Lucia Mattera
In scena…passo dopo passo
Una sintesi (senza le note, di un testo efficace sulla storia della danza, che trovate completo online a La danza di L. Mattera)
“C’è
chi dice che la danza sia antica quanto il mondo: gli ebrei danzarono dopo il
passaggio del mar Rosso e attorno al vitello d’oro; Socrate danza ancora in
tarda età; i soldati spartani danzavano all’assalto, ritmando passi di danza
sul battito di scudi”: così Fertiault, in un suo saggio, riconosceva l’universalità
della danza come suprema - e insieme indefinita - forma espressiva,
indicandone, attraverso esempi significativi, quelle che saranno le funzioni e
le occasioni specifiche presso i diversi popoli e le rispettive civiltà.
Ma
per comprendere il ruolo della danza occorre partire da un passato più lontano,
dalle radici remote della storia dell’umanità. Forme organizzate di danza si
rinvengono, difatti, già presso popoli primitivi, legate a occasioni
probabilmente sacrali: a suggerirlo le figure elementari di passi e movenze
secondo schemi lineari o circolari, al pari della disposizione dei danzatori
intorno a pietre sacre, intese come templi ed altari.
A uno
stadio più avanzato, i movimenti, i passi, perdettero a poco a poco la loro
funzione “imitativa”, divenendo più composti e ordinati: dal primitivo cerchio
si passò alla fila, alla serpentina, alla spirale, ai gruppi di tre, alla
coppia e alle esibizioni singole. Lo schema circolare, già presente nel
paleolitico, costituì probabilmente il precedente di quella che più tardi, già
in epoca ellenica, si affermerà col nome di “carola”; quello lineare, più
recente ed aperto a rielaborazioni, si impose, col tempo, in occasioni di sacre
o profane celebrazioni.
Al
Paleolitico risalgono, altresì, le danze astrali, di fertilità, falliche e
funebri; a epoche più tarde e prevalentemente
al neolitico danze profane di corteggiamento, del fuoco, guerriere e del
ventre. Generi e sottogeneri che vedranno una contemporanea fioritura nelle
diverse civiltà storiche che si andranno ad esaminare.
EGITTO
Nell'Antico
Egitto la danza fu un'attività tanto rituale quanto celebrativa, o
semplicemente ludica, che accompagnava banchetti, feste e cerimonie religiose.
Le prime testimonianze di danza risalgono al Periodo Predinastico (VI-IV
millenio a.C.): si tratta di vasi con figure femminili con le braccia alzate
sopra la testa, e statuine in terracotta nella medesima posizione. Per i
periodi successivi numerose scene di danza, maschile e femminile, vengono raffigurate
sulle pareti delle tombe.
Particolarmente
frequenti sono le rappresentazioni di danzatrici: il più delle volte sono
raffigurate ragazze
che danzano a coppie o in gruppo, compiendo movimenti delle gambe con il busto
piegato in avanti e la testa inclinata. In numerose raffigurazioni le
danzatrici compiono movimenti acrobatici e ginnici. In un “ostrakon” del Nuovo
Regno (1543-1069 a.C.) conservato al Museo Egizio di Torino è ritratta una
giovane che si flette all'indietro toccando il suolo con la punta delle dita, mentre
nelle raffigurazione della tomba di Kheti, a Beni Hasan, un gruppo di fanciulle
svolge una serie di salti e capriole.
A
ravvivare il ritmo, era di solito il battito di mani; corone di giunco, pesi
oscillanti attaccati alle trecce esaltavano le armoniose movenze di flessuose
danzatrici, nude o coperte da abiti succinti (a volte trasparenti) con nastri e
catenelle avvolte intorno al ventre.
LA DANZA GRECA
Un
nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono,
all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci
che recitavano o cantavano i loro versi danzando
furono chiamati “danzatori”. Pindaro, del resto, definisce “danzatore”lo stesso
Apollo e Omero
narra nell’Iliade che Vulcano, il divino zoppo, cesellò sullo scudo di Achille
una danza simile a quella che Dedalo aveva inventato per Arianna.
Vi
erano rappresentati delle fanciulle e dei giovani intrecciati in un passo
cadenzato, a imitazione del moto circolare di una ruota. Le fanciulle, coperte
con un velo leggerissimo, e i giovani, lucenti per l’olio di cui si erano
cosparsi, vestivano una tunica e portavano la spada con l'impugnatura d'oro e
pendagli d’argento.
