. Ciò che è come ciò che non è. Il viaggio e l’esperienza, l’esplorazione e la conquista. Ma anche la fuga e la paura. O l’impossibilità della fuga e la negazione della paura. La prima parte è impulsiva e reattiva, è infanzia e adolescenza. La prima parte è anche ingiustizia e sopraffazione, è lotta e ideale assoluto, ricerca di verità e tragedia.

Entrando nella seconda parte i teli scompaiono. Sotto di loro c’è un universo di oggetti reali e dipinti. Un mondo di cose. La seconda parte è quella del desiderio di stabilità. Sotto sotto, di eternità. Fase di radicamento, di benessere, ma anche di logorio, di fatica fine a se stessa. La seconda parte promette e non mantiene, illude e sconforta, appaga e stronca. La seconda parte propone una riflessione sul valore e sul significato della vita, riflessione che viene sempre elusa. Tutti vogliono vivere felici e maledicono le avversità assurde. Non sanno che la proposizione va ribaltata: tutti vivono nelle avversità e si godono sprazzi di felicità.

La terza parte presenta il palcoscenico nella sua nudità. Gli oggetti di scena che vi sono stati dimenticati sono incongruenti e rotti. Un telo sbrindellato pende in un angolo. La terza parte è quella della follia. Niente si può portare con sé di ciò che si è vissuto e che si ha posseduto. La memoria diventa un campo di battaglia, le cose perdono ogni valore. Tutto si fa distante. La vita assomiglia sempre più alla morte. Emergono rabbia, frustrazione, dolore, disperazione. Solitudine. Ma è solitudine senza meditazione. Solitudine di delirio e allucinazione.

Vi si racconta la storia di mia madre, dalla campagna veneta alla colonizzazione della Libia; dal rapporto conflittuale con i fascisti, che deve servire e che gli uccidono il fratello, al lavoro in fabbrica e al matrimonio. Dal benessere degli anni sessanta alla dispersione dei parenti e dei figli, fino alla tragedia dell'Alzheimer.
Queste sono le prime parole dell'opera.

Ho dovuto attendere fino agli ultimi momenti della loro vita per sentirmi davvero figlio dei miei genitori. Si diventa figli quando i genitori muoiono. Prima no. Si è sempre troppo se stessi per accorgersi di loro, prima. Poi ci trascinano nella loro morte e allora un faro spara luce bianca sui loro volti e sulla nostra memoria.

Quando si ammalano e muoiono, non scompaiono subito.

Prima brillano di luce propria, intensa. Spiccano sul grigiore dell’abitudine, delle parole trite, dei comportamenti scontati. E gridano la gloria della loro vita. Poi muoiono. Nell’avvilimento, nello smarrimento, nel disfacimento.

Non fanno così anche le stelle? Non si fanno anche loro bianche? Del colore che ha tutti i colori, ma tutti li annulla.

Se muoiono le stelle, che cosa sarà mai la morte dei miei genitori?

No, no, la domanda giusta è questa: perché la morte è così… miserevole e degradante?

Solo per far soffrire noi vivi?

Percorro questa strada di allarmi quotidiani, di deliri e allucinazioni, di richieste ansiose di aiuto, di insulti e atti inconsulti, e vedo spettri all'orizzonte. Siamo tutti noi. Il sole di cui abbiamo goduto in vita non c'è più nemmeno nei ricordi. Se ne sono fuggiti anche loro chissà dove, insieme alla logica di un'esistenza che ora ci si rivela in tutta la sua doppiezza: è sempre stata pazzia, sempre.


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