venerdì 31 gennaio 2014

UN TEATRO TETRADIMENSIONALE

Tespi, figlio di Temone, simboleggia il passaggio dal mito-rito al teatro. Egli, nato secondo Orazio nel 566 a.C. a Icaria in Attica, porta per la prima volta una composizione teatrale alle Grandi Dionisie organizzate da Pisistrato, nell’Atene del 534, facendo dialogare il coro con un coreuta-attore. Come scrive Silvio D’Amico nella sua “Storia del teatro drammatico”, Solone lo rimproverò, domandandogli se non si vergognasse a fingere e mentire. Eppure, lo stesso Solone (oggi il “solone” è un saccente moralista), si finse pazzo per avere la libertà (i pazzi potevano dire qualsiasi cosa senza incorrere in reati) di eccitare gli ateniesi alla guerra e riprendersi così l’isola di Salamina. Il teatro, quindi, nasce e da subito infastidisce e allarma. D’altronde, esso scaturisce dai riti dionisiaci e si rifà ai miti. Le Baccanti che altro facevano se non travolgere tutto sul loro passaggio? Cose, persone, ruoli? E i miti non sono il racconto del conflitto? Del “dramma sociale” come lo descrive Victor Turner ne “Dal rito al teatro”? Il teatro come antistruttura, come meccanismo di consapevolezza e critica, di opposizione allo status quo che stimola produzione di pensiero e società nuovi.



Un coro più un coreuta divenuto attore, che non solo guida il coro, ma interloquisce e sviluppa un dialogo drammatico. Una disposizione lineare di fronte alla skenè, la tenda che delimita lo spazio dietro la quale gli interpreti si cambiano e ripongono successivamente gli attrezzi di scena. Un teatro bidimensionale. Ma piace, piace tantissimo. E piacerà ancora di più, al punto che per due secoli esso sarà seguito con fanatismo da tutta la popolazione di Atene (ingresso gratuito per i poveri). Dalla tenda iniziale, che segna comunque il passaggio dal canto-declamazione in movimento del corteo al luogo deputato per la rappresentazione, di forma circolare o trapezoidale, si passa a una struttura di legno, poco più che una baracca con davanti una pedana. La baracca diventa un vero e proprio teatro, ma sempre in legno; e qui Eschilo rappresenta le sue prime tragedie. Si fissa la data del 425 per il primo teatro in pietra: la skenè è diventata un edificio arricchito da colonne e statue, con tre, cinque o anche sette aperture; la pedana si trasforma nell’orchestra, uno spazio a volte trapezoidale ma poi sempre circolare o semicircolare nel quale danza e canta e recita il coro. Abbiamo quindi un teatro tridimensionale. La postazione del coro e la struttura della skenè a edificio danno profondità. Inoltre, a rendere più realistica la scena contribuiscono i fondali dipinti e le macchine che consentono effetti speciali. 


Ma la sede della rappresentazione cambia ancora aspetto e assume quello definitivo. In questo teatro furono rappresentati i capolavori di Eschilo, Sofocle, Euripide. Che cosa si fa? Si riflette sul fatto che la tragedia non sviluppa rapporti quotidiani tra gli uomini e vede in scena uomini straordinari, non tanto per le imprese compiute e la levatura morale, quanto per le forze universali e misteriose che essi rappresentano e con le quali si scontrano. Sono gli uomini del mito che hanno a che fare con gli dei e con il Fato, oltre che con la società. Gli attori che li impersonano devono staccarsi dalla realtà di tutti i giorni e quindi il loro corpo viene modificato: coturni, calzature con suole molto alte che ne fanno dei giganti; onkos, parrucche gonfie e alte che incrementano la maestosità; imbottiture sul corpo; la maschera che dà loro l’espressione fissa dell’orrore, della paura, dello stupore… della condizione umana; una maschera che altera la voce, non tanto per farla giungere meglio agli spettatori (i teatri hanno un’ottima acustica), quanto per farne la voce “ultraumana” dell’eroe mitico. 

L’attore non solo è più alto, ma deve stare più in alto. Con una ristrutturazione significativa, il piano dell’orchestra viene infossato (la fossa dell’orchestra o golfo mistico, realizzato per la prima volta in un edificio nel 1784 a Besancon) e quello della scena rialzato. In tale modo, il coro non ostacola più la visione degli attori. Ora l’attore tragico guarda il mondo dall’alto in basso, sapendo che sopra di lui possono comparire gli dei. Il coro simboleggia più che mai lo stato dell’umanità, sottomessa alla volontà dei potenti e a quella superiore delle divinità. 


Ricostruzione del teatro di Dioniso in Atene. 

Eccoci al teatro tetradimensionale. Lo spazio scenico si sviluppa in una profondità sia orizzontale sia verticale, suddividendosi in luoghi simbolici e rendendo molto più ricca e significativa la dinamica interpretativa. Negli sviluppi successivi, lo spazio si contrae. Euripide è il primo a incrinare il potere degli dei, descritti come indifferenti per le sorti dell’umanità, chiusi in un mondo meschino di gelosie e ripicche, di animo spietato e crudele. Egli, quindi, taglia la parte alta dello spazio, dato che gli dei olimpici sono invisibili e ininfluenti (quando ricorre al deus ex machina lo fa solo per risolvere tecnicamente la trama); taglia anche la parte bassa, dato che il coro perde d’importanza rispetto alla centralità dell’uomo e alla sua esigenza di risolvere da sé i problemi, senza ricorrere agli dei e alle istituzioni. Quello di Euripide è un umanesimo tragico e lo spazio si contrae, come se l’attore fosse al centro del cerchio di luce di un inseguipersone. Sempre più il teatro si concentra sull’uomo e sui suoi problemi quotidiani e il rapporto con entità sovrannaturali ritornerà solo nell’ambito del dramma religioso. L’uomo si allontana dal mito e si affida da una parte alla ragione dall’altra alla religione. 

