Con “La nascita della Tragedia dallo spirito della Musica” (1872), Nietzsche
segue lo sviluppo della società greca antica in parallelo con quello della
tragedia. La tragedia nasce dallo spirito dionisiaco soprattutto come coscienza
della morte, dell’irrazionalità del mondo e della sua crudeltà. I “trogodoi”, cantori
della capra (l’animale condotto al sacrificio, la tragedia come inno del/al
sacrificio), non si lasciano tuttavia andare al pessimismo. Essi reagiscono con
forza all’orrore della situazione umana contrapponendo al Fato un sistema
olimpico che rappresenti l’anelito di giustizia, pace, rispetto della vita. È
questa energia vitale che Nietzsche vuole recuperare per il popolo tedesco,
esortandolo a uscire dall’impasse e a superare ogni volontà di autodistruzione.
Un recupero di immagine di sé: dall’umanità naufraga in balia delle tempeste
irrazionali al superuomo che si impone al destino. Nietzsche auspica un ritorno
allo spirito dionisiaco, simboleggiato dalla musica di Wagner, che ridoni forza
e fiducia alla nazione tedesca.
Allo spirito dionisiaco, scrive Nietzsche, sentito
come rivelazione della realtà, ma anche come volontà di risorgere
incessantemente (Dioniso muore, viene smembrato, ma ritorna in vita) riaffermata
nei riti primaverili, si contrappone il pensiero di Euripide e di Socrate. Essi
oppongono all’immaginazione mitica l’elaborazione logica della realtà, che
ritengono comprensibile e modificabile secondo un progetto umano fondato sulla
razionalità.
Con Euripide si assiste alla crisi della tragedia e
con Socrate al ripudio del “pensiero primitivo” in nome di una dichiarata
supremazia della mente umana capace di conoscere l’universo da sé sola.
Nasce, con loro, lo spiriti apollineo, legato non più
alla musica, ma alla rappresentazione plastica della realtà, in primis alla
scultura. Nasce la volontà di rappresentare il mondo così come appare e non
come risulta dal desiderio e nel sogno. Il mondo è visibile e definibile. Il
pensiero umano è in grado di descriverlo, comprenderlo, modificarlo senza
ricorrere a dei o spiriti; e inizia il viaggio di ordinamento del cosmo e di
svelamento dei suoi segreti che porterà alla scienza moderna, decretando la
netta distinzione tra la positività della mente e la negatività delle forze
oscure, magiche, trascendenti, ctonie.
Se andiamo più indietro nel tempo, alle soglie della
comparsa della tragedia, prima ancora che Tespi ne anticipasse la forma con la
performance di un attore al fianco del citaredo, troviamo due forme letterarie
che preludono l’una alla tragedia e l’altra alla commedia: il ditirambo e il
giambo.
Ma al di là della metrica e della esternazione rituale
(con il ditirambo le invocazioni e i deliri esoterici della possessione
dionisiaca; con il giambo le invettive e gli scherzi della processione-festa),
si delineano due comportamenti e poi due “tipi” di persone.
Dal un lato abbiamo il temperamento tragico, dall’altro
quello comico.
La persona di temperamento tragico non esita a
prendere coscienza di come si presenta la realtà, togliendosi le maschere (persona,
maschera di legno o terracotta, forse da per-sonare, per fare meglio
arrivare la voce al pubblico) che le autodifese e le strategie di
rassicurazione sociali gli hanno fornito. La realtà non è un idillio per
nessuno. Non per la natura, fitta trama di vita e morte, dove non ha senso il
concetto di giustizia, dove parole come orrore e crudeltà indicano la consuetudine,
dove la catastrofe è la logica della propria dinamica, in perenne mutazione, rispondente
a leggi che possono mutare, instabile e imprevedibile. Non per l’uomo, che da
sempre combatte senza mai vincere le battaglie per la pace, la giustizia, l’equa
distribuzione dei beni, l’ambiente… L’uomo dal temperamento tragico non per
questo si fa prendere dal pessimismo e va in depressione. La sua è comunque una
visione di vita, per quanto spietata e irrazionale possa apparire; e vive e
produce alla ricerca non tanto di un senso, dato che è scettico verso le
soluzioni basate sulla logica, quanto di un’armonia il più concreta possibile
con l’universo, conscio della fatica e delle disillusioni che comporta.
Egli non fa i conti con la società, con la scienza,
con la religione, ma solo con se stesso. Vede se stesso non come ingranaggio di
uno stato, ma come essere liberamente pensante. Non si sente definito e
delimitato dalla scienza. Non sottosta ai dogmi religiosi. Egli ha una visuale
più ampia, come l’avevano i tragediografi greci, la cui fonte era il mito.