Mitologia
a parte, attestazioni sulla danza e del suo ruolo in Grecia ci vengono sia da
storici e trattatisti sia dagli stessi poeti lirici.
Platone parla della danza nelle Leggi e nella
Repubblica (IV sec. a.c.) e ritiene che abbia origine dal desiderio spontaneo
del corpo dei giovani di muoversi; istinto tipico degli animali, ma che solo nell’uomo
assume una forma ordinata e consapevole, grazie al ritmo e all’armonia. Il filosofo
distingue, infatti, tra danze “buone” e “cattive”: le prime sono le danze
armoniose, severe e gravi, che hanno come loro fine la bellezza e la bontà (ciò
che è buono è anche bello); le seconde sono danze deformi e indecenti, che
imitano il brutto e il ridicolo.
Analogamente
per Luciano da Samosata, autore di un trattato su questa disciplina, la danza
non entrò a far parte dei giochi olimpici solo perché i Greci temevano di non
trovare premi degni di essa. Lo stesso attribuisce la sua origine all’intento
di imitare i moti armoniosi degli astri e dei corpi celesti. Essa è, dunque, un
dono delle divinità perché il kosmos, ovvero l’equilibrio e l’armonia, si
diffondi nel mondo, ne informi passioni, sentimenti, che il danzatore ha il
dono di illustrare, a sua volta,
tramite gesti e movimenti.
Così,
in una scena da lui descritta, il giovanetto danza col vigore della gioventù e
il suo ballo consiste in passi militari, preludio dei movimenti che dovrà poi
fare quando sarà al campo; la ragazza, invece, indica alle sue compagne come
danzare, in modo che la danza risulta nel complesso una unione di forza e
modestia. Su tale concezione insiste anche Erodoto a proposito del banchetto
dato dal tiranno Clistene con lo scopo di scegliere un futuro sposo per sua
figlia, la bella Agariste.
In tale occasione, tutti i pretendenti dovevano esibire le loro qualità
musicali e sociali; Ippoclide, il favorito di Clistene, racconta Erodoto, che
si esibì proprio in una danza che in questo caso fu talmente lasciva da
costargli la sposa. Attestazioni sulla danza, nel suo duplice valore etico ed
estetico, ci vengono altresì dai lirici, sia che si tratti di fuggevoli visioni
di balli festivi sia che si sintetizzi la sua intima essenza in incisive
definizioni.
Gli
Elleni, dunque, godevano di tali spettacoli, accogliendoli come espressione
artistica associata ad esibizioni
ludiche, non mancando l’elemento di stravaganza e provocazione nonché quello
erotico.
Va però precisato che essi non conoscevano la
danza di società nel senso in cui la intendiamo noi: inizialmente
si danzava in gruppo o da soli, mai in coppia, e solitamente ragazzi e ragazze,
reclutati soprattutto
dall’Arcadia, si esibivano separati.
Ancora pitture e bassorilievi di bronzo e di
marmo ci informano di gesti, occasioni, costumi e valenze simboliche delle tre
principali tipologie: la danza sacra, la profana, la danza militare parenetica
o con funzioni di celebrazione. Se ne offre qui una sintetica ma esaustiva
descrizione.
Danze
militari
Tra le danze militari, la pirrica fu adottata
dagli Spartani che la trasformarono in vera e propria danza di preparazione al
combattimento. Platone, partendo dall’etimologia del nome (“pyrrìchios”, danza rossa)
ne attribuisce l’origine alla dea Atena. La danza pirrica ebbe però il più
grande sviluppo nella città di Lacedemone (Sparta), capitale della Laconia.
Probabilmente derivata dai riti organizzati per celebrare le vittorie di
guerra, veniva eseguita da giovani, sia individualmente che in gruppo, con armi
e armature, che simulavano le posizioni di attacco e di difesa, accompagnati
dalla musica del flauto. Questa danza aveva però anche lo scopo di esercitare i
combattenti aumentandone l’agilità prima della battaglia stessa in cui dovevano
confrontarsi con il nemico. Il capo dei guerrieri era infatti anche il capo dei
danzatori.
