venerdì 31 gennaio 2014

UN TEATRO TETRADIMENSIONALE

Tespi, figlio di Temone, simboleggia il passaggio dal mito-rito al teatro. Egli, nato secondo Orazio nel 566 a.C. a Icaria in Attica, porta per la prima volta una composizione teatrale alle Grandi Dionisie organizzate da Pisistrato, nell’Atene del 534, facendo dialogare il coro con un coreuta-attore. Come scrive Silvio D’Amico nella sua “Storia del teatro drammatico”, Solone lo rimproverò, domandandogli se non si vergognasse a fingere e mentire. Eppure, lo stesso Solone (oggi il “solone” è un saccente moralista), si finse pazzo per avere la libertà (i pazzi potevano dire qualsiasi cosa senza incorrere in reati) di eccitare gli ateniesi alla guerra e riprendersi così l’isola di Salamina. Il teatro, quindi, nasce e da subito infastidisce e allarma. D’altronde, esso scaturisce dai riti dionisiaci e si rifà ai miti. Le Baccanti che altro facevano se non travolgere tutto sul loro passaggio? Cose, persone, ruoli? E i miti non sono il racconto del conflitto? Del “dramma sociale” come lo descrive Victor Turner ne “Dal rito al teatro”? Il teatro come antistruttura, come meccanismo di consapevolezza e critica, di opposizione allo status quo che stimola produzione di pensiero e società nuovi.



Un coro più un coreuta divenuto attore, che non solo guida il coro, ma interloquisce e sviluppa un dialogo drammatico. Una disposizione lineare di fronte alla skenè, la tenda che delimita lo spazio dietro la quale gli interpreti si cambiano e ripongono successivamente gli attrezzi di scena. Un teatro bidimensionale. Ma piace, piace tantissimo. E piacerà ancora di più, al punto che per due secoli esso sarà seguito con fanatismo da tutta la popolazione di Atene (ingresso gratuito per i poveri). Dalla tenda iniziale, che segna comunque il passaggio dal canto-declamazione in movimento del corteo al luogo deputato per la rappresentazione, di forma circolare o trapezoidale, si passa a una struttura di legno, poco più che una baracca con davanti una pedana. La baracca diventa un vero e proprio teatro, ma sempre in legno; e qui Eschilo rappresenta le sue prime tragedie. Si fissa la data del 425 per il primo teatro in pietra: la skenè è diventata un edificio arricchito da colonne e statue, con tre, cinque o anche sette aperture; la pedana si trasforma nell’orchestra, uno spazio a volte trapezoidale ma poi sempre circolare o semicircolare nel quale danza e canta e recita il coro. Abbiamo quindi un teatro tridimensionale. La postazione del coro e la struttura della skenè a edificio danno profondità. Inoltre, a rendere più realistica la scena contribuiscono i fondali dipinti e le macchine che consentono effetti speciali. 


Ma la sede della rappresentazione cambia ancora aspetto e assume quello definitivo. In questo teatro furono rappresentati i capolavori di Eschilo, Sofocle, Euripide. Che cosa si fa? Si riflette sul fatto che la tragedia non sviluppa rapporti quotidiani tra gli uomini e vede in scena uomini straordinari, non tanto per le imprese compiute e la levatura morale, quanto per le forze universali e misteriose che essi rappresentano e con le quali si scontrano. Sono gli uomini del mito che hanno a che fare con gli dei e con il Fato, oltre che con la società. Gli attori che li impersonano devono staccarsi dalla realtà di tutti i giorni e quindi il loro corpo viene modificato: coturni, calzature con suole molto alte che ne fanno dei giganti; onkos, parrucche gonfie e alte che incrementano la maestosità; imbottiture sul corpo; la maschera che dà loro l’espressione fissa dell’orrore, della paura, dello stupore… della condizione umana; una maschera che altera la voce, non tanto per farla giungere meglio agli spettatori (i teatri hanno un’ottima acustica), quanto per farne la voce “ultraumana” dell’eroe mitico. 

