IL TEATRO TECNEKE
Introduzione
Uno sguardo lontano da lontano
Anch’io, come tanti, ho cominciato a fare teatro senza pormi domande. Senza una curiosità epistemologica. Fiducioso che l’arte teatrale si esaurisse nell’esperienza degli spettacoli visti, nel pensiero dei maestri trasmesso attraverso i corsi e i testi, nelle drammaturgie concepite e nelle messe in scena realizzate. Dando per scontato che teatro fosse solo recitare una storia di fronte a un pubblico.
L’ironia socratica è un metodo valido per ogni conoscenza, ma l’ottimismo riposto nella ragione è ingenuo, dato che la ragione ha bisogno di materiale esperienziale su cui applicarsi e un campo d’indagine che non sia limitato al poco e al personale.
Bisogna, a un certo punto, fermarsi nella crisi, e riprendere ogni cosa da capo. Crisi di tutto, del testo e della recitazione, dello scopo e della metodologia, del rapporto con il pubblico e di quello con la tecnica e gli oggetti di scena, di se stessi e del proprio ruolo nel mondo.
Ogni crisi artistica è crisi di individuo, e viceversa.
Dal momento della crisi, ogni allestimento viene condotto nell’ottica di una revisione incessante delle intenzioni e delle opzioni organizzative, tecniche e artistiche. Ci si affida all’ironia come smantellamento della tradizione, delle convenzioni e dell’intangibilità dei concetti di base. Ci si affida alla ragione, ma soprattutto all’intuizione, sia pure confusa e contraddittoria. E ci si affida al caso, che spesso accende la luce sulla difformità delle idee.
È un atteggiamento di attesa, di disponibilità alla scoperta, di riflessione costante sia sui grandi temi sia sui dettagli.
L’obiettivo non è tanto quello di far sorgere un nuovo teatro, ma un teatro nuovo per sé, in modo da operare nell’ambito di una convinzione reale che conduca verso la simbiosi tra se stessi e le scelte espressive. Il teatro nuovo per sé implica una riflessione generale inerente non solo al teatro, ma alle sue radici nell’animo e nella società. Si rendono necessari riferimenti mitologici, filosofici, psicoanalitici e antropologici, dato che si vanno a indagare relazioni tra realtà e immaginazione, tra verità e finzione, tra il singolo e la società, fra il sé e l’io, tra il corpo e la psiche, tra le arti, tra la parola scritta e quella drammatizzata.
Se non è immediato capire quale sia la direzione giusta per avviare il percorso, è però facile determinare ciò che non si deve fare per non imboccare la via sbagliata: prendere per scontato, basarsi sul giudizio del pubblico, imitare, fare come tutti fanno, coltivare ambizioni di successo, acquisire con inflessibilità, non ascoltare ciò che i collaboratori e gli elementi scenici suggeriscono, soffocare gli altri e l’arte con il proprio io. Si può facilmente peccare di provincialismo, presunzione, egocentrismo, superficialità, oscurità, carrierismo, approssimazione, ignoranza, insensibilità.
Un atteggiamento di destrutturazione e ricostruzione sulle basi di una adesione davvero personale è positivo e anzi necessario per assicurare un posto consapevole nel mondo, ma di solito viene poco apprezzato dalla maggioranza. Mettere in crisi le conoscenze condivise implica sempre un sacrificio. Chi ha appena concluso la scuola di teatro, chi ha alle spalle una carriera decennale di riconoscimenti faticati, chi ha costruito la propria routine su idee consolidate, male accetta che qualcuno dica: prova a rifare tutto, metti in discussione te stesso e la tua esperienza e i tuoi convincimenti.
Ciò vale non solo per il teatro, ma per i principi del vivere sociale, per la politica, per la religione e la scienza. Non vi è niente di assoluto che travalichi i nostri limiti umani. Tutti i monumenti prima o poi crollano, o da se stessi o per l’assalto di un’idea nuova. In questo continuo rinnovarsi, nel riconoscimento della relatività e della propulsione dell’antitesi sta il gusto di vivere e l’utilità sociale del singolo.