Partendo dalla strutturazione spaziale del teatro tetradimensionale, ho impostato la regia del “Caligola” di Camus, attualmente in lavorazione, sui spazi contrapposti secondo la quadrimensionalità, nella quale è compreso il tempo. Abbiamo lo spazio base intorno al quale ruotano gli altri, l’antica pedana di Tespi, il luogo sacro del sacrificio-canto-racconto. Questo spazio è ricoperto da un telone bianco sotto il quale possono agire gli attori, relegati in un luogo-ctonio nel quale si rendono invisibili, ma dal quale elaborano forme in movimento. Esso si contrappone a quello visibile del potere: Caligola alto sopra tutto e tutti su una sedia girevole la cui seduta è di altezza variabile. Dietro di lui un fondalino di cellofan trasparente delinea una profondità di non chiara visibilità, determinando un luogo seminascosto, una zona di passaggio, un’alterità. Si creano quindi dinamiche di sopra e sotto, di avanti e dietro richiamate anche dal gioco dei palloncini che si gonfiano e si usano in modo diverso. Il gioco dei movimenti, a questo punto, si fa di necessità tempo. Si fa ritmo. Possiamo anche dire che il ritmo degli spazi si fa ritmo per i movimenti degli attori. La parola s’inserisce quindi in uno spazio non definito secondo i canoni della quotidianità e in ritmi che divergono dalla gestualità usuale. La parola richiede, allora, di non essere pronunciata solo per significati logici e di comunicazione immediata; ma anche per suggestione vicino-lontano, per echi, per scansioni ritmiche, come canto oltre che come parlato. È una parola che nasce insieme allo spazio e al ritmo, a loro volta sorti dall’analisi delle parole del testo. Parola recitata, parola cantata, parola declamata, parola balbettata, parola storpiata, parola gridata, parola registrata e amplificata… la recitazione si fa dinamica come dinamico si fa lo spazio, come la musica stessa si mette al servizio non dell’atmosfera o dello sfondo da creare in termini estetici, ma del corpo pensante dell’agonista in gara con sé. Il teatro non è un gioco estetico fine a se stesso, ma un rito espressivo. Con una grande differenza rispetto al rito. “Il rito accoglie e assume i conflitti e le crisi, dimostrandoli simbolicamente e mascherandoli nella sua forma; diversamente dal teatro che svela i conflitti e mostra le zone oscure dell’individuo e il malessere sociale” (Stefano De Matteis nell’introduzione all’edizione italiana di V. Turner, Dal rito al teatro).

venerdì 24 gennaio 2014

SENIOR TEAM

Ecco il video realizzato da Enrico Omodeo Salè per il progetto "Così siamo pari" di Vedogiovane e Aurive promosso dalla regione Piemonte, con la collaborazione di Tecneke e dell'istituto Pariani di Oleggio (un grazie a Daria Marin e Piera Gottardello). Un grazie speciale ai bambini di Tecneke che si sono prestati al gioco. Il video, con altri undici sulle pari opportunità, sarà fatto girare nelle scuole.
  IL VIDEO SARA' PRESTO DI NUOVO VISIBILE

TEMPERAMENTO TRAGICO E COMICO

 
Con “La nascita della Tragedia  dallo spirito della Musica” (1872), Nietzsche segue lo sviluppo della società greca antica in parallelo con quello della tragedia. La tragedia nasce dallo spirito dionisiaco soprattutto come coscienza della morte, dell’irrazionalità del mondo e della sua crudeltà. I “trogodoi”, cantori della capra (l’animale condotto al sacrificio, la tragedia come inno del/al sacrificio), non si lasciano tuttavia andare al pessimismo. Essi reagiscono con forza all’orrore della situazione umana contrapponendo al Fato un sistema olimpico che rappresenti l’anelito di giustizia, pace, rispetto della vita. È questa energia vitale che Nietzsche vuole recuperare per il popolo tedesco, esortandolo a uscire dall’impasse e a superare ogni volontà di autodistruzione. Un recupero di immagine di sé: dall’umanità naufraga in balia delle tempeste irrazionali al superuomo che si impone al destino. Nietzsche auspica un ritorno allo spirito dionisiaco, simboleggiato dalla musica di Wagner, che ridoni forza e fiducia alla nazione tedesca.
Allo spirito dionisiaco, scrive Nietzsche, sentito come rivelazione della realtà, ma anche come volontà di risorgere incessantemente (Dioniso muore, viene smembrato, ma ritorna in vita) riaffermata nei riti primaverili, si contrappone il pensiero di Euripide e di Socrate. Essi oppongono all’immaginazione mitica l’elaborazione logica della realtà, che ritengono comprensibile e modificabile secondo un progetto umano fondato sulla razionalità.
Con Euripide si assiste alla crisi della tragedia e con Socrate al ripudio del “pensiero primitivo” in nome di una dichiarata supremazia della mente umana capace di conoscere l’universo da sé sola.
Nasce, con loro, lo spiriti apollineo, legato non più alla musica, ma alla rappresentazione plastica della realtà, in primis alla scultura. Nasce la volontà di rappresentare il mondo così come appare e non come risulta dal desiderio e nel sogno. Il mondo è visibile e definibile. Il pensiero umano è in grado di descriverlo, comprenderlo, modificarlo senza ricorrere a dei o spiriti; e inizia il viaggio di ordinamento del cosmo e di svelamento dei suoi segreti che porterà alla scienza moderna, decretando la netta distinzione tra la positività della mente e la negatività delle forze oscure, magiche, trascendenti, ctonie.


Se andiamo più indietro nel tempo, alle soglie della comparsa della tragedia, prima ancora che Tespi ne anticipasse la forma con la performance di un attore al fianco del citaredo, troviamo due forme letterarie che preludono l’una alla tragedia e l’altra alla commedia: il ditirambo e il giambo.
Ma al di là della metrica e della esternazione rituale (con il ditirambo le invocazioni e i deliri esoterici della possessione dionisiaca; con il giambo le invettive e gli scherzi della processione-festa), si delineano due comportamenti e poi due “tipi” di persone.
Dal un lato abbiamo il temperamento tragico, dall’altro quello comico.
La persona di temperamento tragico non esita a prendere coscienza di come si presenta la realtà, togliendosi le maschere (persona, maschera di legno o terracotta, forse da per-sonare, per fare meglio arrivare la voce al pubblico) che le autodifese e le strategie di rassicurazione sociali gli hanno fornito. La realtà non è un idillio per nessuno. Non per la natura, fitta trama di vita e morte, dove non ha senso il concetto di giustizia, dove parole come orrore e crudeltà indicano la consuetudine, dove la catastrofe è la logica della propria dinamica, in perenne mutazione, rispondente a leggi che possono mutare, instabile e imprevedibile. Non per l’uomo, che da sempre combatte senza mai vincere le battaglie per la pace, la giustizia, l’equa distribuzione dei beni, l’ambiente… L’uomo dal temperamento tragico non per questo si fa prendere dal pessimismo e va in depressione. La sua è comunque una visione di vita, per quanto spietata e irrazionale possa apparire; e vive e produce alla ricerca non tanto di un senso, dato che è scettico verso le soluzioni basate sulla logica, quanto di un’armonia il più concreta possibile con l’universo, conscio della fatica e delle disillusioni che comporta.
Egli non fa i conti con la società, con la scienza, con la religione, ma solo con se stesso. Vede se stesso non come ingranaggio di uno stato, ma come essere liberamente pensante. Non si sente definito e delimitato dalla scienza. Non sottosta ai dogmi religiosi. Egli ha una visuale più ampia, come l’avevano i tragediografi greci, la cui fonte era il mito.
Un fatto di cronaca nera familiare (per esempio, l’uccisione del padre e l’incesto con la madre) non era solo una notizia, ma uno sconvolgimento dell’universo, una hybris che turbava l’ordine di dike e stava all’origine di terrificanti mali futuri. Un presente di colpe influenzava in peggio la storia a venire. Un meccanismo cosmico che si sarebbe trasformato, a breve, in reato e punizione che lo estingue, con ritorno immediato alla pace sociale. Come dire che l’inquinamento del pianeta si risolve con una multa, senza mettere in conto il disastro che l’oggi preannuncia per il domani.
Il temperamento tragico, insomma, pensa e agisce in grande, superando i confini del gruppo sociale e della mentalità a esso legata. Egli si relazione con il tutto universale e lo ritiene primario rispetto ai particolarismi storici e ideologici. La sua visione va sempre al di là, alla ricerca di “dei” (con il significato dato da James Hillman nella sua rielaborazione psicoanalitica degli archetipi junghiani) che lo supportino nell’errare esistenziale, aiutandolo nella ricerca di significati e soprattutto nelle relazioni con il mondo.
La molla esistenziale è l’indagine, la sperimentazione di relazioni, la partecipazione alla vita universale, l’adesione alla realtà senza infingimenti e ipocrisie e senza scopi egoistici ed egocentrici. Il temperamento tragico appartiene all’eroe solitario.
Lo scrittore di temperamento tragico non può limitarsi a raccontare la realtà in sé, ritenuta interessante e valida nel suo particolarismo, ma procede per simboli e stimoli, in una ricerca di segni che portino sempre altrove. Egli non ama e non odia l’esistenza, e la ama e la odia insieme, e comunque più che al “consumo” della propria esistenza è interessato alla sua dinamica nelle cose buone e cattive, alle relazioni con le cose, con gli animali, con i misteri.

