Aquilino
“Il Teatro Kalòn”
Questa è l’introduzione di un libro sul teatro che
sto scrivendo e che pubblicherò tra un anno. Ho scelto la parola greca “kalòn”
perché il primo requisito di questo modo di fare teatro è etico. Kalòn
significa bello, ma bello significa buono. Che cosa è bello? Che cosa è buono?
Sono concetti solo in apparenza semplici. L’estetica coinvolge ormai tutti gli
aspetti della vita quotidiana e viene manipolata dagli operatori soprattutto
per scopi commerciali. A livello popolare tutto è “bello”, con una grande
confusione tra aspetti affettivi, egocentrici ed estetici. “Bello” è anche il
nuovo teatro performativo, dove il testo viene prosciugato o alluvionato con
l’utilizzo di dialetti e tecniche vocali diverse; fino a contrarsi su un
palcoscenico dell’immagine, affiancato alla pubblicità e alla moda, all’arte
figurativa e al cinema. La ricerca dell’effetto spesso uccide il ritmo e
l’equilibrio, la macchina estetica si fa lenta e noiosa. La dipendenza
dall’emozione transitoria edifica castelli di sabbia che la marea della vita
disintegra. Lo spettacolo è la dimensione dello sport, della politica, della
religione, della festa comunitaria. Tutto è spettacolo, poco è teatro.
Il teatro riporta il bello sul piano dell’etica,
affinché non sia solo il guscio del nulla. Ma che cos’è il buono? Mai come in
questa epoca la confusione è preoccupante. Tutti predicano il “buono” e tutti
contraddicono nelle opere quanto blaterano a parole. Il teatro cerca la
coerenza e l’onestà del “buono”. Ambedue i concetti vengono ampliati e
approfonditi affinché bello e buono abbiano radici nella verità. Una verità
difficile e addirittura inattingibile, dato che il teatro Kalòn non si prefigge
esiti metafisici. È la stessa etica che apre alla metafisica, senza però giungere
ad affermarla. Un’etica non particolare, nemmeno universale, ma cosmica. E
anche questa è utopia.
Il teatro Kalòn è il teatro del conflitto, volendo
essere dialettico e non stagnante. La sintesi nietzschiana tra Dioniso e Apollo
è conflitto fecondo, a volte indefinibile nei termini che si incontrano, si
contrappongono, si fondono, si differenziano, si riuniscono. Nascita, lotta,
morte: altre nascite. Se l’estetica è dionisiaca, la sua messa in scena è
apollinea.
Il teatro Kalòn è teatro in quanto non è
spettacolo e distingue in modo netto le due realtà. Non è istituzionale, ma
liminale. Teatro di soglia sulla quale permane, superficie dello specchio. Ma
si fa anche spettacolo essendo apollineo oltre che dionisiaco. È lo spettacolo
a non poter mai essere teatro. Il conflitto è dunque anche confronto tra
l’essere e l’apparire.
Per la sua stessa natura, il teatro Kalòn allo stato
puro rifiuta il pubblico, essendo al tempo stesso rappresentazione di se stesso
e manifestazione dell’essere a sé. Il pubblico viene a teatro per lo
spettacolo, il teatro glielo nega e allo stesso tempo glielo offre come
consapevolezza.
Il teatro Kalòn non appartiene solo agli attori,
ma a una scena complessa la cui organicità comprende anche elementi inorganici,
che assumono un ruolo e si fanno personaggi senza parola e senza movimento,
vivi nell’interazione. L’attore è creatore e dà loro vita. Come dà vita al
testo, dal quale parte ogni cosa. Non c’è azione che non scaturisca da un testo
nascosto. Dal mito al rito, non il contrario. L’idea di un’azione è già parola.
L’attore kalòn non scompare nel personaggio, come non si argina nel
naturalismo. Al di là della psicologia, si scontra con il personaggio per
salvaguardare la propria integrità e per situare l’uno nel tutto.
Il teatro Kalòn è teatro testuale, performativo,
tragico, di figura, di oggetti, di fuga dalla città. Esso raccoglie dalla
sapienza del passato quanto gli è utile, facendosi specchio di Euripide, Shakespeare,
Stanislavskij, Artaud, Brecht, Lorca, Grotowski…
Il teatro Kalòn è una briciola di cosmo in una
sfera di cristallo.