Ogni forma di cambiamento che implichi l’abbandono di realtà consunte è di per sé rivoluzionaria, e quindi la ricerca di un teatro personale è rivoluzionaria, e dato che solo una rivoluzione permanente ci difende dalla dittatura delle idee, dall’acquiescenza complice e dalla stagnazione epidemica, ben venga chi si dichiara per un nuovo teatro e quindi per un nuovo se stesso.
Ben venga chi ha l’animo rivoluzionario.
Ci sono due generi di teatro. Che riguardano la drammaturgia, il rapporto con il pubblico e anche la recitazione. Come ci sono due generi di arte, di politica, di uomo, di economia, di società.
C’è il teatro del microscopio, o dello sguardo vicino; e quello del telescopio, o dello sguardo lontano.
Il teatro del microscopio.
Tende a rappresentare i caratteri e le relazioni della realtà storica o dell’esperienza individuale con scelte espressive elaborate sulle convenzioni e sulla quotidianità. Esso dimensiona uno spazio di base che modifica per adattarlo alle esigenze testuali e registiche. Può diventare uno spazio simbolico o una riproduzione realistica di un ambiente. Viene “arredato” con sapienza estetica, con riferimenti colti a particolari periodi artistici, con utilizzo di tecnologie d’avanguardia, creando scenari di forte impatto visivo, suggestioni sempre nuove che da sole strappano l’applauso.
Questo teatro della realtà da analizzare, raccontare e spiegare si avvale di interpreti impegnati a diventare personaggi. Tipi e ruoli sono identificabili: il narratore, il drammatico, il comico, il polemico, il tragico, la vittima, il criminale, l’amante... Gli attori si avvalgono di tecniche interpretative ricavate dall’osservazione del comportamento umano con il supporto della psicologia. Raggiungono l’obiettivo quando danno al pubblico l’impressione di avere di fronte una persona che non è più l’attore, una persona che potrebbe esistere, del tutto credibile. L’attore, quindi, convince il pubblico della verità della propria bugia e crea dal nulla una realtà virtuale desiderabile perché modificabile a piacere dal drammaturgo, dal regista, dall’attore e perfino dallo spettatore, libero di rendersi utile alla riuscita dello spettacolo con l’esegesi personale.
È un teatro-specchio di facile fruizione. Il pubblico è in grado di riconoscere le “persone” in scena, può operare confronti, esprimere giudizi, fare costante riferimento alla propria esperienza di vita. Gli è ceduto il potere di vita e morte dello spettacolo, a prescindere dalla conformità alle idee espresse. La partecipazione può verificarsi sia per un evento con cui è in sintonia sia con uno da cui dissente, facendogli così perdere ogni velleità “rivoltosa”. La presenza del pubblico è in ogni caso una ufficializzazione dell’evento, che non appartiene più ai suoi creatori, ma ai suoi consumatori. Ogni spettacolo, per quanto possa apparire ostico o eversivo o immorale, può essere omologato e fagocitato, quando non strumentalizzato per scopi di parte. Il pubblico è quindi fruitore dello spettacolo e anche suo gestore e sponsor, mediante la concessione o meno del successo e la recensione critica. Lo adatta alla propria struttura culturale e nella rielaborazione personale può arrivare a stravolgerlo. Lo utilizza per fini politici o sociali a prescindere dalla volontà dei creatori. Lo sottomette alla propria ansia di potere che si manifesta in ogni aspetto della realtà, applaudendo o disapprovando. Esprime giudizi inquinati da prevenzioni, legami affettivi, fattori culturali.
Il pubblico è indispensabile alla sopravvivenza dello spettacolo, dato che ne è utente, giudice e sovvenzionatore. Nonostante tutto ciò, lo spettacolo ha davvero bisogno del pubblico?
Non può esistere una forma di spettacolo che sia antispettacolo?
Un teatro non potrebbe essere antiteatro?
Cinema, televisione, videogiochi, social community, tutti i mass media, perfino il giornalismo che illude di veicolare verità e invece la diffonde manipolata, conquistano utenza spingendo il consumatore al di là dell’area del vissuto, sempre rassicurante eppure limitata e insoddisfacente perfino dove si presenta con il blasone della notorietà e della ricchezza. Lo spingono in un’area che è copia della realtà, ma ritoccata. D’altronde, tutto viene ritoccato. Dall’immagine singola al film, dal viso al romanzo, dall’emozione genuina al cibo. Tutto viene investito dall’ideale schizofrenico della perfezione. Si tratta, è facile capirlo, di un imbroglio, dato che nessuno è in grado di definire che cosa sia “perfezione”.