Al contrario, il temperamento comico ama la realtà. Nobilita il cosmo come creazione dedicata all’uomo e pone l’uomo al centro degli accadimenti terreni e divini, nell’illusione che vi sia un reale progresso di civiltà che sfocerà in una palingenesi sia umana sia ultraterrena.
Il temperamento comico ama la socialità. La molla esistenziale è il protagonismo che si realizza su diversi livelli: nella famiglia, nel gruppo sociale di riferimento, nella società, nella storia.
Altra molla è il benessere. Egli cerca sicurezza e piacere sia nella fede materialistica che ripone la felicità nel possesso di beni sia nella fede religiosa adattata ai suoi scopi. Anche lui possiede una mitologia di riferimento, ma non la va a cercare agli albori dell’umanità e presso altre culture, bensì nell’ambito ristretto della propria esistenza, ampliata nell’area documentabile del passato.
Ama i ricordi, perché testimoniano la sua esistenza e le imprese che preludono a un trattamento epico della vita. Ama la vita propria e altrui con entusiasmo e con ostinazione, opponendosi a tutto ciò che può incrinare la sua “fede nell’uomo adesso e qui”: stranieri, pensatori anomali, atei, irrituali…
Esalta la comunità perché è nella comunità che trova il senso dell’esistenza, non certo nelle relazioni fumose e incomprensibili con l’universo, vissuto solo come “infinito suggestivo”, o “ammasso di stelle che stordisce” o “troppo grande e lontano per perdere tempo a pensarci”.
La vita è qui, ora e adesso. Tutta la vita è qui. Il resto è ipocrita assicurazione di eternità e perdono stipulata vendendo l’anima o lasciandosi beatamente invadere dalle illusioni gratificanti.
Il temperamento comico ama la convivialità, ama ridere, ama gli eccessi in nome di “la vita è breve e bisogna godersela fin che si può”. Manifesta amore per gli altri, ma l’aspetto comico (di commedia) può mutarsi all’improvviso in aggressività drammatica e trasformare la famiglia o la comunità in un mattatoio.
Egli trova nella comunità tutto ciò di cui ha bisogno per sentirsi vivo e protetto: le istituzioni, i valori, i rapporti affettivi e sessuali, il rispetto e la considerazione, il palcoscenico per il proprio successo, le occasioni per manifestare i buoni sentimenti, la chiesa per godere della benedizione divina, le esistenze altrui come specchio della propria o come pretesto per sfogare odio e violenza.
All’uomo di temperamento comico non interessa l’eroismo, ma il consenso; e detesta la solitudine.

In conclusione, da una parte abbiamo la tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide: l’uomo e la società, l’uomo e gli dei, l’uomo e il Fato, l’uomo e l’universo.
Dall’altra la commedia di Aristofane e Menandro: l’uomo e la società, l’uomo e i politici, l’uomo e gli accidenti quotidiani, l’uomo e il caso, l’uomo e il cortile.

E, in mezzo, l’una e l’altra, il mix di tragedia e commedia che ci dà la misura del nostro piccolo anche nell’atteggiamento eroico.

mercoledì 15 gennaio 2014

DRAGOL


Questa operazione, di ripescare tra gli inediti e dare nuova vita a opere dismesse, mi sta dando soddisfazione. Assomiglia a una riappropriazione del passato per dare significato a periodi spenti. Questo libro si chiamava "Bimbo boy". Ora è "Dragol". Il protagonista non è più un neonato rapito, ma un ragazzo grande e grosso di cui la madre dice: "...rappresenta l’umanità obesa del futuro, è uno che precorre i tempi, è un genio incompreso, basta che apre bocca e lo si capisce, non so ancora se fa lo scrittore o lo scienziato, magari il politico, a me mi pare che parla proprio uguale, che non sempre capisci, troppo difficile per chi non è del mestiere, dategli un microfono e si nota subito che lui è nato per stare davanti alle telecamere, anche il cantante pop può fare, meglio metal, sono tutti grossi i metal, anche il ballerino extralarge. Fagli la mossa, Gol. Lo vedete? Non è un animale da palcoscenico?”

Un libro di delinquenti e disperati, di ragazzini che vogliono comunque e sempre vivere, e di draghi che sono il senso dell'universo.
Ecco la presentazione.

Sono giovani, sono senza futuro, ma il presente lo vivono con intensità e immaginazione. Si chiamano Lombe, Gatto e Gol. Sono strambi, sono problematici, ma s’inventano un’agenzia investigativa. Di loro iniziativa, svolgono indagini sulla scomparsa di un neonato. “Se un bambino può scomparire così, nello scalpore fatuo che presto lascia il posto all’indifferenza, anche il mondo scompare con lui. Questo, infatti, non è un mondo. È un bidone della spazzatura. Ci trovi lo sporco, ma anche il sangue.”
Una storia cruda? Sì e no. Una storia comica? Sì e no. Una storia fantasy? Sì e no. Ma che storia è? Una storia unica nel suo genere. Ci trovi personaggi come Arturo Gelo, Carmen Paella, Ciclamino Bash, Gionni Potter, Judy Gorland, Luigi Bagnarola, Felicia Chelook, John Ueyn…
Ci trovi anche il Drago. Solo il Drago può indicare la via per trovare Bimbo Boy. E solo Gol sa come trovare il Drago. “Gli occhi del Drago sono enormi, espressivi, ma sembrano gli occhi di un folle, ora emettono luce carezzevole ora riflessi omicidi. Nella testa e nel cuore del Drago non ci sono pensieri e sentimenti umani. Che cosa ci sarà?”  