Una tragedia performativa
Io sono Dioniso. Detto l’Oscuro, Il Trinato, la
Sapienza, l’Errante, l’Ambiguo, l’Opposto, il Complesso. L’Irrazionale.
L’Inconscio. Il Matto. Lasciateli dire. Vengo ad annunciare che vivete sognando
e che il sogno è fatto della stessa materia dell’incubo. Vengo ad aprirvi gli
occhi nel sonno, per mostrarvi l’orrore che vi fissa. Guardate: la realtà si
disgrega, una muffa o un virus o una semplice volontà la dissolve come fa il
vento con la nebbia e con le nuvole. Ora potete vedere. Ora vedete quello che
dovete vedere. Ci sono nuovi confini, entro i quali tutto è diverso. Molte
delle cose che vi erano familiari e che avete amato sono scomparse. Tra le
quali anch’io, perché sono frutto della rappresentazione, pur essendo la
volontà imperscrutabile del mondo; e questa pianta è stata potata affinché dia
nuovi germogli. Io sono l’ebbrezza della morte e la sua bellezza.
Vi porto un carico di dolore e angoscia, inevitabili,
ma non vi lascio al buio e al freddo, non vi abbandono al nulla: vi porto anche
l’ebbrezza dell’immaginazione, il sentiero al monte che allontana, rasserena,
consola.
Da quassù scorgete la pianura delle attività umane,
al cui centro imperversa la città schizofrenica. Siete a metà strada fra la
terra e le stelle e vi sentite sospesi sopra l’abisso.
È il momento giusto per fare musica, danzare e
raccontare storie.
Io sono il teatro. Ma sono più che il teatro. Come
anche il teatro è più di se stesso, partecipando ai misteri della parola, della
musica, della danza, dell’immagine. Per capire me stesso mi guardo nello
specchio e nello specchio vedo il mondo. Vedo me stesso davanti e dietro, a
destra e a sinistra; vedo me stesso dentro il mondo. Nello specchio non c’è
quindi solo un’immagine, un eidolon falso come dice Platone, ma un modo diverso
di vivere, un’immersione nel mondo. C’è una soglia.
Solo impregnandovi di mondo potete poi abbandonarlo e
salire sul monte, dove si accendono le stelle come idee universali.
Io sono il mondo. Solo essendo il mondo posso usare
la parola e fare teatro. Se il mondo che sono si riduce a me stesso, il mio
teatro è piccolissimo e sterile. Se comprende ciò che mi sta intorno a distanza
di società e cultura, il mio teatro è piccolo. Se si allarga alle altre società
e alle altre culture, il mio è un teatro grandioso che ha il respiro del mondo
conosciuto. Se il mondo che sono è errante ed esplora i confini dell’universo,
allora il mio teatro è infinito.
Quando mi specchio, non voglio vedere i limiti del
mio volto espressi dalla miopia, dalle rughe e dall’espressione indecifrabile.
La mia storia personale è nascosta e sfocata. I lineamenti si confondono con lo
sfondo e il mio viso diventa il viso di tutti. Il volto del mondo. Gli occhi
vedono con lo sguardo illimitato del mondo e le parole che pronuncio sono tolte
dal dizionario del cosmo. Il balbettio è sincero. A ciò che lo specchio mi
racconta con un fluire di cascata che stordisce, attingo con un secchiello forato.
Devo lavorare con frenesia perché il tempo corrode i pensieri. Ascolto e vedo,
tocco e abbraccio, poi scrivo, prima di morire. La parola come suono si fa
parola visione, un sogno di realtà diversa che devo rincorrere senza riposo,
perché il suo gioco è di sfuggirmi. Niente è facile e immediato quanto
l’intuizione, ma essa è un neonato privo di linguaggio e la mia mente va in
delirio nello sforzo di interpretarne i suoni, i vagiti, gli strilli, i
gorgheggi. La sua è un’ebbrezza ora felice ora angosciata e io devo darle la
parola.
Se non può esprimersi in modo Kalòn, il dolore è
troppo grande.
Mi viene in aiuto Apollo, lo sciamano.
