Già
nel paleolitico, circa 15.000 anni fa, ci si mascherava, come per esempio
testimoniano le pitture rupestri nella grotta dei “Trois Frères” nel sud della
Francia.
Il
primo stregone ha il corpo di un cavallo; la testa, con occhi rotondi e becco
quasi di uccello, è incorniciata da una fluente barba e sormontata da corna di
cervo. Il secondo indossa una pelle di animale e suona uno strumento musicale. Anche
a Cipro, mille anni prima di Cristo, i sacerdoti ricavano maschere da teschi di
tori.
Qualche
secolo dopo, in Grecia, i cantori di ditirambi nei riti dionisiaci indossano
maschere mostruose scolpite nella corteccia, che saranno poi umanizzate
diventando i tipi della tragedia e della commedia.
“Un
nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono,
all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci
che recitavano o cantavano i loro versi danzando
furono chiamati danzatori” (da Lucia Mattera, La danza… passo dopo passo, in “La
danza” online su www.novahumanitas.it).
La maschera animale o vegetale facilita la
comunicazione dell’uomo con la natura. Una comunicazione forte, in cui
l’istinto sottolinea le affinità che migliaia di anni dopo la ragione sempre
più sfumerà fino a decretare una diversità inconciliabile tra uomo, pianta e
bestia. L’uomo primitivo è trasformista, percepisce in sé l’essenza delle forme
vegetali, animali e climatiche (che immaginerà poi come dei) e “recita” con
danze e canti la propria identificazione con l’universo. La mente è magica, la
vita condotta in coabitazione con gli spiriti, il dramma esistenziale è vivo e
condiviso, poiché tutto è vivente, anche la lancia scagliata per dare la morte.
Sulla preda uccisa si recitano formule di addio e di richiesta di perdono. Quando
si maschera, l’uomo non assume un ruolo di finzione, ma subisce una metamorfosi
in senso sciamanico: egli diventa ciò che appare. La sua sensibilità è del
tutto diversa dalla nostra. Noi percepiamo il mondo attraverso la scienza, non
più con la magia; gli animali selvaggi sono pittoreschi, quelli domestici
antropomorfizzati; gli oggetti sono cose da consumare; le relazioni paritarie
sono limitate agli altri esseri umani (a volte nemmeno tutti), ma risultano
spesso alienate e alienanti e improntate più all’egotismo che alla
cooperazione; la religione occupa solo un settore specifico nell’ambito delle
attività ed è dogmatizzata e gerarchizzata, non consente un’evoluzione
spirituale; spesso il fanatismo la pone in contraddizione con i valori
predicati.
Dai
rapporti primordiali nasce una forma di conoscenza dell’universo non fondata
sulla logica, ma sul desiderio e sulla volontà: il mito.
Che
cosa fa, dunque, l’uomo primitivo in maschera?
Egli,
prima ancora di elaborare storie e di diffonderle e di interpretarle, ne vive le
suggestioni secondo il desiderio e la volontà. Vengono alla mente le azioni
fisiche di Stanislawskij tese a dare vita al personaggio sulla scena; e di Grotowski
che le teorizza per sviluppare l’attore, più che il personaggio. In Italia, il
confronto è con Eugenio Barba e con l’Antropologia Teatrale.
Con
la maschera, la danza e il canto l’uomo primitivo modifica se stesso per
entrare in contatto-sintonia con l’ambiente naturale e per modificarlo. Egli
comunica con gli spiriti che poi diventeranno dei, manifesta i propri desideri
e la propria volontà, mettendo in scena ora il fuoco che lo terrorizza, per
esorcizzarlo, ora il cervo che gli sfugge, per catturarlo. Modifica se stesso per
comunicare con gli spiriti dell’universo e con gli spettatori, che vivono di
riflesso la sua esperienza trascendentale.
Egli,
quindi, non interpreta il ruolo di fuoco o di cervo, ma è il fuoco e il cervo, e
con la propria performance assicura alla comunità protezione e
approvvigionamento. In senso grotowskiano, il suo è un sacrificio in favore
della comunità. Egli rinuncia a sé e mette in pericolo la propria integrità
confondendosi con le potenze naturali al fine di armonizzare la vita umana con
quella universale e di attingere la
verità sotto le apparenze. Questo sacrificio esprime desiderio e volontà non in
termini discorsivi e quotidiani, ma imitando e umanizzando i suoni e le forme
della realtà naturale. Le parole si fondono con i suoni e i suoni con i ritmi e
con le musiche, mentre le forme subiscono metamorfosi mediante le maschere e i
travestimenti; lo spazio viene delimitato e consacrato; la performance fa da
raccordo tra il pubblico e l’universo; essa non è semplicemente imitativa (si
tratta di una copia dinamica intesa a modificare il presente e a riprogettare
il futuro) e non è razionalizzabile, in quanto contiene aspetti di mistero.
