venerdì 10 gennaio 2014

ALLE ORIGINI DEL TEATRO

Già nel paleolitico, circa 15.000 anni fa, ci si mascherava, come per esempio testimoniano le pitture rupestri nella grotta dei “Trois Frères” nel sud della Francia.

Il primo stregone ha il corpo di un cavallo; la testa, con occhi rotondi e becco quasi di uccello, è incorniciata da una fluente barba e sormontata da corna di cervo. Il secondo indossa una pelle di animale e suona uno strumento musicale. Anche a Cipro, mille anni prima di Cristo, i sacerdoti ricavano maschere da teschi di tori.

Qualche secolo dopo, in Grecia, i cantori di ditirambi nei riti dionisiaci indossano maschere mostruose scolpite nella corteccia, che saranno poi umanizzate diventando i tipi della tragedia e della commedia.
“Un nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono, all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci che recitavano o cantavano i loro versi danzando furono chiamati danzatori” (da Lucia Mattera, La danza… passo dopo passo, in “La danza” online su www.novahumanitas.it).

La maschera animale o vegetale facilita la comunicazione dell’uomo con la natura. Una comunicazione forte, in cui l’istinto sottolinea le affinità che migliaia di anni dopo la ragione sempre più sfumerà fino a decretare una diversità inconciliabile tra uomo, pianta e bestia. L’uomo primitivo è trasformista, percepisce in sé l’essenza delle forme vegetali, animali e climatiche (che immaginerà poi come dei) e “recita” con danze e canti la propria identificazione con l’universo. La mente è magica, la vita condotta in coabitazione con gli spiriti, il dramma esistenziale è vivo e condiviso, poiché tutto è vivente, anche la lancia scagliata per dare la morte. Sulla preda uccisa si recitano formule di addio e di richiesta di perdono. Quando si maschera, l’uomo non assume un ruolo di finzione, ma subisce una metamorfosi in senso sciamanico: egli diventa ciò che appare. La sua sensibilità è del tutto diversa dalla nostra. Noi percepiamo il mondo attraverso la scienza, non più con la magia; gli animali selvaggi sono pittoreschi, quelli domestici antropomorfizzati; gli oggetti sono cose da consumare; le relazioni paritarie sono limitate agli altri esseri umani (a volte nemmeno tutti), ma risultano spesso alienate e alienanti e improntate più all’egotismo che alla cooperazione; la religione occupa solo un settore specifico nell’ambito delle attività ed è dogmatizzata e gerarchizzata, non consente un’evoluzione spirituale; spesso il fanatismo la pone in contraddizione con i valori predicati.

Dai rapporti primordiali nasce una forma di conoscenza dell’universo non fondata sulla logica, ma sul desiderio e sulla volontà: il mito.
Che cosa fa, dunque, l’uomo primitivo in maschera?
Egli, prima ancora di elaborare storie e di diffonderle e di interpretarle, ne vive le suggestioni secondo il desiderio e la volontà. Vengono alla mente le azioni fisiche di Stanislawskij tese a dare vita al personaggio sulla scena; e di Grotowski che le teorizza per sviluppare l’attore, più che il personaggio. In Italia, il confronto è con Eugenio Barba e con l’Antropologia Teatrale.
Con la maschera, la danza e il canto l’uomo primitivo modifica se stesso per entrare in contatto-sintonia con l’ambiente naturale e per modificarlo. Egli comunica con gli spiriti che poi diventeranno dei, manifesta i propri desideri e la propria volontà, mettendo in scena ora il fuoco che lo terrorizza, per esorcizzarlo, ora il cervo che gli sfugge, per catturarlo. Modifica se stesso per comunicare con gli spiriti dell’universo e con gli spettatori, che vivono di riflesso la sua esperienza trascendentale.