Io compongo il tiaso, senza il quale non c’è teatro. Ognuno,
lavorando con gli altri, lavora per se stesso; e vale il contrario. Ognuno, nel
tiaso, rimane se stesso, ma in sé ha il gruppo che è il suo specchio. E il
gruppo, il tiaso, è Dioniso, è il mondo.
Il tiaso non è composto solo da persone. Di esso
fanno parte i tirsi, i tralci di edera, i grappoli d’uva, gli animali, il bosco
e il monte. Non ha confini, perché anch’io ho errato dall’India all’Egitto, ma
il monte su cui sale a danzare è il monte vicino a casa.
Lo sciamano apollineo, grazie al tiaso, non si
confonde con il mondo, non scompare nella visione, ma vede con gli occhi di
tutti.
Io batto il terreno con il tirso, Apollo lancia
frecce verso i pianeti. Io esalto il gruppo nell’individuo, Apollo la società
nel cittadino. Io do l’ebbrezza, Apollo il concetto. Io porto alla bellezza,
Apollo all’estetica. Io cerco la pace con me stesso, Apollo l’applauso.
Siamo fratelli, troviamo il modo per andare
d’accordo. Non è immediato e non è facile. C’è spirito combattivo,
competizione, l’uno cerca di prevaricare e di manipolare l’altro in nome dei
propri ideali. Nessuno dei due è destinato a vincere, perché l’uno completa
l’altro. Ma ognuno ha la propria sfera di influenza: per Apollo è lo
spettacolo, per me è il teatro. La sua rabbia è che al mio teatro lui è
costretto a prestare il proprio spettacolo, mentre al suo spettacolo io nego il
mio teatro. A volte, quindi, mi denigra, mi offende, mi taccia di immoralità.
Egli sbraita e delira con i volti di Platone, Tertulliano, Agostino, Rousseau…
ma i suoi isterismi lo rendono ridicolo.
Percussioni e sibili, timpani e flauti, e il ritmo è
uno solo, ci rende uno da due.
“Ciò che si oppone converge, e dai discordanti
bellissima armonia” dice Eraclito.
Io sono Dioniso, io sono lo specchio. Ciò che vedo
sono io che guardo oltre me stesso. Vedo dietro di me, sopra e sotto. Ciò che
vedo davanti a me è una strada nuova che io stesso traccio. Di questo voglio
che si occupi il mio teatro. Ciò che vedo è il palcoscenico in una bolla di
cristallo, un pianeta d’entusiasmo che non obbedisce passivamente alle leggi
dell’universo, ma erra di galassia in galassia, esplorando e raccontando.
Dell’edificio si occupa Apollo, come del pubblico che vi entra per assistere
alla rappresentazione. Dal mio punto di vista, il pubblico non merita il teatro
Kalòn. Viene qui per lo spettacolo come va all’incontro sportivo, alla
manifestazione politica, alla parata. In cerca di emozioni. Di stordimento. Di
illusioni. Il pubblico è corrotto.
Solo chi fa Kalòn è meritevole, e l’invito è esteso a
tutti. Chi lo accetta, deve alzarsi dalla poltrona della passività intellettuale
ed emotiva e occuparsi di se stesso a livello etico, diventando un interprete Kalòn
nella vita di tutti i giorni, non necessariamente sulla scena. E per farlo non
deve abbandonare il lavoro e le cose che possiede; è solo questione di priorità
e di primato. Non faccio la morale. Io vado e mi mostro, tutto qua.
Apollo riproduce da lontano, io ci sono. Ma non sono
solo un personaggio; io singolo non mi clono in un altro singolo; io sono io e
sono il tutto, sono io e ciò che mi circonda, compagni di tiaso e cose da
palcoscenico. Apollo ama le masse, la folla che inneggia e si uniforma a uno
stile e a un’idea. Apollo vuole esaltare, io dono l’ebbrezza di essere poco nel
tutto e tutto nel poco.
“I molti non colgono la vera natura delle cose in cui
si imbattono, né le conoscono dopo averle apprese, ma se ne costruiscono
un’opinione” dice ancora Eraclito.
L’immedesimazione in un personaggio è un’opinione, è
una visione individualistica e singola di fronte all’universalità.