Un fatto di cronaca nera familiare (per esempio, l’uccisione
del padre e l’incesto con la madre) non era solo una notizia, ma uno
sconvolgimento dell’universo, una hybris che turbava l’ordine di dike
e stava all’origine di terrificanti mali futuri. Un presente di colpe
influenzava in peggio la storia a venire. Un meccanismo cosmico che si sarebbe trasformato,
a breve, in reato e punizione che lo estingue, con ritorno immediato alla pace
sociale. Come dire che l’inquinamento del pianeta si risolve con una multa,
senza mettere in conto il disastro che l’oggi preannuncia per il domani.
Il temperamento tragico, insomma, pensa e agisce in
grande, superando i confini del gruppo sociale e della mentalità a esso legata.
Egli si relazione con il tutto universale e lo ritiene primario rispetto ai
particolarismi storici e ideologici. La sua visione va sempre al di là, alla
ricerca di “dei” (con il significato dato da James Hillman nella sua rielaborazione
psicoanalitica degli archetipi junghiani) che lo supportino nell’errare
esistenziale, aiutandolo nella ricerca di significati e soprattutto nelle
relazioni con il mondo.
La molla esistenziale è l’indagine, la sperimentazione
di relazioni, la partecipazione alla vita universale, l’adesione alla realtà
senza infingimenti e ipocrisie e senza scopi egoistici ed egocentrici. Il
temperamento tragico appartiene all’eroe solitario.
Lo scrittore di temperamento tragico non può
limitarsi a raccontare la realtà in sé, ritenuta interessante e valida nel suo
particolarismo, ma procede per simboli e stimoli, in una ricerca di segni che
portino sempre altrove. Egli non ama e non odia l’esistenza, e la ama e la odia
insieme, e comunque più che al “consumo” della propria esistenza è interessato
alla sua dinamica nelle cose buone e cattive, alle relazioni con le cose, con
gli animali, con i misteri.
Al contrario, il temperamento comico ama la realtà.
Nobilita il cosmo come creazione dedicata all’uomo e pone l’uomo al centro
degli accadimenti terreni e divini, nell’illusione che vi sia un reale
progresso di civiltà che sfocerà in una palingenesi sia umana sia ultraterrena.
Il temperamento comico ama la socialità. La molla
esistenziale è il protagonismo che si realizza su diversi livelli: nella
famiglia, nel gruppo sociale di riferimento, nella società, nella storia.
Altra molla è il benessere. Egli cerca sicurezza e
piacere sia nella fede materialistica che ripone la felicità nel possesso di
beni sia nella fede religiosa adattata ai suoi scopi. Anche lui possiede una
mitologia di riferimento, ma non la va a cercare agli albori dell’umanità e
presso altre culture, bensì nell’ambito ristretto della propria esistenza,
ampliata nell’area documentabile del passato.
Ama i ricordi, perché testimoniano la sua esistenza e
le imprese che preludono a un trattamento epico della vita. Ama la vita propria
e altrui con entusiasmo e con ostinazione, opponendosi a tutto ciò che può
incrinare la sua “fede nell’uomo adesso e qui”: stranieri, pensatori anomali,
atei, irrituali…
Esalta la comunità perché è nella comunità che trova
il senso dell’esistenza, non certo nelle relazioni fumose e incomprensibili con
l’universo, vissuto solo come “infinito suggestivo”, o “ammasso di stelle che
stordisce” o “troppo grande e lontano per perdere tempo a pensarci”.
La vita è qui, ora e adesso. Tutta la vita è qui. Il
resto è ipocrita assicurazione di eternità e perdono stipulata vendendo l’anima
o lasciandosi beatamente invadere dalle illusioni gratificanti.
Il temperamento comico ama la convivialità, ama
ridere, ama gli eccessi in nome di “la vita è breve e bisogna godersela fin che
si può”. Manifesta amore per gli altri, ma l’aspetto comico (di commedia) può
mutarsi all’improvviso in aggressività drammatica e trasformare la famiglia o
la comunità in un mattatoio.
Egli trova nella comunità tutto ciò di cui ha bisogno
per sentirsi vivo e protetto: le istituzioni, i valori, i rapporti affettivi e
sessuali, il rispetto e la considerazione, il palcoscenico per il proprio
successo, le occasioni per manifestare i buoni sentimenti, la chiesa per godere
della benedizione divina, le esistenze altrui come specchio della propria o
come pretesto per sfogare odio e violenza.
All’uomo di temperamento comico non interessa l’eroismo,
ma il consenso; e detesta la solitudine.
In conclusione, da una parte abbiamo la tragedia di
Eschilo, Sofocle ed Euripide: l’uomo e la società, l’uomo e gli dei, l’uomo e
il Fato, l’uomo e l’universo.
Dall’altra la commedia di Aristofane e Menandro: l’uomo
e la società, l’uomo e i politici, l’uomo e gli accidenti quotidiani, l’uomo e
il caso, l’uomo e il cortile.
E, in mezzo, l’una e l’altra, il mix di tragedia e
commedia che ci dà la misura del nostro piccolo anche nell’atteggiamento
eroico.
Nessun commento:
Posta un commento