Egli, quindi, non interpreta il ruolo di fuoco o di cervo, ma è il fuoco e il cervo, e con la propria performance assicura alla comunità protezione e approvvigionamento. In senso grotowskiano, il suo è un sacrificio in favore della comunità. Egli rinuncia a sé e mette in pericolo la propria integrità confondendosi con le potenze naturali al fine di armonizzare la vita umana con quella universale e di attingere  la verità sotto le apparenze. Questo sacrificio esprime desiderio e volontà non in termini discorsivi e quotidiani, ma imitando e umanizzando i suoni e le forme della realtà naturale. Le parole si fondono con i suoni e i suoni con i ritmi e con le musiche, mentre le forme subiscono metamorfosi mediante le maschere e i travestimenti; lo spazio viene delimitato e consacrato; la performance fa da raccordo tra il pubblico e l’universo; essa non è semplicemente imitativa (si tratta di una copia dinamica intesa a modificare il presente e a riprogettare il futuro) e non è razionalizzabile, in quanto contiene aspetti di mistero.
Ecco che cosa fa l’uomo primitivo in maschera: abbandona la quotidianità e va alla ricerca di valori etici ed estetici nella doppia comunicazione con i propri simili e con il tutto universale.

Il suo rapporto con la realtà naturale non è frutto di una fede, dato che ancora non ha proiettato desiderio e volontà in un sistema teologico; egli traduce in azioni semplici (che formule linguistiche, ritmi e movimenti di danza differenziano da quelle quotidiane) le risposte istintive e impulsive alle necessità, alle emozioni e ai misteri dell’esistenza. Tali risposte si faranno via via sempre più profonde ed elaborate con l’utilizzo prima dell’immaginazione e poi del pensiero razionale. Per il momento, l’attore si espone non per un’esibizione di abilità particolari, ma per una convinzione sincera. Egli agisce non certo per guadagnarsi l’applauso e la benevolenza dei maggiorenti, ma per cercare il senso dell’esistenza e per celebrare i punti fermi delle sue conquiste “intellettuali”: i rapporti con la natura, i rapporti con la morte, i rapporti sociali. Chi danza non sfoggia una tecnica fine a se stessa, ma si avvale della tecnica per creare canali di comunicazione e per esprimere sia il desiderio che il mondo interiore si armonizzi  con quello esterno sia la volontà di cambiamenti dell’uno e dell’altro.

Quali sono dunque le caratteristiche del suo “teatro”?
-          uno spazio delimitato che via via diventa spazio sacro deputato alla comunicazione con gli dei
-          una separazione netta dal quotidiano, che rimane fuori dello spazio delimitato
-          una modificazione visiva del corpo mediante maschere e costumi (come faranno i sacerdoti)
-          una modificazione della gestualità e della voce che trasformi il corpo dall’interno
-          una fusione di movimento, voce, suono, musica, ritmo, visione
-          una fuga dalla realtà accentuata da suggestioni di luci e sinestesie
-          una fuga dalla realtà accentuata da stati alterati di coscienza dovuti all’estasi ritmica o a sostanze inebrianti e allucinogene
-          una tensione continua che garantisce l’aggancio sia con l’interiorità sia con il mondo
-          una riduzione simbolica dell’universo in uno spazio delimitato mediante l’utilizzo espressivo di oggetti, danze e ritmi; e in seguito mediante l’interpretazione di storie
-          un forte impatto sul “pubblico” che non assiste, ma partecipa

Quali riflessi per un teatro contemporaneo?
-          la drammaturgia del luogo chiuso, come l’ho definita in altri saggi
-          la netta separazione tra la rappresentazione e la quotidianità
-          la ricerca sulle azioni fisiche che devono essere espressione non solo dell’interiorità, ma del ritmo, della musica, dello spazio
-          l’utilizzo della tecnologia che soppianta la scelta del tempo ideale, la luce delle fiamme, l’organizzazione dello spazio e così via; e che supporta la fuga dalla realtà quotidiana
-          una tensione ininterrotta assicurata da testo, sonorizzazione, coreografia
-          un nuovo valore riservato agli elementi di scenografia e agli oggetti di scena; tutto ciò che è dentro lo spazio chiuso fa parte del mondo vivente rappresentato
-          un atteggiamento di esclusione del pubblico dalla rappresentazione da parte degli attori; lo spettatore assiste passivo, l’unica forma di partecipazione che gli viene consentita è di attivarsi come artista e creatore in altri luoghi e in altri tempi
-          la recitazione non come ricerca del personaggio, ma come proposta al personaggio di esprimere se stesso mediante l’apparato scenico; l’attore esprime disponibilità a sacrificare se stesso per ospitare il personaggio e per guidarlo nell’utilizzo di oggetti e nella dinamica espressiva con gli altri personaggi