In tutti i siti online di EBOOK.


venerdì 10 gennaio 2014

ALLE ORIGINI DEL TEATRO

Già nel paleolitico, circa 15.000 anni fa, ci si mascherava, come per esempio testimoniano le pitture rupestri nella grotta dei “Trois Frères” nel sud della Francia.

Il primo stregone ha il corpo di un cavallo; la testa, con occhi rotondi e becco quasi di uccello, è incorniciata da una fluente barba e sormontata da corna di cervo. Il secondo indossa una pelle di animale e suona uno strumento musicale. Anche a Cipro, mille anni prima di Cristo, i sacerdoti ricavano maschere da teschi di tori.

Qualche secolo dopo, in Grecia, i cantori di ditirambi nei riti dionisiaci indossano maschere mostruose scolpite nella corteccia, che saranno poi umanizzate diventando i tipi della tragedia e della commedia.
“Un nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono, all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci che recitavano o cantavano i loro versi danzando furono chiamati danzatori” (da Lucia Mattera, La danza… passo dopo passo, in “La danza” online su www.novahumanitas.it).

La maschera animale o vegetale facilita la comunicazione dell’uomo con la natura. Una comunicazione forte, in cui l’istinto sottolinea le affinità che migliaia di anni dopo la ragione sempre più sfumerà fino a decretare una diversità inconciliabile tra uomo, pianta e bestia. L’uomo primitivo è trasformista, percepisce in sé l’essenza delle forme vegetali, animali e climatiche (che immaginerà poi come dei) e “recita” con danze e canti la propria identificazione con l’universo. La mente è magica, la vita condotta in coabitazione con gli spiriti, il dramma esistenziale è vivo e condiviso, poiché tutto è vivente, anche la lancia scagliata per dare la morte. Sulla preda uccisa si recitano formule di addio e di richiesta di perdono. Quando si maschera, l’uomo non assume un ruolo di finzione, ma subisce una metamorfosi in senso sciamanico: egli diventa ciò che appare. La sua sensibilità è del tutto diversa dalla nostra. Noi percepiamo il mondo attraverso la scienza, non più con la magia; gli animali selvaggi sono pittoreschi, quelli domestici antropomorfizzati; gli oggetti sono cose da consumare; le relazioni paritarie sono limitate agli altri esseri umani (a volte nemmeno tutti), ma risultano spesso alienate e alienanti e improntate più all’egotismo che alla cooperazione; la religione occupa solo un settore specifico nell’ambito delle attività ed è dogmatizzata e gerarchizzata, non consente un’evoluzione spirituale; spesso il fanatismo la pone in contraddizione con i valori predicati.

Dai rapporti primordiali nasce una forma di conoscenza dell’universo non fondata sulla logica, ma sul desiderio e sulla volontà: il mito.
Che cosa fa, dunque, l’uomo primitivo in maschera?
Egli, prima ancora di elaborare storie e di diffonderle e di interpretarle, ne vive le suggestioni secondo il desiderio e la volontà. Vengono alla mente le azioni fisiche di Stanislawskij tese a dare vita al personaggio sulla scena; e di Grotowski che le teorizza per sviluppare l’attore, più che il personaggio. In Italia, il confronto è con Eugenio Barba e con l’Antropologia Teatrale.
Con la maschera, la danza e il canto l’uomo primitivo modifica se stesso per entrare in contatto-sintonia con l’ambiente naturale e per modificarlo. Egli comunica con gli spiriti che poi diventeranno dei, manifesta i propri desideri e la propria volontà, mettendo in scena ora il fuoco che lo terrorizza, per esorcizzarlo, ora il cervo che gli sfugge, per catturarlo. Modifica se stesso per comunicare con gli spiriti dell’universo e con gli spettatori, che vivono di riflesso la sua esperienza trascendentale.

Egli, quindi, non interpreta il ruolo di fuoco o di cervo, ma è il fuoco e il cervo, e con la propria performance assicura alla comunità protezione e approvvigionamento. In senso grotowskiano, il suo è un sacrificio in favore della comunità. Egli rinuncia a sé e mette in pericolo la propria integrità confondendosi con le potenze naturali al fine di armonizzare la vita umana con quella universale e di attingere  la verità sotto le apparenze. Questo sacrificio esprime desiderio e volontà non in termini discorsivi e quotidiani, ma imitando e umanizzando i suoni e le forme della realtà naturale. Le parole si fondono con i suoni e i suoni con i ritmi e con le musiche, mentre le forme subiscono metamorfosi mediante le maschere e i travestimenti; lo spazio viene delimitato e consacrato; la performance fa da raccordo tra il pubblico e l’universo; essa non è semplicemente imitativa (si tratta di una copia dinamica intesa a modificare il presente e a riprogettare il futuro) e non è razionalizzabile, in quanto contiene aspetti di mistero.
Ecco che cosa fa l’uomo primitivo in maschera: abbandona la quotidianità e va alla ricerca di valori etici ed estetici nella doppia comunicazione con i propri simili e con il tutto universale.

Il suo rapporto con la realtà naturale non è frutto di una fede, dato che ancora non ha proiettato desiderio e volontà in un sistema teologico; egli traduce in azioni semplici (che formule linguistiche, ritmi e movimenti di danza differenziano da quelle quotidiane) le risposte istintive e impulsive alle necessità, alle emozioni e ai misteri dell’esistenza. Tali risposte si faranno via via sempre più profonde ed elaborate con l’utilizzo prima dell’immaginazione e poi del pensiero razionale. Per il momento, l’attore si espone non per un’esibizione di abilità particolari, ma per una convinzione sincera. Egli agisce non certo per guadagnarsi l’applauso e la benevolenza dei maggiorenti, ma per cercare il senso dell’esistenza e per celebrare i punti fermi delle sue conquiste “intellettuali”: i rapporti con la natura, i rapporti con la morte, i rapporti sociali. Chi danza non sfoggia una tecnica fine a se stessa, ma si avvale della tecnica per creare canali di comunicazione e per esprimere sia il desiderio che il mondo interiore si armonizzi  con quello esterno sia la volontà di cambiamenti dell’uno e dell’altro.