Al consumatore di un prodotto intellettuale e artistico è dato il potere di accettare o rifiutare; lo può esaltare o denigrare, lo può rinnovare o cambiare. Tutto questo non gli è consentito nella realtà quotidiana che ha sempre il sopravvento su sogni, desideri, illusioni, passioni, progetti, volontà.
La rappresentazione della realtà ha buon gioco sulla realtà stessa. Dà l’illusione di essere padroni del destino. Di potere influire sulla vita. Di sfuggire alla morte e al dolore. Anche quando la rappresentazione è cupa, disperata, tragica. Anche quando fa da specchio alla limitatezza dello sguardo vicino e smonta l’apparato illusionistico che tiene a bada l’ansia. Non c’è modo, con l’arte, di rappresentare la realtà nella sua complessità, di mostrare la realtà così com’è davvero, nella verità.
L’unico modo per accedere alla realtà è viverla; non rappresentarla.
La comprensione profonda di un pomodoro non sta nel suo consumo, ma nella sua coltivazione; tutto il resto è estetismo ed egoità.
Anche sulla scena.
Anche per l’attore.
Se l’attore vive la propria rappresentazione, non ha bisogno di un pubblico che assista.
Il pubblico diventa augurabile e benaccetto, ma ininfluente.
I gestori del teatro del microscopio lavorano sull’espressione di emozioni e sentimenti a cui è finalizzata la gestione del corpo-voce. Essi presentano una gamma ampia di produzioni, dallo spettacolo vario di stampo televisivo alla triade commedia/dramma/tragedia borghese, dalla denuncia sociale alla ricostruzione storica. Nella norma, si avvalgono di un notevole sforzo produttivo inerente a cast, scenografie, luci, musiche, costumi.
Per secoli l’arte è stata definita nell’ambito della mimesi, come imitazione della natura. Aristotele ne distingueva tre forme: come le cose sono, come vengono descritte e come dovrebbero essere. Platone considerava il teatro, e in genere l’arte, una copia della copia (la realtà come copia delle idee, il teatro come copia della realtà) e quindi inutile e perfino dannoso, dato che allontana l’uomo dalla sorgente della perfezione.
Rousseau (Lettera a D’Alembert sugli spettacoli), su questa scia, critica sia la mimesi sia la catarsi di Aristotele. La natura deve essere vissuta nell’immediatezza del rapporto e non attraverso una copia che risulta comunque un trucco e un inganno. Il teatro è falso, spinge l’uomo a deridere la propria naturalità e manipola le idee allineandosi al potere dominante. Egli denigra Molière, scrivendo che nel Misantropo mette alla berlina Alceste, l’uomo giusto alla ricerca di una società più naturale; ed esalta invece Filinto, l’individuo ricco e nobile sottomesso al potere. Natura contro società, verità contro teatro.
Ricordiamo Tertulliano quando scrive, nel “De spectaculis”: “Si ricordi quella donna che si recò in teatro e di là si ritornò invasata dalle potenze del demonio.”
Il teatro di tipo mimetico, la rappresentazione cioè della realtà così come ci si presenta o come vorremmo che fosse, è la forma più diffusa di teatro, quella che riscuote il plauso o l’esecrazione della maggioranza degli spettatori. Essi vogliono che il palcoscenico sia lo specchio delle abitudini criminali e risibili degli altri, dei tormenti e dei sacrifici o delle gioie e dei successi della propria esistenza. Poiché lo spettatore desidera un bersaglio contro cui accanirsi e un personaggio in cui identificarsi per sentirsi riconosciuto.