Ecco
che cosa fa l’uomo primitivo in maschera: abbandona la quotidianità e va alla
ricerca di valori etici ed estetici nella doppia comunicazione con i propri
simili e con il tutto universale.
Il
suo rapporto con la realtà naturale non è frutto di una fede, dato che ancora
non ha proiettato desiderio e volontà in un sistema teologico; egli traduce in
azioni semplici (che formule linguistiche, ritmi e movimenti di danza
differenziano da quelle quotidiane) le risposte istintive e impulsive alle necessità,
alle emozioni e ai misteri dell’esistenza. Tali risposte si faranno via via
sempre più profonde ed elaborate con l’utilizzo prima dell’immaginazione e poi
del pensiero razionale. Per il momento, l’attore si espone non per un’esibizione
di abilità particolari, ma per una convinzione sincera. Egli agisce non certo
per guadagnarsi l’applauso e la benevolenza dei maggiorenti, ma per cercare il
senso dell’esistenza e per celebrare i punti fermi delle sue conquiste “intellettuali”:
i rapporti con la natura, i rapporti con la morte, i rapporti sociali. Chi
danza non sfoggia una tecnica fine a se stessa, ma si avvale della tecnica per
creare canali di comunicazione e per esprimere sia il desiderio che il mondo
interiore si armonizzi con quello
esterno sia la volontà di cambiamenti dell’uno e dell’altro.
Quali sono dunque le caratteristiche
del suo “teatro”?
-
uno
spazio delimitato che via via diventa spazio sacro deputato alla comunicazione
con gli dei
-
una
separazione netta dal quotidiano, che rimane fuori dello spazio delimitato
-
una
modificazione visiva del corpo mediante maschere e costumi (come faranno i
sacerdoti)
-
una
modificazione della gestualità e della voce che trasformi il corpo dall’interno
-
una
fusione di movimento, voce, suono, musica, ritmo, visione
-
una
fuga dalla realtà accentuata da suggestioni di luci e sinestesie
-
una
fuga dalla realtà accentuata da stati alterati di coscienza dovuti all’estasi
ritmica o a sostanze inebrianti e allucinogene
-
una
tensione continua che garantisce l’aggancio sia con l’interiorità sia con il
mondo
-
una
riduzione simbolica dell’universo in uno spazio delimitato mediante l’utilizzo espressivo
di oggetti, danze e ritmi; e in seguito mediante l’interpretazione di storie
-
un
forte impatto sul “pubblico” che non assiste, ma partecipa
Quali riflessi per un teatro
contemporaneo?
-
la
drammaturgia del luogo chiuso, come l’ho definita in altri saggi
-
la
netta separazione tra la rappresentazione e la quotidianità
-
la
ricerca sulle azioni fisiche che devono essere espressione non solo dell’interiorità,
ma del ritmo, della musica, dello spazio
-
l’utilizzo
della tecnologia che soppianta la scelta del tempo ideale, la luce delle fiamme,
l’organizzazione dello spazio e così via; e che supporta la fuga dalla realtà
quotidiana
-
una
tensione ininterrotta assicurata da testo, sonorizzazione, coreografia
-
un
nuovo valore riservato agli elementi di scenografia e agli oggetti di scena;
tutto ciò che è dentro lo spazio chiuso fa parte del mondo vivente
rappresentato
-
un
atteggiamento di esclusione del pubblico dalla rappresentazione da parte degli
attori; lo spettatore assiste passivo, l’unica forma di partecipazione che gli
viene consentita è di attivarsi come artista e creatore in altri luoghi e in
altri tempi
-
la
recitazione non come ricerca del personaggio, ma come proposta al personaggio
di esprimere se stesso mediante l’apparato scenico; l’attore esprime
disponibilità a sacrificare se stesso per ospitare il personaggio e per
guidarlo nell’utilizzo di oggetti e nella dinamica espressiva con gli altri
personaggi
Con
le civiltà stanziali, collocabili nell’8000 a.C., nascono i miti e i riti di
fertilità.