Quali sono dunque le caratteristiche del suo “teatro”?
-          uno spazio delimitato che via via diventa spazio sacro deputato alla comunicazione con gli dei
-          una separazione netta dal quotidiano, che rimane fuori dello spazio delimitato
-          una modificazione visiva del corpo mediante maschere e costumi (come faranno i sacerdoti)
-          una modificazione della gestualità e della voce che trasformi il corpo dall’interno
-          una fusione di movimento, voce, suono, musica, ritmo, visione
-          una fuga dalla realtà accentuata da suggestioni di luci e sinestesie
-          una fuga dalla realtà accentuata da stati alterati di coscienza dovuti all’estasi ritmica o a sostanze inebrianti e allucinogene
-          una tensione continua che garantisce l’aggancio sia con l’interiorità sia con il mondo
-          una riduzione simbolica dell’universo in uno spazio delimitato mediante l’utilizzo espressivo di oggetti, danze e ritmi; e in seguito mediante l’interpretazione di storie
-          un forte impatto sul “pubblico” che non assiste, ma partecipa

Quali riflessi per un teatro contemporaneo?
-          la drammaturgia del luogo chiuso, come l’ho definita in altri saggi
-          la netta separazione tra la rappresentazione e la quotidianità
-          la ricerca sulle azioni fisiche che devono essere espressione non solo dell’interiorità, ma del ritmo, della musica, dello spazio
-          l’utilizzo della tecnologia che soppianta la scelta del tempo ideale, la luce delle fiamme, l’organizzazione dello spazio e così via; e che supporta la fuga dalla realtà quotidiana
-          una tensione ininterrotta assicurata da testo, sonorizzazione, coreografia
-          un nuovo valore riservato agli elementi di scenografia e agli oggetti di scena; tutto ciò che è dentro lo spazio chiuso fa parte del mondo vivente rappresentato
-          un atteggiamento di esclusione del pubblico dalla rappresentazione da parte degli attori; lo spettatore assiste passivo, l’unica forma di partecipazione che gli viene consentita è di attivarsi come artista e creatore in altri luoghi e in altri tempi
-          la recitazione non come ricerca del personaggio, ma come proposta al personaggio di esprimere se stesso mediante l’apparato scenico; l’attore esprime disponibilità a sacrificare se stesso per ospitare il personaggio e per guidarlo nell’utilizzo di oggetti e nella dinamica espressiva con gli altri personaggi

 Con le civiltà stanziali, collocabili nell’8000 a.C., nascono i miti e i riti di fertilità.
Con la nascita del mito, s’impone la diversificazione della conoscenza della realtà. Da una parte il mythos, dall’altra il logos.
“La narrazione orale mette in moto nel pubblico un processo di comunione affettiva con le azioni drammatiche che formano la materia del racconto. Questa magia della parola (…) che conferisce ai diversi generi di declamazione – poesie, tragedia, retorica, sofistica – uno stesso tipo di efficacia, costituisce per i Greci una dimensione del mythos in opposizione al logos. Rinunciando volontariamente al drammatico e al meraviglioso, il logos situa la sua azione sulla mente a un livello diverso da quello dell’operazione mimetica (mimesis) e della partecipazione emotiva (sympatheia). Esso si propone di stabilire il vero dopo un’indagine scrupolosa e di enunciarlo secondo un modo di esposizione che, almeno in linea di principio, non fa appello che all’intelligenza critica” (Jean-Pierre Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi 2007, pag. 196).
Prima di addentrarci nel labirinto espressivo dei Greci, vediamo che significato hanno i drammi sacri/politici nell’Antico Egitto.

Grazie a un papiro ritrovato nel 1928 da Kurt Sethe, si è desunto, da frammenti di dialoghi e di indicazioni registiche, che mille anni prima della nascita della tragedia greca si praticava il culto dei Misteri di Osiride in forma teatrale. Il dramma Memfitico veniva rappresentato ogni anno il primo giorno di primavera, e raccontava la morte e la resurrezione di Osiride, e l’incoronazione di Horus, personificati/interpretati dal faraone.

Ma il rito egiziano per eccellenza è il dramma sacro di Abido, la città con l’Osireion, la tomba di Osiride, il luogo della rinascita. “Questo dramma sacro, recitato ad Abido, fu chiamato Mistero. Prendervi parte significava beneficiare dei riti efficaci che resero Osiride immortale, aprirsi all’immortalità” (Max Guilmot, Iniziati e riti iniziatici nell’Antico Egitto).
Esso rievocava la morte e la resurrezione di Osiride che, figlio di Ged (la Terra) e di Nut (il Cielo), successe al trono del padre e sposò la sorella Iside. Il fratello Set, però, geloso del suo potere, lo uccise, ne smembrò il corpo e ne seppellì i pezzi in vari luoghi d’Egitto. Iside li ricercò e con il rito dell'imbalsamazione fece rivivere Osiride sotto forma di Dio (Erodoto affianca Osiride a Dioniso, fatto a pezzi dai Titani e resuscitato da Zeus).
Il dramma-rituale viene chiamato rito di Osirizzazione e non è altro che la rappresentazione dell’intronizzazione del figlio del Faraone. Esso fu replicato, senza modifiche, per duemila anni. 

A differenza dei Greci, gli Egizi non hanno mai consentito che i singoli mettessero mano ai miti per svilupparli al di fuori dell’ambito rituale, convertendoli in drammi e tragedie. La valenza religiosa e politica del loro “teatro” è stata conservata intatta, conseguenza di una società teocratica votata all’immobilismo.
Non più, quindi, il rito teatrale come trasformazione di sé avendo come obiettivo la trasformazione del mondo (caccia, fertilità, guerra…); ma un rito misterico recitato a beneficio della casta sacerdotale e del potere del faraone.
Da un teatro che ha come obiettivo l’ampliamento della propria coscienza e la sintonia con l’universo a un teatro che si prefigge di consolidare i dogmi religiosi e il potere politico che essi sostengono.

Tra le due forme ce n’è una terza, da approfondire con lo sviluppo del teatro greco nei Misteri dionisiaci e in direzione della tragedia di Eschilo-Sofocle-Euripide e della commedia di Aristofane-Menandro: il teatro che da mistero si fa rappresentazione per un pubblico, promossa, gestita e controllata dallo stato e dalla religione. Una replica della dimensione egizia? No, perché questo teatro è libero, non è un’emanazione diretta e propagandistica del potere come è successo nei regimi dittatoriali del secolo scorso. È un teatro libero che viene tuttavia condizionato dal pubblico e da una visione storicizzata; teatro legato alla società, teatro antropocentrico e d’occasione; teatro gerarchizzato; teatro fatto più di cultura che di mistero, più di logos che di mythos.