Il meccanismo del bersaglio-riconoscimento sembrerebbe bene accetto da tutte le forme di potere (salvo qualche assolutismo paranoico), in quanto consolida la realtà esistente, anche quando lo spettacolo le si rivolta contro con forme di teatro-verità, teatro-documento, teatro-civile, teatro-storico. In fondo, la catarsi aristotelica può servire a lavare via anche le velleità rivoluzionarie. Meglio, per il cittadino, assistere a una rappresentazione contro il potere, sempre innocua, piuttosto che rendersi protagonista di una rivolta concreta e di trasformarsi quindi in sovversivo. Con quanta facilità il teatro può (in modo esplicito o implicito) essere asservito al potere per veicolare istanze di mantenimento dei valori e dello status quo!
Non per niente, dopo avere a lungo e con ferocia e testardaggine demonizzato il teatro, la chiesa se ne serve fin dal decimo secolo per esaltare se stessa, i santi, la storia biblica.
Quali sono, dunque, i vizi e le virtù del teatro mimetico?
- riproduce la realtà con sintesi artistica e con espressività intensa, frutto di tecniche codificate, facendo leva su sentimenti ed emozioni facilmente condivisibili (più che l’opera, il pubblico apprezza l’interprete)
- racconta storie di solito lineari con il supporto della musica e della danza, in uno spazio strutturato, a un pubblico in parte anestetizzato, la cui capacità critica è assopita (vedi Brecht)
- può provocare interventi censori non per se stesso, ma per i contenuti espressi (e questo succede anche per i libri o i film o gli articoli di giornale)
- il lato più controverso rimane il rapporto con il pubblico; c’è chi parla di corruzione, chi di comunicazione, chi di plagio, chi di cultura…
- di norma, per il suo bisogno connaturato di un pubblico che lo giustifichi, mette in moto una complessa macchina produttiva sul modello dell’azienda: ideazione, progettazione, produzione, promozione, vendita, intensificazione dell’offerta, reperimento di una platea sempre più ampia, ricerca di consenso presso non solo i consumatori ma anche presso gli operatori culturali, i finanziatori, i politici
- ha una doppia identità: dilettantistica e professionale; intorno ad ambedue si strutturano spazi e attività a carattere artistico, sociale, economico
- condivide gli stessi meccanismi della televisione e del cinema: la ricerca di notorietà e il narcisismo, la ricerca di sponsor e di protettori, la ricerca del successo anche quando la strategia nasce dall’impegno civile o intellettuale.
Il teatro del telescopio.
L’obiettivo non è puntato sulla realtà quotidiana, da riprodurre per riderci su, indignarsi, protestare, capire, accusare, rivelare, commuoversi… Un telescopio non è fatto per il vicino.
Chi punta il telescopio in alto non deve per forza ignorare la realtà di tutti i giorni, e nemmeno compie un’omissione: ci sono libri, film, articoli e conferenzieri che già ce la illustrano, ce la criticano, ce la smontano e rimontano. Guarda lontano solo per non affondarci dentro, ma la vive con maggiore intensità di chi ci sguazza.
Il teatro non è il tempio della verità, non è l’unica forma di divertimento e nemmeno l’unica occasione per esprimere il dissenso o per raccontare la propria esperienza. Si può decidere di staccarsi dal microscopio (che altri invece si tengono incollato allo sguardo come un paio di occhiali tarati per l’esistenza degli umani inchiodata al qui e al dove e al quando e al chi e al percome e al perché), e cercare altrove la fonte d’ispirazione.
Non s’intende promuovere un teatro spaziale. La scelta non porta certo su un altro pianeta; non fisicamente, almeno. Solo idealmente, per prendere le distanze. Avvengono due cose: si porta lo sguardo lontano, molto lontano, fissando un punto sul quale ci si può trasportare con la mente; e si volgono le spalle al mondo conosciuto.
Drammaturgo, attore e regista astronauti. Senza il clamore della folla, il brusio del pubblico, l’invadenza dei mass media, l’assillo del presenzialismo e dell’opinionismo. Soli dentro l’anima del mondo.
Su quel punto lontano ci si può trasportare per vedere il proprio ambito d’esperienza piccolo e quasi inanimato, nella sua nuda verità storica, un dettaglio insignificante. Punto di vista anomalo, prospettiva inconsueta e feconda di scoperte.