 Con le civiltà stanziali, collocabili nell’8000 a.C., nascono i miti e i riti di fertilità.
Con la nascita del mito, s’impone la diversificazione della conoscenza della realtà. Da una parte il mythos, dall’altra il logos.
“La narrazione orale mette in moto nel pubblico un processo di comunione affettiva con le azioni drammatiche che formano la materia del racconto. Questa magia della parola (…) che conferisce ai diversi generi di declamazione – poesie, tragedia, retorica, sofistica – uno stesso tipo di efficacia, costituisce per i Greci una dimensione del mythos in opposizione al logos. Rinunciando volontariamente al drammatico e al meraviglioso, il logos situa la sua azione sulla mente a un livello diverso da quello dell’operazione mimetica (mimesis) e della partecipazione emotiva (sympatheia). Esso si propone di stabilire il vero dopo un’indagine scrupolosa e di enunciarlo secondo un modo di esposizione che, almeno in linea di principio, non fa appello che all’intelligenza critica” (Jean-Pierre Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi 2007, pag. 196).
Prima di addentrarci nel labirinto espressivo dei Greci, vediamo che significato hanno i drammi sacri/politici nell’Antico Egitto.

Grazie a un papiro ritrovato nel 1928 da Kurt Sethe, si è desunto, da frammenti di dialoghi e di indicazioni registiche, che mille anni prima della nascita della tragedia greca si praticava il culto dei Misteri di Osiride in forma teatrale. Il dramma Memfitico veniva rappresentato ogni anno il primo giorno di primavera, e raccontava la morte e la resurrezione di Osiride, e l’incoronazione di Horus, personificati/interpretati dal faraone.

Ma il rito egiziano per eccellenza è il dramma sacro di Abido, la città con l’Osireion, la tomba di Osiride, il luogo della rinascita. “Questo dramma sacro, recitato ad Abido, fu chiamato Mistero. Prendervi parte significava beneficiare dei riti efficaci che resero Osiride immortale, aprirsi all’immortalità” (Max Guilmot, Iniziati e riti iniziatici nell’Antico Egitto).
Esso rievocava la morte e la resurrezione di Osiride che, figlio di Ged (la Terra) e di Nut (il Cielo), successe al trono del padre e sposò la sorella Iside. Il fratello Set, però, geloso del suo potere, lo uccise, ne smembrò il corpo e ne seppellì i pezzi in vari luoghi d’Egitto. Iside li ricercò e con il rito dell'imbalsamazione fece rivivere Osiride sotto forma di Dio (Erodoto affianca Osiride a Dioniso, fatto a pezzi dai Titani e resuscitato da Zeus).
Il dramma-rituale viene chiamato rito di Osirizzazione e non è altro che la rappresentazione dell’intronizzazione del figlio del Faraone. Esso fu replicato, senza modifiche, per duemila anni. 

A differenza dei Greci, gli Egizi non hanno mai consentito che i singoli mettessero mano ai miti per svilupparli al di fuori dell’ambito rituale, convertendoli in drammi e tragedie. La valenza religiosa e politica del loro “teatro” è stata conservata intatta, conseguenza di una società teocratica votata all’immobilismo.
Non più, quindi, il rito teatrale come trasformazione di sé avendo come obiettivo la trasformazione del mondo (caccia, fertilità, guerra…); ma un rito misterico recitato a beneficio della casta sacerdotale e del potere del faraone.
Da un teatro che ha come obiettivo l’ampliamento della propria coscienza e la sintonia con l’universo a un teatro che si prefigge di consolidare i dogmi religiosi e il potere politico che essi sostengono.

Tra le due forme ce n’è una terza, da approfondire con lo sviluppo del teatro greco nei Misteri dionisiaci e in direzione della tragedia di Eschilo-Sofocle-Euripide e della commedia di Aristofane-Menandro: il teatro che da mistero si fa rappresentazione per un pubblico, promossa, gestita e controllata dallo stato e dalla religione. Una replica della dimensione egizia? No, perché questo teatro è libero, non è un’emanazione diretta e propagandistica del potere come è successo nei regimi dittatoriali del secolo scorso. È un teatro libero che viene tuttavia condizionato dal pubblico e da una visione storicizzata; teatro legato alla società, teatro antropocentrico e d’occasione; teatro gerarchizzato; teatro fatto più di cultura che di mistero, più di logos che di mythos.


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