Più tardi divenne una pantomima di imitazione del combattimento, più
vicina a una forma di spettacolo. Platone nelle “Leggi” descrive questa danza
come una mimica guerriera che rappresenta i differenti momenti del
combattimento; iniziava con alcune parate eseguite sia tornando indietro lateralmente,
sia indietreggiando, sia saltando, sia abbassandosi. Era eseguita sia da danzatori
singoli sia da due danzatori che si opponevano l’uno all'altro, sia in gruppo
numeroso. In questa forma si trattava di una danza schermata, o meglio, di una
scherma organizzata coreuticamente che introduceva una nota di virile bellezza
nelle feste spartane dei Dioscuri e in altre feste come le Gimnopedie e le
Grandi e Piccole Panatenaiche.
Gli
storici raccontano che gli eserciti spartani entrassero in battaglia con un
tipo di marcia che corrispondeva a una danza. Fra le danze guerriere, si
ricordano ancora la “xiphismòs” (danza con la spada)
e la “thermastrìs” (danza dai movimenti convulsi).
In
parallelo alla civiltà ellenica, la danza militare trovò inoltre notevole
riscontro in aree geografiche, per lo più dell’Asia, con cui la Grecia ebbe
contatti non soltanto culturali. Nell’”Anabasi” di Senofonte (VI, 1, 2-13) si
legge, ad esempio, di uno spettacolo improvvisato che danzatori greci
offrirono, per sancire la pace, a dignitari Paflagoni sulla costa del Mar Nero.
Tra le danze descritte, quella “delle spade”, ancora oggi comune nel mondo
balcanico e medio-orientale, in cui le spade, virtuosamente volteggiate, fendevano
l’aria tra canti militari. Al termine di un mimico duello, il ballerino “morto”
era condotto via, spogliato delle armi. Più vivaci e originali le danze
successive, come ad esempio la “carpea”, propria della Tessaglia, con due
attori-ballerini nelle parti rispettive di un ladro astuto e di un soldato
contadino. La danza poteva essere conclusa con la vittoria del ladro che
imbavagliava e depredava il contadino (finale presentato con successo in quella
occasione) o con la cattura, al contrario, del malfattore, colto in flagrante nell’atto
di rubare i buoi. A concludere il gradito spettacolo, un ballo misio con scudi,
fatto di salti, piroette e movenze difensive, altre danze militari,
dell’Arcadia e di Mantinea, al ritmo di flauti e battiti di scudi,
e l’improvvisa apparizione di un’agghindata ballerina, che suscitò tra i
compiaciuti Paflagoni un’entusiastica
ammirazione!
Legate
a occasioni svariate, che vanno dalle feste alle rappresentazioni teatrali, le
danze non legate in esclusiva a vincoli sacri riconducono le loro origini e
caratteristiche a vicende mitologiche nonché ad aspetti della natura e della
quotidianità.
Tra
le danze cosiddette “allegre” si ricorda la “diploia”, in cui le cadenze erano
sostenute con la voce; l’“ephilema”, costituita da una specie di girotondo
cantato e accompagnato dalla musica. Una struttura più articolata presentava la
“Niobe”, una vera e propria coreografia divisa in cinque atti (preludio, sfida,
combattimento, tregua e vittoria).
Particolari
per l’originalità dei temi, la “chreon apokopè”, in cui veniva rappresentato il
taglio delle carni; le “Hypogones”, imitazione di vecchi curvi sui loro
bastoni; il “nibadismos” , con movenze simili ai balzi delle capre.
Ogni
città greca aveva, inoltre, la “danza Bucolica” e la “danza dei Fiori.” Fra le
più rinomate vi erano poi la “danza delle Ninfe”, la “danza del Giavellotto”,
la “danza degli Elementi” e quella “delle Vergini schiave”. Una danza rustica
molto particolare era quella dedicata a Bacco, in cui i ballerini dovevano saltare
su otri pieni d’aria e unti con l'olio, affinché scivolassero.
Ancora
agli animali si ispiravano la danza “degli uccelli migratori” (a inventarla fu
forse Teseo ) e singole movenze che ne imitavano l'andatura, come il passo del
gufo, dell'avvoltoio, della civetta, della volpe.
Danze
profane
Coloro
che accompagnavano le danze dando il tempo ai ballerini battendo i piedi
(accelerandolo o rallentandolo
a seconda delle situazioni) erano muniti di sandali di legno o di ferro, più o
meno pesanti a seconda dell'effetto che si voleva ottenere. Per le cadenze
leggere invece battevano le mani una contro l’altra, con gusci d’ostriche o
conchiglie.