Il coinvolgimento emotivo si fa traslucido e consente di vedere al di là della conoscenza e dei rapporti interpersonali, ma non con chiarezza; ciò che sta dietro non ha confini netti, non ha forma definita, non ha un nome. Più che sguardo fisico, più che conoscenza intellettuale, più che relazione, si può parlare di intuizione e desiderio, di immaginazione e ipotesi: di pensiero del cuore.
Lo sguardo da lontano è fulmineo e rivelatore, non necessita di analisi e di comprensione logica, ci accoglie in un abbraccio al buio, si rende presente nella sua totalità invisibile. Da esso ricaviamo suggestioni che fecondano l’esperienza e la scienza e che costituiscono le basi per l’espressione artistica. L’estetica è a largo raggio: la parola si accompagna alla musica, la musica al corpo in movimento, il corpo al ritmo interiore, il ritmo al linguaggio criptico della visione cosmica.
Portandoci su quel punto lontano, possiamo dirigere lo sguardo in due direzioni: verso il nostro ambito di esperienza corporea (come fosse il pianeta Terra) o verso il cosmo non finito su cui abbiamo posato il terzo occhio.
Nel primo caso, possiamo riprendere l’uso del microscopio, ma solo attraverso le lenti del telescopio, in modo da non impantanarci nella cronaca del luogo definito e da mantenerci nella storia del luogo indefinito. Possiamo ri-analizzare il comportamento umano e le sue motivazioni, il significato degli avvenimenti e le loro origini, ma tutto quanto veniamo a conoscere lo estrapoliamo nel lontano, dentro l’ambito del plurilinguaggio espressivo, più ricco e misterioso di quello logico.
Nel secondo caso, ci lasciamo condurre dalla disponibilità alla crisi e accogliamo l’energia cosmica come forza capace di piegare, annullare, confondere, ribadire e rinnovare le convinzioni e le conoscenze, le estetiche e le tecniche. Uno sguardo lontano verso il lontano non si sa a che cosa può portare, forse all’annichilimento senza alcuna primavera; ma solo in questa sfida si può sperare in un’arte e in una scienza libera, determinata a confrontarsi con la verità non manipolata.
Quello sguardo ci può rivelare un modo nuovo di accostare le parole e di combinarle con la voce, la musica e il movimento in uno spazio che, per non dissolversi nel non-definito o infinito, e per non essere contaminato dallo spazio determinato e costretto, è uno spazio chiuso, dal quale lo sguardo lontano va lontano.
Lo sguardo-coscienza si chiude alle minacce di reindirizzamento sul particolarismo, sulla cronaca insignificante, sull’ideologia, sull’interesse personale.
Si tratta di un luogo chiuso mentale nel quale il rapporto con la realtà è immediato e meditativo, sordo alle opinioni precostituite; e di uno spazio scenico virtuale dal quale il pubblico è escluso in quanto esperienza diretta, ma invitato a condividerla attraverso lo specchio dell’attore.
Nel luogo chiuso, nel luogo dell’agone, gli attori sono agonisti in gara con se stessi, in gioco con le cose e le parole, in disputa con la società.
Essi concelebrano il rito scenico inventando nuove modalità relazionali non solo tra i celebranti, ma con lo spazio e il tempo e con le cose. Tra gli agonisti non c’è competizione, ma cooperazione. Nessuna forma di protagonismo.
“Sia per Plotino sia per Jung la coscienza non coincide con l’Io; vera coscienza è la consapevolezza che l’anima ha di se stessa come riflesso della psiche collettiva universale, e non già una consapevolezza di sé come soggettività egoica separata” (James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi 2002, pag. 21).
Un teatro, in conclusione, che volge le spalle al particolare per conciliarsi con l’universale, al quale porta in dono lo sguardo a ritroso, la biologia di un pianeta che attende di essere illuminata non dal dio inesistente, ma dall’accettazione di un mondo più ampio e profondo e complesso di quello dell’esperienza individuale.
Un mondo, per tanti aspetti, sconosciuto e incomprensibile, ma la cui essenza è presente in noi.
Hillman ci fa riflettere sulla conversione del cuore umano (divenuto solo muscolo e sede di sentimenti individuali) operato da Agostino nelle “Confessioni”. Non più un cuore sede di pensiero immaginativo che produce e fa ricorso agli archetipi perché ogni cuore è tutti i cuori, ma un cuore colonizzato dal dogma e sottomesso a un Dio da cui solo viene la verità.