Il mio teatro non è un’opinione, ma è la divinità che
parla. E la divinità è il mondo. E il mondo è Dioniso. E io lo sono. Gli altri
dei non esistono. Anzi, gli dei tutti non esistono. Dio non esiste, e io sono
solo la voce di un sogno. Come sogno, non importa che poco mi sia chiaro di
quello che faccio. Voglio che quello che faccio sia onesto e sincero, senza
limiti imposti, rispettoso del mondo e della sua essenza e non delle opinioni
della religione, della scienza e della comunità.
Eraclito: “Prestano fede agli aedi delle moltitudini
e prendono a maestro il volgo e non sanno che i molti sono spregevoli,
eccellenti i pochi.”
Il mio teatro non ha pubblico, ma chiunque sia di
passaggio può fermarsi per spiare e origliare. Poi vada via, perché qui non si
fanno chiacchiere. Il mio teatro è la follia di un attore che dialoga con le
assi del palcoscenico o con il suolo sul quale danza e delira; o parla con un
altro matto come lui, ambedue ebbri senza perdere coscienza. Un attore che
danza con le cose e che fissa lo sguardo all’aria, cercando all’orizzonte
l’oggetto del desiderio. Che racconta storie alla sedia sulla quale si siede,
ora trasformata in barca e lui è delfino, e il telo azzurro sono le onde del
mare e un volo di procellarie canta l’abisso mentre i rematori invocano i ritmi
della primavera. Un attore che non è nessuno, dato che è tutto, e quindi non ha
un nome, come cose senza più un nome sono quelle legate l’una all’altra da una
passione più forte del pensiero; esse formano il tiaso di Dioniso, contemplato
a distanza da Apollo.
Io sono qui, nella realtà crudele. Apollo è là, che
ci giudica.
Il Kalòn è dunque un teatro di compromessi? No, di
accettazione etica della realtà e della storia così come sono, nella
concretezza e nella verità per quanto possibile. Il teatro non è
rivoluzionario, gli attori non sono untori. Nessuna epidemia di peste è mai
scoppiata su un palcoscenico. Il contagio che trasforma lo spettatore in un
uomo migliore è durato quanto la sua permanenza in teatro. L’impatto con una discoteca,
uno stadio, una diretta televisiva, un comizio politico è più potente di
qualsiasi performance o drammaturgia. Il teatro rischia di soccombere allo
spettacolo.
Questo de-merito spetta ad Apollo, sono sue le frecce
che diffondono la peste non del cambiamento, ma del consolidamento del potere.
Il “teatro” borghese, la televisione e il cinema hanno infettato l’umanità e
diffuso idee preconfezionate dai signori della politica e dell’economia. A loro
appartiene il “bello” che viene imposto ai cittadini sprovveduti e ansiosi di
credere in qualcosa, meglio se ultraterreno. Il soprannaturale impregna infatti
la spettacolarità di regime delle idee condivise e consente alla mistificazione
di riscrivere la storia e di forgiare il presente.
Il performer-sciamano si illude. Lo sciamanesimo è
ormai di pertinenza di Apollo. Sue le parole. Tsunami di parole che abbattono
ogni resistenza, e non solo dal teatro, ma dalla pubblicità, dal cinema, da
internet, dalla televisione. I suoi falsi profeti hanno a disposizione i
“teatri” metropolitani, parrocchiali e alla moda; le case di produzione
televisive e cinematografiche; i giornali e le istituzioni, compresa la scuola.
Mettersi sul suo stesso piano per combatterlo è assurdo: lui è il più forte. Ha
dalla propria parte il popolo. Ma quale popolo? Quello in costante acquiescenza
che talvolta si sveglia di soprassalto e distrugge tutto. Un popolo trattenuto
da catene invisibili, un furibondo nella camicia di forza sedato, una belva
assuefatta alla gabbia che nasconde la ferocia. I popoli sono Titani. E poi
dicono che sono io a diffondere la follia!
Solo in un modo ci si può contrapporre: con la
libertà creativa individuale strutturata sull’etica non utilitaristica,
rispettosa non solo dell’umanità, ma di tutto ciò che costituisce il mondo.