Ricordi
di queste e simili tipologie di danza si riscontrano anche in attuali balli
popolari. L’attuale “sousta”,
per esempio, deriverebbe dalla danza eseguita da Achille intorno alla pira del
defunto Patroclo, per quanto, eseguita nelle piazze dei villaggi, si connoti
piuttosto come ballo d’amore. Lo “tsakonikos”, ovvero “ danza del labirinto”,
sembra invece conservare il legame originario col mito di Teseo e del Minotauro,
mentre la “mirologhia” mira essenzialmente, in un contesto funebre, al ricordo
e alla celebrazione. Il tutto in un gioco di piedi battuti a terra o
strusciati, salti, contorsioni, e ritmo che si fa sempre più serrato.
Danze
sacre
A
partire dalla nota definizione nietzschiana, una prima categorizzazione delle
danze cultuali vede da un
lato le danze “apollinee”, severe, composte, legate in esclusiva ad un contesto
cultuale, dall’altro quelle dionisiache, dal ritmo concitato, satiriche,
orgiastiche talora, molto spesso improvvisate.
Le
danze apollinee più famose furono: la “gheranos” , danza degli Ateniesi a Delo,
l’ “emmèleia”, danza usata nella tragedia, il “peana”, danza magica eseguita
dal coro, e infine la danza “ipochermatica”, accostabile, per la vivacità del
ritmo, a quelle dionisiache.
Di
particolare interesse, e forse tra le più antiche, la “gheranos”, che, come
suggerisce il nome, imitava i movimenti di Tèseo nel Labirinto. E fu proprio
all’eroe ateniese che se ne attribuì l’origine, quando, appunto sbarcava a
Dèlos di ritorno da Creta. A offrircene un’idea l’immagine ritratta sul vaso
François, con uomini e donne alternativamente che sfilano, rivolti verso
l’altare, in pose rigide, tenendosi per mano. Un richiamo alla civiltà cretese
(a cui si ascrive, del resto, la provenienza delle danze apollinee) è nell’abbigliamento
femminile, costituito da lunghe tuniche aderenti, alla maniera della “Dea dei serpenti”,
vivacizzati da stilizzate geometrie. Corti mantelli di forma triangolare
caratterizzano invece le figure maschili, con ridotti copricapi e le gambe scoperte
e divaricate.
Danza
per eccellenza della tragedia, eseguita nelle pàrodo, negli stàsimi e negli
esodi finali, l’emmelèia, come tale, si caratterizzava per atteggiamenti (o
schemi) composti, coordinati in passaggi (phorài) distinti e compiuti. “Grave e
dignitosa”, come la definivano già antichi commentatori, essa poteva adattarsi tuttavia
agli argomenti delle singole tragedie. Si deve a Polluce la trasmissione di
alcuni nomi di passi di danza (tra questi “panierino”, “doppia”, “capriola”,
“mano concava”, ecc.), ma ciò non basta a evocare la dinamica del passo che
designano. Si può anzi ritenere che appartengano alla danza greca in generale e
non all’emmeleia in particolare.
Tra
le danze afferenti al culto di Dioniso, le più famose erano il “kordax”, danza
tipica della commedia, l’“oklasma”, danza persiana con caratteristiche
acrobatiche, la “sikinnis”, propria del dramma satiresco, a contenuto scurrile.
A
caratterizzare la prima, movimenti grossolani e grotteschi, ascrivibili al suo
legame con i culti di varie divinità e in particolare di Dioniso; si pensava
infatti che fosse riprovevole danzare il cordace da sobri e che Dioniso si
fosse servito di esso, come di bevande inebrianti, per ridurre in proprio
potere intere popolazioni refrattarie.
Rispetto
al peana, anch’esso eseguito in onore di Apollo (il cui culto sostituì a Creta
quello dell’antico dio della medicina Paiaon), l’iporchema presentava una
struttura più complessa, non esclusivamente innodica. Grande importanza veniva
infatti attribuita alla danza, oltre che al canto, secondo almeno due modalità
di esecuzione: nella prima, era una sola persona a cantare e suonare, mentre il
resto del coro si esibiva nella danza; nella seconda, attestata da Luciano (De
salt., 16), e praticata già in antico a Delo, più persone suonavano, mentre il
resto del coro, con movimenti lenti e pacati, dava plastica espressione alla
musica ed alla poesia.
