Ci
sono stati due momenti, in questi giorni, in cui mi sono tornate in mente le
parole di Grotowski sul rapporto attore-pubblico. “L’attore fa dono totale di
sé”. Ne “Il teatro povero” espone le idee sulla “santità laica” dell’attore,
che si sacrifica smascherando sé stesso e svelando la propria interiorità,
affinché il pubblico faccia un’esperienza di “penetrazione in sé”. L’attore non
cerca quindi l’applauso e non agisce per dare al pubblico emozioni superficiali
e un piacere effimero. Coinvolge lo spettatore e gli indica un percorso
interiore di esplorazione e scoperta di sé e del mondo, per una reazione di
mimesi con l’interiorizzazione dell’attore.
Niente
a che fare con le strategie di comunicazione del teatro amatoriale e nemmeno
con quelle di certi professionisti della scena.
Nel
primo caso, l’interprete si avvale di due linee operative: le tecniche apprese
e la gestione istintiva e accattivante del pubblico (l’istrione). Nei gruppi
amatoriali assistiamo spesso a una recitazione che cercando a tutti i costi di
compiacere il pubblico finisce per tagliarlo fuori. Esibizione di una dizione
accademica, gestualità artefatta e inefficace, riproposizione di scelte
registiche usate e abusate, autocompiacimento, mancanza di visione d’insieme, ridondanza
della gag o di un frammento espressivo… Oppure la platea è gestita in modo
invasivo con uno stile sempre più televisivo; l’attore non si propone allo
spettatore, ma lo forza alla risata e all’applauso.
Nel
secondo caso, l’attore è centrato più su sé stesso che sull’opera e sull’elaborazione
che deve farne il pubblico; questo vale anche per il regista. Si enfatizza il
livello estetico, si cerca lo stupore barocco, si blandisce il critico e si va
verso uno spettacolo che non presenta personaggi e contenuti, ma attori e tecnici
concentrati su un’arte “di proprietà egocentrica”, dal regista al costumista allo
scenografo. È il teatro dei grandi attori e dei grandi registi, che a volte
dimenticano di doversi umilmente farsi un poco da parte per lasciare emergere
il “grande teatro”.
L’eccellenza
dell’attore è allora da ricercare nell’uso delle tecniche come mezzo e non come
fine, e in una presenza scenica non divistica, ma cooperante e comunicante.
Scrive
Barba: “Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle del
virtuosismo tendono alla meraviglia. Le tecniche extra-quotdiane, invece,
tendono all’informazione: esse, alla lettera, mettono-in-forma il corpo
rendendolo artificiale/artistico, ma credibile. In ciò consiste la differenza
essenziale che le divide da quelle tecniche che lo trasformano nel corpo
“incredibile” dell’acrobata e del virtuoso.” (E. Barba, La canoa di carta, Il
Mulino, 1993)
Quali
sono i due momenti che mi hanno fatto ripensare al teatro “povero e santo-laico”
di Grotowski? Uno è legato al debutto di “Death watch”. I tre interpreti
recitano ignorando il pubblico, agiscono in un luogo chiuso indistinto, senza
un fronte-platea. Rompono lo schema in alcuni momenti, uno in particolare,
quando immobili cercano gli occhi degli spettatori. Per il resto, il dialogo è
solo fra loro tre. Vivono la situazione del personaggio non con la reviviscenza
stanislavskiana, ma con una partitura vocale e coreografica che li fa fluire
tra gli stati d’animo verso la condizione finale di condannato che condanna
senza acrimonia, facendo della propria sorte un appello umanitario. Eccoli lì,
così giovani, così inesperti, così ingenui, e così “credibili”, come scrive
Barba. Ciò che vivono si riflette sul pubblico, ne vince le resistenze, lo
induce a condividere l’emozione. A condividere il rito.
Il
secondo momento è con le ragazze di religione islamica con le quali sto
preparando “Stranie”, un lavoro sull’integrazione. Per loro è una novità la
partitura di movimenti-parole che cerca l’emozione non tanto nell’immedesimazione
e nell’espressione dei sentimenti (che spesso risultano artificiose), quanto
nel flusso visivo-acustico. Mi domandano che cosa significhi l’inizio e
parliamo di interpretazione da parte del pubblico. Alcune di loro hanno bisogno
del sostegno della logica e della chiarezza. Ne discutiamo. Le invito a
presentarsi al pubblico con poche parole nella loro lingua (marocchino-tunisino-algerino),
subito ripetute in italiano; possono essere sé stesse o inventarsi un
personaggio. Anche di un’altra lingua? Certo. Oltre alle lingue maghrebine, ora
abbiamo il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il palestinese. Una
alla volta, si espongono. Con naturalezza, ridendo quando Imen s’inventa un’identità
fasulla. La presentazione è una dichiarazione semplice ed efficace di
disponibilità. Io sono qui e vi dico chi sono. E voi? Voi chi siete? Che cosa
pensate? Condividete quello che stiamo facendo? Avete preso il teatro che vi
stiamo porgendo e lo avete introdotto nel vostro animo, nelle vostre emozioni,
nel vostro pensiero?
Ecco
che cosa fa l’attore. Non chiede al pubblico di applaudirlo per le proprie
capacità artistiche, ma di manifestare la condivisione di un momento di approfondimento
del mondo e della vita.
“L’esperienza
mi ha insegnato a rifiutare la divisione tra danza e teatro” scrive ancora Eugenio
Barba.
Questo
teatro di parola che si fa gesto, movimento, danza, è un teatro che mira all’interiorità
dello spettatore e che agisce attraverso la sincerità, la verità, la generosità
e insomma il “sacrificio” dell’attore che si dona per un momento di riflessione
emozionata. Attore eccellente.
Nessun commento:
Posta un commento