Recuperare le parole nella performance, dare loro un segno nuovo con il corpo
che agisce sullo stesso piano degli elementi di scena. La parola, come tutto il
resto, è corpo, e ogni corpo è materia, e a tutto si può dare un’anima, tutto si
mette in movimento e racconta.
Una tragedia performativa.
Ripeto: la tragedia performativa con il proprio
carico etico, la scena come sistema complesso. Una rappresentazione, oltre il
canone aristotelico, doppia: teatro e spettacolo, Dioniso e Apollo.
Il teatro in una sfera di cristallo che rende
superreale il palcoscenico, sfera dell’estasi delle cose, come Bohme definisce
la loro aura, e della embodied mind, unità di corpo e spirito
dell’attore performativo; lo spettacolo in un filtro attoriale che media tra il
palcoscenico e la platea, un coro dialogato a due o più voci che spiega,
approfondisce, stimola non tanto a “capire”, ma a considerare ciò che avviene
nella sfera.
Uno spazio, quindi, performativo e non geometrico,
comprensivo del palcoscenico con la sfera della presenza etica e della platea
con il pubblico. La sfera come il centro di un’energia che irradia il luogo
della rappresentazione, fondendo in unità la macchina teatrale con la zona
riservata al pubblico.
Al pubblico si offre una possibilità, non un ideale.
Gli ideali si rivelano slogan e gli slogan durano quanto un soffio di vento.
Come le filosofie. Come le religioni. L’unico monumento perenne
all’universalità razionale e creativa è nell’animo di chi si erge solitario
contro il mondo colonizzato e dichiara: il mondo è in me.
Una dichiarazione senza fanfare, un mo(n)do semplice
nella propria libertà dell’essere come è.
Avete promesso, con il teatro, la costruzione di un
mondo migliore. Vi siete confusi con i religiosi e i politici. Non esiste
possibilità di migliorare il mondo. L’umanità mette una toppa da una parte e un
altro strappo si apre da un’altra. Il mondo mitico del Dioniso tebano è
identico al mondo tecnologico dei vostri giorni. Che importanza ha che
viaggiate veloci come Ermes e che mandiate navicelle su altri pianeti? La
natura vi si rivolta ancora contro e Apollo non smette di propagare epidemie,
mentre Ate diffonde discordie e Ares guerre; e Zeus semina supereroi e santi
dalla luce meteorica. Il mondo è crudele, ingiusto e terrificante. Voi lo
pensate nello specchio dalla parte della vita, ma dovete abituarvi a conoscerne
il riflesso, che è la morte: la vostra immagine sulla sua superficie vista da
dietro.
Non credete a chi vi offre sicurezza, felicità,
giustizia, pace… Non sono cose umane. Credete a Dioniso che vi dice: il mondo è
questo, e non può cambiare. Non dovete cercare nuove religioni, nemmeno quelle
laiche; ma il modo migliore per vivere il mondo peggiore. Siate Kalòn, non
illusi: anche la vostra morte è “bella”.
Apollo è onorato con templi maestosi, a lui si
dedicano ecatombi, per lui si erigono statue rivestite d’oro, i suoi teatri
sono splendidi, gli spettacoli riempiono le arene… mentre io sono un vagabondo,
un migrante, e non ho templi, non ho sacerdoti. Dicono che Zeus mi abbia
accolto sull’Olimpo; ma l’Olimpo è solo
un monte di roccia, nuvole e neve. Dicono che io sia asiatico, africano,
nordeuropeo e mediterraneo; e tutti hanno ragione. Dicono che sia terribile e
dolcissimo: l’ha scritto Euripide. Dicono che ho consacrato l’ubriachezza:
pettegolezzi di chierici. Dicono che mi trasformo in toro, delfino, pantera e
serpente: e in tutto il resto. Dicono che abbia fondato il teatro: c’è sempre
stato.