L’attore non solo è più alto, ma deve stare più in alto. Con una ristrutturazione significativa, il piano dell’orchestra viene infossato (la fossa dell’orchestra o golfo mistico, realizzato per la prima volta in un edificio nel 1784 a Besancon) e quello della scena rialzato. In tale modo, il coro non ostacola più la visione degli attori. Ora l’attore tragico guarda il mondo dall’alto in basso, sapendo che sopra di lui possono comparire gli dei. Il coro simboleggia più che mai lo stato dell’umanità, sottomessa alla volontà dei potenti e a quella superiore delle divinità. 


Ricostruzione del teatro di Dioniso in Atene. 

Eccoci al teatro tetradimensionale. Lo spazio scenico si sviluppa in una profondità sia orizzontale sia verticale, suddividendosi in luoghi simbolici e rendendo molto più ricca e significativa la dinamica interpretativa. Negli sviluppi successivi, lo spazio si contrae. Euripide è il primo a incrinare il potere degli dei, descritti come indifferenti per le sorti dell’umanità, chiusi in un mondo meschino di gelosie e ripicche, di animo spietato e crudele. Egli, quindi, taglia la parte alta dello spazio, dato che gli dei olimpici sono invisibili e ininfluenti (quando ricorre al deus ex machina lo fa solo per risolvere tecnicamente la trama); taglia anche la parte bassa, dato che il coro perde d’importanza rispetto alla centralità dell’uomo e alla sua esigenza di risolvere da sé i problemi, senza ricorrere agli dei e alle istituzioni. Quello di Euripide è un umanesimo tragico e lo spazio si contrae, come se l’attore fosse al centro del cerchio di luce di un inseguipersone. Sempre più il teatro si concentra sull’uomo e sui suoi problemi quotidiani e il rapporto con entità sovrannaturali ritornerà solo nell’ambito del dramma religioso. L’uomo si allontana dal mito e si affida da una parte alla ragione dall’altra alla religione. 

Partendo dalla strutturazione spaziale del teatro tetradimensionale, ho impostato la regia del “Caligola” di Camus, attualmente in lavorazione, sui spazi contrapposti secondo la quadrimensionalità, nella quale è compreso il tempo. Abbiamo lo spazio base intorno al quale ruotano gli altri, l’antica pedana di Tespi, il luogo sacro del sacrificio-canto-racconto. Questo spazio è ricoperto da un telone bianco sotto il quale possono agire gli attori, relegati in un luogo-ctonio nel quale si rendono invisibili, ma dal quale elaborano forme in movimento. Esso si contrappone a quello visibile del potere: Caligola alto sopra tutto e tutti su una sedia girevole la cui seduta è di altezza variabile. Dietro di lui un fondalino di cellofan trasparente delinea una profondità di non chiara visibilità, determinando un luogo seminascosto, una zona di passaggio, un’alterità. Si creano quindi dinamiche di sopra e sotto, di avanti e dietro richiamate anche dal gioco dei palloncini che si gonfiano e si usano in modo diverso. Il gioco dei movimenti, a questo punto, si fa di necessità tempo. Si fa ritmo. Possiamo anche dire che il ritmo degli spazi si fa ritmo per i movimenti degli attori. La parola s’inserisce quindi in uno spazio non definito secondo i canoni della quotidianità e in ritmi che divergono dalla gestualità usuale. La parola richiede, allora, di non essere pronunciata solo per significati logici e di comunicazione immediata; ma anche per suggestione vicino-lontano, per echi, per scansioni ritmiche, come canto oltre che come parlato. È una parola che nasce insieme allo spazio e al ritmo, a loro volta sorti dall’analisi delle parole del testo. Parola recitata, parola cantata, parola declamata, parola balbettata, parola storpiata, parola gridata, parola registrata e amplificata… la recitazione si fa dinamica come dinamico si fa lo spazio, come la musica stessa si mette al servizio non dell’atmosfera o dello sfondo da creare in termini estetici, ma del corpo pensante dell’agonista in gara con sé. Il teatro non è un gioco estetico fine a se stesso, ma un rito espressivo. Con una grande differenza rispetto al rito. “Il rito accoglie e assume i conflitti e le crisi, dimostrandoli simbolicamente e mascherandoli nella sua forma; diversamente dal teatro che svela i conflitti e mostra le zone oscure dell’individuo e il malessere sociale” (Stefano De Matteis nell’introduzione all’edizione italiana di V. Turner, Dal rito al teatro).

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