SULLE ORIGINI DELLA DANZA

Lucia Mattera
In scena…passo dopo passo

Una sintesi (senza le note, di un testo efficace sulla storia della danza, che trovate completo online a La danza di L. Mattera)

“C’è chi dice che la danza sia antica quanto il mondo: gli ebrei danzarono dopo il passaggio del mar Rosso e attorno al vitello d’oro; Socrate danza ancora in tarda età; i soldati spartani danzavano all’assalto, ritmando passi di danza sul battito di scudi”: così Fertiault, in un suo saggio, riconosceva l’universalità della danza come suprema - e insieme indefinita - forma espressiva, indicandone, attraverso esempi significativi, quelle che saranno le funzioni e le occasioni specifiche presso i diversi popoli e le rispettive civiltà.
Ma per comprendere il ruolo della danza occorre partire da un passato più lontano, dalle radici remote della storia dell’umanità. Forme organizzate di danza si rinvengono, difatti, già presso popoli primitivi, legate a occasioni probabilmente sacrali: a suggerirlo le figure elementari di passi e movenze secondo schemi lineari o circolari, al pari della disposizione dei danzatori intorno a pietre sacre, intese come templi ed altari.

A uno stadio più avanzato, i movimenti, i passi, perdettero a poco a poco la loro funzione “imitativa”, divenendo più composti e ordinati: dal primitivo cerchio si passò alla fila, alla serpentina, alla spirale, ai gruppi di tre, alla coppia e alle esibizioni singole. Lo schema circolare, già presente nel paleolitico, costituì probabilmente il precedente di quella che più tardi, già in epoca ellenica, si affermerà col nome di “carola”; quello lineare, più recente ed aperto a rielaborazioni, si impose, col tempo, in occasioni di sacre o profane celebrazioni.
Al Paleolitico risalgono, altresì, le danze astrali, di fertilità, falliche e funebri; a epoche più tarde e prevalentemente al neolitico danze profane di corteggiamento, del fuoco, guerriere e del ventre. Generi e sottogeneri che vedranno una contemporanea fioritura nelle diverse civiltà storiche che si andranno ad esaminare.
EGITTO



Nell'Antico Egitto la danza fu un'attività tanto rituale quanto celebrativa, o semplicemente ludica, che accompagnava banchetti, feste e cerimonie religiose. Le prime testimonianze di danza risalgono al Periodo Predinastico (VI-IV millenio a.C.): si tratta di vasi con figure femminili con le braccia alzate sopra la testa, e statuine in terracotta nella medesima posizione. Per i periodi successivi numerose scene di danza, maschile e femminile, vengono raffigurate sulle pareti delle tombe.
Particolarmente frequenti sono le rappresentazioni di danzatrici: il più delle volte sono raffigurate ragazze che danzano a coppie o in gruppo, compiendo movimenti delle gambe con il busto piegato in avanti e la testa inclinata. In numerose raffigurazioni le danzatrici compiono movimenti acrobatici e ginnici. In un “ostrakon” del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) conservato al Museo Egizio di Torino è ritratta una giovane che si flette all'indietro toccando il suolo con la punta delle dita, mentre nelle raffigurazione della tomba di Kheti, a Beni Hasan, un gruppo di fanciulle svolge una serie di salti e capriole.
A ravvivare il ritmo, era di solito il battito di mani; corone di giunco, pesi oscillanti attaccati alle trecce esaltavano le armoniose movenze di flessuose danzatrici, nude o coperte da abiti succinti (a volte trasparenti) con nastri e catenelle avvolte intorno al ventre.

LA DANZA GRECA
  

Un nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono, all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci che recitavano o cantavano i loro versi danzando furono chiamati “danzatori”. Pindaro, del resto, definisce “danzatore”lo stesso Apollo e Omero narra nell’Iliade che Vulcano, il divino zoppo, cesellò sullo scudo di Achille una danza simile a quella che Dedalo aveva inventato per Arianna.
Vi erano rappresentati delle fanciulle e dei giovani intrecciati in un passo cadenzato, a imitazione del moto circolare di una ruota. Le fanciulle, coperte con un velo leggerissimo, e i giovani, lucenti per l’olio di cui si erano cosparsi, vestivano una tunica e portavano la spada con l'impugnatura d'oro e pendagli d’argento.
Mitologia a parte, attestazioni sulla danza e del suo ruolo in Grecia ci vengono sia da storici e trattatisti sia dagli stessi poeti lirici.
 Platone parla della danza nelle Leggi e nella Repubblica (IV sec. a.c.) e ritiene che abbia origine dal desiderio spontaneo del corpo dei giovani di muoversi; istinto tipico degli animali, ma che solo nell’uomo assume una forma ordinata e consapevole, grazie al ritmo e all’armonia. Il filosofo distingue, infatti, tra danze “buone” e “cattive”: le prime sono le danze armoniose, severe e gravi, che hanno come loro fine la bellezza e la bontà (ciò che è buono è anche bello); le seconde sono danze deformi e indecenti, che imitano il brutto e il ridicolo.
Analogamente per Luciano da Samosata, autore di un trattato su questa disciplina, la danza non entrò a far parte dei giochi olimpici solo perché i Greci temevano di non trovare premi degni di essa. Lo stesso attribuisce la sua origine all’intento di imitare i moti armoniosi degli astri e dei corpi celesti. Essa è, dunque, un dono delle divinità perché il kosmos, ovvero l’equilibrio e l’armonia, si diffondi nel mondo, ne informi passioni, sentimenti, che il danzatore ha il dono di illustrare, a sua volta, tramite gesti e movimenti.

Così, in una scena da lui descritta, il giovanetto danza col vigore della gioventù e il suo ballo consiste in passi militari, preludio dei movimenti che dovrà poi fare quando sarà al campo; la ragazza, invece, indica alle sue compagne come danzare, in modo che la danza risulta nel complesso una unione di forza e modestia. Su tale concezione insiste anche Erodoto a proposito del banchetto dato dal tiranno Clistene con lo scopo di scegliere un futuro sposo per sua figlia, la bella Agariste. In tale occasione, tutti i pretendenti dovevano esibire le loro qualità musicali e sociali; Ippoclide, il favorito di Clistene, racconta Erodoto, che si esibì proprio in una danza che in questo caso fu talmente lasciva da costargli la sposa. Attestazioni sulla danza, nel suo duplice valore etico ed estetico, ci vengono altresì dai lirici, sia che si tratti di fuggevoli visioni di balli festivi sia che si sintetizzi la sua intima essenza in incisive definizioni.

Gli Elleni, dunque, godevano di tali spettacoli, accogliendoli come espressione artistica associata ad esibizioni ludiche, non mancando l’elemento di stravaganza e provocazione nonché quello erotico.
Va però precisato che essi non conoscevano la danza di società nel senso in cui la intendiamo noi: inizialmente si danzava in gruppo o da soli, mai in coppia, e solitamente ragazzi e ragazze, reclutati soprattutto dall’Arcadia, si esibivano separati.
Ancora pitture e bassorilievi di bronzo e di marmo ci informano di gesti, occasioni, costumi e valenze simboliche delle tre principali tipologie: la danza sacra, la profana, la danza militare parenetica o con funzioni di celebrazione. Se ne offre qui una sintetica ma esaustiva descrizione.