Alla
cultura cretese sembrano ricondurre diversi particolari, dalla postura rigida e
frontale delle figure, pur ritratte in movenze di danza, al generale
abbigliamento, comune ai personaggi degli affreschi (ad es., il “Principe dei
gigli”) o dell’arte statuaria. Origini persiane o comunque asiatiche si
ipotizzano, invece, per le danze dionisiache. Risulta purtroppo impossibile
ricostruirne i passi, anche se alcuni studiosi hanno creduto di ravvisarli in talune
rappresentazioni di danza sui vasi antichi. In particolare, in un cratere di
Tarquinia, si scorgono tre ballerini, uno dei quali con la veste sollevata sul
ginocchio, nell’atto di schernire, forse, il satiro centrale, che ha a sua
volta, verso di lui, una gamba sollevata; simile alla prima, per un effetto di simmetria,
la terza figura, priva, come le altre, di copricapo e calzare. Una scena simile
compare su vasi laconici e corinzi, della fine del VII sec. a.C., ma in
relazione, più probabilmente, alla “danza dei comasti”, cui sembra ispirarsi in
origine lo stesso cordace. Anche in questo caso, i danzatori sembrano interagire
tra loro, disposti frontalmente o di spalle, procedendo a saltelli e toccandosi
talora con le punte dei piedi.
Più
nota, invece, la struttura della sicìnnide, la cui mìmica si fonda soprattutto
su rapidi movimenti delle mani, come lo “skops” (mano a solecchio), la “kéir
simé” (mano con palmo all’infuori, piegata di 90 gradi al polso), la “kéir
kataprenés” (palmo rivolto a terra). Contemporaneamente, i danzatori piegano alternativamente
le due gambe all’altezza del ginocchio, ruotando vorticosamente su se stessi o procedendo
a salti in avanti con le mani tese.
Da
citare, infine, la “tribasia”, ovvero la danza del ditirambo, eseguita intorno
all’altare di Dioniso, da un coro di 50 coreuti, al suono della cetra e del
flauto. Una probabile scena di questa danza, opera del cosiddetto “Pittore di
Pan”, è ritratta su un cratere a Basilea, custodito all’ “Antikenmuseum”: ivi
tre coppie di danzatori, con le braccia levate in avanti e il corpo piegato in
opposta direzione, avanzano verso sinistra al simulacro di Dioniso. Motivi
geometrici, soprattutto “greche”, vivacizzano, oltre alla “nebris” (ossia la
benda di pelle leopardata), i corti mantelli frangiati ; da notare, inoltre,
l’assenza di calzari.
In
una iscrizione frigia, figura la parola “dithrera” col significato di
“sepolcro”, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia stato, all’origine, un
canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade, XXIV 721 e
un passo della “Poetica” di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, “coloro
che intonano il lamento”, di cui parla Omero, altri non sarebbero infatti che
gli exarchontes ton dithyrambon, “coloro che intonano il ditirambo”, ritenuti da
Aristotele, come accennato, i precursori della tragedia, nata, forse, da canti
cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi.
La
“nebris” era una pelle ferina, indossata dai seguaci di Dioniso come una
tunica, ricavata di solito dal cerbiatto ma anche dalla pantera, dal capro,
dalla lince o dalla volpe, animali legati in vario modo alle vicende e al culto
del dio.
Al
culto di Dioniso, si ricollegano anche le danze delle Menadi, invasate dalla
carismatica potenza del dio. La loro danza, di rapimento e di istintività, fu
effigiata dalla nota scultura di Scopa, nonché codificata come genere
artistico, con la precisa corrispondenza tra gestualità e moti dell'animo. Si
ricollegherebbe, invece, al culto di Afrodite e degli Amori – invocati, a detta
di Luciano, perché partecipino anch’essi al tripudio e ala gioia- la cosiddetta
“collana” (όρμός), in cui fanciulli e giovinetti si inseguono in u intreccio di
grazia e virilità.
Ancora
figure femminili sono le protagoniste della danza “cariathide”, così denominata
da Carya, una fanciulla di nobile stirpe spartana, ed eseguita in onore di
Artemide. Il ritmo concitato e l’intenso pathos che ne è sostrato si evincono
da alcuni movimenti e posture, come il busto in avanti e la testa rovesciata.