Con
la nascita del mito, s’impone la diversificazione della conoscenza della
realtà. Da una parte il mythos, dall’altra il logos.
“La
narrazione orale mette in moto nel pubblico un processo di comunione affettiva
con le azioni drammatiche che formano la materia del racconto. Questa magia
della parola (…) che conferisce ai diversi generi di declamazione – poesie,
tragedia, retorica, sofistica – uno stesso tipo di efficacia, costituisce per i
Greci una dimensione del mythos in opposizione al logos. Rinunciando
volontariamente al drammatico e al meraviglioso, il logos situa la sua
azione sulla mente a un livello diverso da quello dell’operazione mimetica (mimesis)
e della partecipazione emotiva (sympatheia). Esso si propone di
stabilire il vero dopo un’indagine scrupolosa e di enunciarlo secondo un modo
di esposizione che, almeno in linea di principio, non fa appello che
all’intelligenza critica” (Jean-Pierre Vernant, Mito e società nell’antica
Grecia, Einaudi 2007, pag. 196).
Prima
di addentrarci nel labirinto espressivo dei Greci, vediamo che significato
hanno i drammi sacri/politici nell’Antico Egitto.
Grazie
a un papiro ritrovato nel 1928 da Kurt Sethe, si è desunto, da frammenti di
dialoghi e di indicazioni registiche, che mille anni prima della nascita della
tragedia greca si praticava il culto dei Misteri di Osiride in forma teatrale. Il
dramma Memfitico veniva rappresentato ogni anno il primo giorno di primavera, e
raccontava la morte e la resurrezione di Osiride, e l’incoronazione di Horus,
personificati/interpretati dal faraone.
Ma il
rito egiziano per eccellenza è il dramma sacro di Abido, la città con
l’Osireion, la tomba di Osiride, il luogo della rinascita. “Questo dramma
sacro, recitato ad Abido, fu chiamato Mistero. Prendervi parte significava
beneficiare dei riti efficaci che resero Osiride immortale, aprirsi
all’immortalità” (Max Guilmot, Iniziati e riti iniziatici nell’Antico Egitto).
Esso
rievocava la morte e la resurrezione di Osiride che, figlio di Ged (la Terra) e
di Nut (il Cielo), successe al trono del padre e sposò la sorella Iside. Il
fratello Set, però, geloso del suo potere, lo uccise, ne smembrò il corpo e ne
seppellì i pezzi in vari luoghi d’Egitto. Iside li ricercò e con il rito
dell'imbalsamazione fece rivivere Osiride sotto forma di Dio (Erodoto affianca
Osiride a Dioniso, fatto a pezzi dai Titani e resuscitato da Zeus).
Il dramma-rituale
viene chiamato rito di Osirizzazione e non è altro che la rappresentazione dell’intronizzazione
del figlio del Faraone. Esso fu replicato, senza modifiche, per duemila anni.
A
differenza dei Greci, gli Egizi non hanno mai consentito che i singoli
mettessero mano ai miti per svilupparli al di fuori dell’ambito rituale,
convertendoli in drammi e tragedie. La valenza religiosa e politica del loro
“teatro” è stata conservata intatta, conseguenza di una società teocratica
votata all’immobilismo.
Non
più, quindi, il rito teatrale come trasformazione di sé avendo come obiettivo
la trasformazione del mondo (caccia, fertilità, guerra…); ma un rito misterico
recitato a beneficio della casta sacerdotale e del potere del faraone.
Da un
teatro che ha come obiettivo l’ampliamento della propria coscienza e la
sintonia con l’universo a un teatro che si prefigge di consolidare i dogmi
religiosi e il potere politico che essi sostengono.
Tra
le due forme ce n’è una terza, da approfondire con lo sviluppo del teatro greco
nei Misteri dionisiaci e in direzione della tragedia di
Eschilo-Sofocle-Euripide e della commedia di Aristofane-Menandro: il teatro che
da mistero si fa rappresentazione per un pubblico, promossa, gestita e
controllata dallo stato e dalla religione. Una replica della dimensione egizia?
No, perché questo teatro è libero, non è un’emanazione diretta e
propagandistica del potere come è successo nei regimi dittatoriali del secolo
scorso. È un teatro libero che viene tuttavia condizionato dal pubblico e da
una visione storicizzata; teatro legato alla società, teatro antropocentrico e
d’occasione; teatro gerarchizzato; teatro fatto più di cultura che di mistero,
più di logos che di mythos.
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