“Fintantoché esperienza significa il vissuto personale, essa avrà bisogno del genere confessionale, in qualunque campo, nella psicologia del profondo come nelle arti, espresso come soggettivismo, espressionismo, romanticismo personalistico. I sentimenti diventano il punto centrale: i miei sentimenti sono il mio cuore. Per scoprirne il pensiero, devo svelare con precisione quello che provo. Il récit invece è un resoconto di eventi esperiti, più che del mio esperirli” (Hillman, pag. 71).
Un récit, quindi, un racconto, non un’immedesimazione. Stanislavskij non è più un fine, ma solo un mezzo. Il fine è la bellezza, ma non quella sacrificata dall’estetica in voga.
“La bellezza è l’anima mundi manifesta”. Ogni cronaca perde il suo particolarismo se viene vista con lo sguardo lontano; la consapevolezza della varietà del mondo e della compartecipazione di tutti gli esseri e di tutte le cose è di per sé bellezza.
“La bellezza è la percettibilità stessa del cosmo, è il suo avere qualità tattili, tonalità, sapori, il suo essere attraente. A tale proposito, conviene ricordare che la parola kosmos indicava originariamente in greco un’idea estetica, e politeistica: si riferiva alla giusta disposizione delle molteplici cose nel mondo, al loro assetto secondo il giusto ordine” (Hillman, pag. 83).
Bellezza del racconto-performance, dunque, come coerenza estetica con il cosmo, rispetto delle proporzioni, adeguamento all’ordine/disordine e all’empireo/infero, empatia delle anime con l’anima universale.
Scrive Plotino: “Anche noi, quando siamo belli, è perché siamo conformi a noi stessi, mentre siamo brutti allorché trapassiamo in un’altra natura” (Enneadi, V, 8, 13). Se la nostra natura è sociale ed empatica con tutte le altre forme di vita (minerale, vegetale, animale, energetica), ecco che il comportamento malvagio e distruttore è brutto. La morale è estetica e l’estetica è morale.
Il drammaturgo di pensiero che seziona la realtà per spiegarla e non per viverla e farla vivere, quello che enfatizza le emozioni e i sentimenti senza fare ricorso all’analisi della mente, quello che accentra il racconto esclusivamente su se stesso e sulla propria interiorità, quello che impoverisce l’espressione facendo ricorso a un solo linguaggio, quello che espone dogmi e non stimoli e suggestioni, quello che non sa portare lo sguardo lontano… tutti costoro rischiano di fare opere esteticamente di pregio e di successo, ma brutte se messe a confronto con l’anima mundi.
“Bellezza è verità, verità è bellezza - questo solo
sulla Terra sapete, ed è quanto basta”
(John Keats, Ode on a grecian urn, vv. 49-50.)
E ancora Hillman, a pag. 84:
“La bellezza non è dunque un attributo… ma una necessità epistemologica; è il modo in cui gli Dei toccano i nostri sensi, raggiungono il cuore, ci attirano nella vita. Al tempo stesso, è una necessità ontologica, ciò che fonda il mondo nella sua molteplice particolarità sensibile.”
Se, come scrive Hillman, “tutte le cose presentano anima”, dobbiamo allora fare i conti non solo con il drammaturgo, l’attore, il regista, lo scenografo, il costumista, il musicista, il coreografo… ma con gli oggetti di scena, che hanno anima; con le luci, con i costumi, con le immagini del luogo chiuso che si adatta alle situazioni e ai sentimenti, con la voce che prende anima al di là delle tecniche e con il gesto che si anima ripudiando la prigionia delle convenzioni quotidiane.