Danze militari

 Tra le danze militari, la pirrica fu adottata dagli Spartani che la trasformarono in vera e propria danza di preparazione al combattimento. Platone, partendo dall’etimologia del nome (“pyrrìchios”, danza rossa) ne attribuisce l’origine alla dea Atena. La danza pirrica ebbe però il più grande sviluppo nella città di Lacedemone (Sparta), capitale della Laconia. Probabilmente derivata dai riti organizzati per celebrare le vittorie di guerra, veniva eseguita da giovani, sia individualmente che in gruppo, con armi e armature, che simulavano le posizioni di attacco e di difesa, accompagnati dalla musica del flauto. Questa danza aveva però anche lo scopo di esercitare i combattenti aumentandone l’agilità prima della battaglia stessa in cui dovevano confrontarsi con il nemico. Il capo dei guerrieri era infatti anche il capo dei danzatori. 
Più tardi divenne una pantomima di imitazione del combattimento, più vicina a una forma di spettacolo. Platone nelle “Leggi” descrive questa danza come una mimica guerriera che rappresenta i differenti momenti del combattimento; iniziava con alcune parate eseguite sia tornando indietro lateralmente, sia indietreggiando, sia saltando, sia abbassandosi. Era eseguita sia da danzatori singoli sia da due danzatori che si opponevano l’uno all'altro, sia in gruppo numeroso. In questa forma si trattava di una danza schermata, o meglio, di una scherma organizzata coreuticamente che introduceva una nota di virile bellezza nelle feste spartane dei Dioscuri e in altre feste come le Gimnopedie e le Grandi e Piccole Panatenaiche.  


Gli storici raccontano che gli eserciti spartani entrassero in battaglia con un tipo di marcia che corrispondeva a una danza. Fra le danze guerriere, si ricordano ancora la “xiphismòs” (danza con la spada) e la “thermastrìs” (danza dai movimenti convulsi).

In parallelo alla civiltà ellenica, la danza militare trovò inoltre notevole riscontro in aree geografiche, per lo più dell’Asia, con cui la Grecia ebbe contatti non soltanto culturali. Nell’”Anabasi” di Senofonte (VI, 1, 2-13) si legge, ad esempio, di uno spettacolo improvvisato che danzatori greci offrirono, per sancire la pace, a dignitari Paflagoni sulla costa del Mar Nero. Tra le danze descritte, quella “delle spade”, ancora oggi comune nel mondo balcanico e medio-orientale, in cui le spade, virtuosamente volteggiate, fendevano l’aria tra canti militari. Al termine di un mimico duello, il ballerino “morto” era condotto via, spogliato delle armi. Più vivaci e originali le danze successive, come ad esempio la “carpea”, propria della Tessaglia, con due attori-ballerini nelle parti rispettive di un ladro astuto e di un soldato contadino. La danza poteva essere conclusa con la vittoria del ladro che imbavagliava e depredava il contadino (finale presentato con successo in quella occasione) o con la cattura, al contrario, del malfattore, colto in flagrante nell’atto di rubare i buoi. A concludere il gradito spettacolo, un ballo misio con scudi, fatto di salti, piroette e movenze difensive, altre danze militari, dell’Arcadia e di Mantinea, al ritmo di flauti e battiti di scudi, e l’improvvisa apparizione di un’agghindata ballerina, che suscitò tra i compiaciuti Paflagoni un’entusiastica ammirazione!

Legate a occasioni svariate, che vanno dalle feste alle rappresentazioni teatrali, le danze non legate in esclusiva a vincoli sacri riconducono le loro origini e caratteristiche a vicende mitologiche nonché ad aspetti della natura e della quotidianità.
Tra le danze cosiddette “allegre” si ricorda la “diploia”, in cui le cadenze erano sostenute con la voce; l’“ephilema”, costituita da una specie di girotondo cantato e accompagnato dalla musica. Una struttura più articolata presentava la “Niobe”, una vera e propria coreografia divisa in cinque atti (preludio, sfida, combattimento, tregua e vittoria).
Particolari per l’originalità dei temi, la “chreon apokopè”, in cui veniva rappresentato il taglio delle carni; le “Hypogones”, imitazione di vecchi curvi sui loro bastoni; il “nibadismos” , con movenze simili ai balzi delle capre.
Ogni città greca aveva, inoltre, la “danza Bucolica” e la “danza dei Fiori.” Fra le più rinomate vi erano poi la “danza delle Ninfe”, la “danza del Giavellotto”, la “danza degli Elementi” e quella “delle Vergini schiave”. Una danza rustica molto particolare era quella dedicata a Bacco, in cui i ballerini dovevano saltare su otri pieni d’aria e unti con l'olio, affinché scivolassero.
Ancora agli animali si ispiravano la danza “degli uccelli migratori” (a inventarla fu forse Teseo ) e singole movenze che ne imitavano l'andatura, come il passo del gufo, dell'avvoltoio, della civetta, della volpe.

Danze profane 


Coloro che accompagnavano le danze dando il tempo ai ballerini battendo i piedi (accelerandolo o rallentandolo a seconda delle situazioni) erano muniti di sandali di legno o di ferro, più o meno pesanti a seconda dell'effetto che si voleva ottenere. Per le cadenze leggere invece battevano le mani una contro l’altra, con gusci d’ostriche o conchiglie.  
Ricordi di queste e simili tipologie di danza si riscontrano anche in attuali balli popolari. L’attuale “sousta”, per esempio, deriverebbe dalla danza eseguita da Achille intorno alla pira del defunto Patroclo, per quanto, eseguita nelle piazze dei villaggi, si connoti piuttosto come ballo d’amore. Lo “tsakonikos”, ovvero “ danza del labirinto”, sembra invece conservare il legame originario col mito di Teseo e del Minotauro, mentre la “mirologhia” mira essenzialmente, in un contesto funebre, al ricordo e alla celebrazione. Il tutto in un gioco di piedi battuti a terra o strusciati, salti, contorsioni, e ritmo che si fa sempre più serrato.