La scena si fa più complessa e più profonda. Non è più solo uno spazio strutturato con sapienza tecnica fatto di volumi, fondali, luci, musiche. Ogni elemento previsto dal piano di regia prende all’improvviso anima e chiede all’attore e al regista di rivedere le relazioni. Non più tra un essere animato e intelligente e un oggetto bruto, ma tra pari. Il teatro dell’anima chiede agli operatori di ascoltare che cosa dicono gli elementi che si fondono per costituire lo spettacolo. Una sedia non è più solo una sedia, ma un essere che reclama identità e originalità, libertà di espressione, accesso alle sue potenzialità. Una scatola vuota chiede di non essere colonizzata dal regista per essere sfruttata dagli interessi altrui e di non essere usata dall’attore in maniera tanto scarna. Essa, ascoltata, si rende partecipe della concertazione estetica.
Il regista si faccia recettivo non solo verso la propria inventiva, ma verso tutti gli elementi dello spettacolo, dal più umile al primo attore. E l’attore apra se stesso non solo alla comprensione del personaggio, non solo all’intonazione della voce e al tono muscolare, ma a tutto ciò che lo circonda, dal partner al cambiamento di luce, dalla melodia all’abito che indossa e all’oggetto che utilizza.
Non è il drammaturgo che fa il teatro, non è il regista, non è l’attore, ma è il teatro che fa se stesso quando le potenzialità dei suoi elementi sono liberate ed essi sono posti in comunicazione, così che ognuno tragga anima dall’altro, senza una gerarchia.
Dobbiamo…
“… dare valore all’anima prima che alla mente, all’immagine prima che al sentimento, ai ciascuni prima che al tutto, all’aisthesis e all’immaginazione prima che al logos e ai concetti, alle cose prima che al significato, alla notitia prima che al sapere, alla retorica prima che alla verità, all’animale prima che all’essere umano, ad Anima prima che all’Io, al che cosa e al chi prima che al perché” (Hillman, pag. 158).
Lo sguardo lontano si fa di nuovo sguardo vicino, ma si è purificato e ha acquisito acutezza e saggezza: ora vede dove prima non vedeva.
Questo sguardo, portato in teatro, ha tre visioni: il mito, il rito, il gioco.
Il mito ci dà la storia della formazione dell’universo e dell’uomo nelle sue dinamiche interpersonali e sociali; ci offre il racconto delle imprese degli dei e degli eroi emblematici, nelle quali ritroviamo le sfaccettature del nostro Io; prende la persona socializzata e la trasforma in individuo unico e rappresentativo dei rapporti con i pari, con la società, con il mondo e con gli dei.
Il teatro, se intende attingere all’anima mundi, non può che prendere le mosse dal mito. Nel nostro caso, il riferimento è Pan, l’unico dio a essere anche uomo e animale. Egli rappresenta l’unità di umanità, natura e trascendenza, espressa con l’erotismo e l’espressione artistica.
Il rito ci dà il codice di comportamento e di partecipazione emotiva per ri-elaborare il mito, mantenerlo vivo e condiviso; assicura a se stessi un ruolo nella comunità/gruppo/compagnia.
A volte può agire da elemento di spartiacque. Il rito dell’allestimento della scena, nel momento in cui il primo spettatore prende posto in platea, serve a definire il luogo chiuso-palcoscenico; esso è il luogo dello sguardo lontano e quindi dell’apertura all’anima mundi, mentre la platea-luogo aperto è l’ambito finito e definito delle convenzioni formali, del pensiero convergente, della storia ritoccata, della verità manipolata, del monoteismo civile e religioso.
Il gioco ci porta nella sfera della libertà e della fantasia, della sfida e della competizione, dei rapporti irrituali con le persone e di quelli divergenti con le cose. Esso risveglia la terza faccia dell’anima, quella della memoria-afettiva e quindi dell’immaginazione, dopo che quella razionale e quella volitiva hanno regnato in modo assolutistico e pragmatico.
Il gioco, anzi, consegna lo scettro alla memoria-affettiva e trasforma il luogo chiuso del palcoscenico nel regno della libertà e della potenza immaginativa.
Per giocare, non ci si può affidare al monoteismo di un genere, di un linguaggio, di una tecnica, di uno stile, di una verità. Il gioco coinvolge, da pari a pari, agonisti e oggetti, musiche e pantomime, coreografie e scenografie, parole e silenzi, canti e riti e miti. Al gioco, quindi, partecipano gli dei immaginifici di Hillman, con tutta la ricchezza di un mondo liberato dall’oppressione del pensiero antropocentrico.
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