Danze sacre
A partire dalla nota definizione nietzschiana, una prima categorizzazione delle danze cultuali vede da un lato le danze “apollinee”, severe, composte, legate in esclusiva ad un contesto cultuale, dall’altro quelle dionisiache, dal ritmo concitato, satiriche, orgiastiche talora, molto spesso improvvisate.
Le danze apollinee più famose furono: la “gheranos” , danza degli Ateniesi a Delo, l’ “emmèleia”, danza usata nella tragedia, il “peana”, danza magica eseguita dal coro, e infine la danza “ipochermatica”, accostabile, per la vivacità del ritmo, a quelle dionisiache.
Di particolare interesse, e forse tra le più antiche, la “gheranos”, che, come suggerisce il nome, imitava i movimenti di Tèseo nel Labirinto. E fu proprio all’eroe ateniese che se ne attribuì l’origine, quando, appunto sbarcava a Dèlos di ritorno da Creta. A offrircene un’idea l’immagine ritratta sul vaso François, con uomini e donne alternativamente che sfilano, rivolti verso l’altare, in pose rigide, tenendosi per mano. Un richiamo alla civiltà cretese (a cui si ascrive, del resto, la provenienza delle danze apollinee) è nell’abbigliamento femminile, costituito da lunghe tuniche aderenti, alla maniera della “Dea dei serpenti”, vivacizzati da stilizzate geometrie. Corti mantelli di forma triangolare caratterizzano invece le figure maschili, con ridotti copricapi e le gambe scoperte e divaricate.

Danza per eccellenza della tragedia, eseguita nelle pàrodo, negli stàsimi e negli esodi finali, l’emmelèia, come tale, si caratterizzava per atteggiamenti (o schemi) composti, coordinati in passaggi (phorài) distinti e compiuti. “Grave e dignitosa”, come la definivano già antichi commentatori, essa poteva adattarsi tuttavia agli argomenti delle singole tragedie. Si deve a Polluce la trasmissione di alcuni nomi di passi di danza (tra questi “panierino”, “doppia”, “capriola”, “mano concava”, ecc.), ma ciò non basta a evocare la dinamica del passo che designano. Si può anzi ritenere che appartengano alla danza greca in generale e non all’emmeleia in particolare.
Tra le danze afferenti al culto di Dioniso, le più famose erano il “kordax”, danza tipica della commedia, l’“oklasma”, danza persiana con caratteristiche acrobatiche, la “sikinnis”, propria del dramma satiresco, a contenuto scurrile.
A caratterizzare la prima, movimenti grossolani e grotteschi, ascrivibili al suo legame con i culti di varie divinità e in particolare di Dioniso; si pensava infatti che fosse riprovevole danzare il cordace da sobri e che Dioniso si fosse servito di esso, come di bevande inebrianti, per ridurre in proprio potere intere popolazioni refrattarie.

Rispetto al peana, anch’esso eseguito in onore di Apollo (il cui culto sostituì a Creta quello dell’antico dio della medicina Paiaon), l’iporchema presentava una struttura più complessa, non esclusivamente innodica. Grande importanza veniva infatti attribuita alla danza, oltre che al canto, secondo almeno due modalità di esecuzione: nella prima, era una sola persona a cantare e suonare, mentre il resto del coro si esibiva nella danza; nella seconda, attestata da Luciano (De salt., 16), e praticata già in antico a Delo, più persone suonavano, mentre il resto del coro, con movimenti lenti e pacati, dava plastica espressione alla musica ed alla poesia.
Alla cultura cretese sembrano ricondurre diversi particolari, dalla postura rigida e frontale delle figure, pur ritratte in movenze di danza, al generale abbigliamento, comune ai personaggi degli affreschi (ad es., il “Principe dei gigli”) o dell’arte statuaria. Origini persiane o comunque asiatiche si ipotizzano, invece, per le danze dionisiache. Risulta purtroppo impossibile ricostruirne i passi, anche se alcuni studiosi hanno creduto di ravvisarli in talune rappresentazioni di danza sui vasi antichi. In particolare, in un cratere di Tarquinia, si scorgono tre ballerini, uno dei quali con la veste sollevata sul ginocchio, nell’atto di schernire, forse, il satiro centrale, che ha a sua volta, verso di lui, una gamba sollevata; simile alla prima, per un effetto di simmetria, la terza figura, priva, come le altre, di copricapo e calzare. Una scena simile compare su vasi laconici e corinzi, della fine del VII sec. a.C., ma in relazione, più probabilmente, alla “danza dei comasti”, cui sembra ispirarsi in origine lo stesso cordace. Anche in questo caso, i danzatori sembrano interagire tra loro, disposti frontalmente o di spalle, procedendo a saltelli e toccandosi talora con le punte dei piedi.


Più nota, invece, la struttura della sicìnnide, la cui mìmica si fonda soprattutto su rapidi movimenti delle mani, come lo “skops” (mano a solecchio), la “kéir simé” (mano con palmo all’infuori, piegata di 90 gradi al polso), la “kéir kataprenés” (palmo rivolto a terra). Contemporaneamente, i danzatori piegano alternativamente le due gambe all’altezza del ginocchio, ruotando vorticosamente su se stessi o procedendo a salti in avanti con le mani tese.
Da citare, infine, la “tribasia”, ovvero la danza del ditirambo, eseguita intorno all’altare di Dioniso, da un coro di 50 coreuti, al suono della cetra e del flauto. Una probabile scena di questa danza, opera del cosiddetto “Pittore di Pan”, è ritratta su un cratere a Basilea, custodito all’ “Antikenmuseum”: ivi tre coppie di danzatori, con le braccia levate in avanti e il corpo piegato in opposta direzione, avanzano verso sinistra al simulacro di Dioniso. Motivi geometrici, soprattutto “greche”, vivacizzano, oltre alla “nebris” (ossia la benda di pelle leopardata), i corti mantelli frangiati ; da notare, inoltre, l’assenza di calzari.
In una iscrizione frigia, figura la parola “dithrera” col significato di “sepolcro”, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia stato, all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade, XXIV 721 e un passo della “Poetica” di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, “coloro che intonano il lamento”, di cui parla Omero, altri non sarebbero infatti che gli exarchontes ton dithyrambon, “coloro che intonano il ditirambo”, ritenuti da Aristotele, come accennato, i precursori della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi.

La “nebris” era una pelle ferina, indossata dai seguaci di Dioniso come una tunica, ricavata di solito dal cerbiatto ma anche dalla pantera, dal capro, dalla lince o dalla volpe, animali legati in vario modo alle vicende e al culto del dio.  

Al culto di Dioniso, si ricollegano anche le danze delle Menadi, invasate dalla carismatica potenza del dio. La loro danza, di rapimento e di istintività, fu effigiata dalla nota scultura di Scopa, nonché codificata come genere artistico, con la precisa corrispondenza tra gestualità e moti dell'animo. Si ricollegherebbe, invece, al culto di Afrodite e degli Amori – invocati, a detta di Luciano, perché partecipino anch’essi al tripudio e ala gioia- la cosiddetta “collana” (όρμός), in cui fanciulli e giovinetti si inseguono in u intreccio di grazia e virilità.

Ancora figure femminili sono le protagoniste della danza “cariathide”, così denominata da Carya, una fanciulla di nobile stirpe spartana, ed eseguita in onore di Artemide. Il ritmo concitato e l’intenso pathos che ne è sostrato si evincono da alcuni movimenti e posture, come il busto in avanti e la testa rovesciata.