Una lettura scenica
Sono qui per la lettura di un testo. Il teatro ha una
capienza media, un ingresso appartato, a lato di un’arteria a scorrimento
veloce dove pulsa il cuore infartuato di una società dell’accumulo. Teatri come
semi caduti ovunque, alcuni maestosi altri poco più di una stanza. Si potrebbe
ipotizzare un ricco raccolto, ma dai cartelloni sui muri s’intuisce altro: molti
semi sono sterili o germogliano pallori e anemie. Vedo commedie ridanciane e
volgari, drammi minimali, pretenziose analisi della società… Vedo quello che
Apollo vuole insegnare, in nome della coesione sociale e del rispetto delle
tradizioni e delle istituzioni. Spettacolo ovunque. Nei teatri, nelle
biblioteche, nelle scuole, per strada, negli stadi, negli auditori, negli studi
televisivi e cinematografici, nelle piazze… Ogni giorno, tutti assistono alle
finzioni della vita sociale. E non manca chi analizza e recensisce.
Che cosa si vuole analizzare, se niente è mai uguale
a se stesso? Eraclito ci ha insegnato molto riguardo al fiume, ma dobbiamo
riflettere anche sul filosofo che osserva l’acqua scorrere. Anche lui è
divenire continuo, e nessuna dottrina può appartenergli. Come a lui sfugge il
fiume nella sua essenza mutevole, così al fiume sfugge lui che cambia di
respiro in respiro, di sguardo in sguardo, di pensiero in pensiero. Forse è stato
questo a fare impazzire Nietzsche: una vita spesa in un pensiero erroneo,
caduco come le foglie d’autunno. Addio, Wagner; addio, Schopenhauer. Ma io
voglio donarvi l’ebbrezza, non la pazzia. La trovate nello specchio, dove la
vostra immagine assume i caratteri dell’opposto e della contraddizione,
dell’inusuale e dello sconcertante, del ribaltamento di ogni certezza. Ciò che
vedete non è reale, eppure riproduce la realtà. Ma non l’utopia artificiale in
cui vivete, voi al centro del mondo, il mondo oscurato dall’invadenza umana,
soprattutto dalla vostra; l’altra realtà, quella in cui siete come verità di
voi e del mondo fuse insieme. Insomma, siete nella vostra stanza, davanti allo
specchio, e voi vivete, l’immagine invece recita la vostra vita, mostrandovi
finalmente ciò in cui siete immersi nella sua autenticità di unione degli
opposti: il disorientamento come strada maestra.
Lo specchio è materia che riflette materia,
un’immaginazione fisica contro la finzione dell’apparire ciò che non si è.
L’immagine nello specchio vi mostra la vostra
maschera.
Guardateci dietro: ci siete voi, recuperatevi!
Il mondo come volontà? Come condivisione. Il mondo
finalizzato? Il mondo vagabondo. Il mondo in progresso? Il cosmo ignora le vostre
conquiste tecnologiche. Ignora anche voi.
L’autenticità è lì, sulla superficie dello specchio,
sul limite. Potete spiare nella realtà e vedete voi stessi materialmente vivi;
potete spiare nel riflesso e vedete la vostra immagine in un mondo straordinario:
esso vi racconta il doppio fluire del fiume e del filosofo, vi mostra
l’incantesimo che vi rende sognanti e irreali, vi mostra anche l’inganno, il
dogma imposto con la violenza che assume nomi diversi nel tempo, e vi addita
altre possibilità di vita misteriose, materia per il teatro.
Pubblico di voi stessi, allo specchio: spiate e
scegliete da che parte stare.
Che cosa vorrei vedere sulle locandine? Non le cose
che ingolosiscono i blogger ed esaltano la critica e domani fanno parte della
cronaca smaltita. Vorrei che i drammaturghi si riallacciassero alla tragedia
greca, rivedendo i propri criteri formali che troppo spesso assaltano lo
spettatore con uno tsunami di parole inutili; o con immagini suggestivi ed
emozionanti, ma che vengono codificate solo dall’esperto, e non portano con sé nessuna
storia.
Vorrei che recuperassero soprattutto un senso più
vivo e audace dei contenuti, che non acquisiscono qualità perché agganciati alla
società, ma perché travalicano ogni società attratti dalla zona di buio che
circonda il neon dell’universo umano, verso le folgorazioni del mito.
Contenuti superumani, vorrei, ma non divini.
L’infinito non appartiene alle divinità, che nascono e muoiono con un respiro
di poco più lungo di quello umano.
Drammaturghi, andate ad assaporare il sangue della
preda, a frugare nella marcescenza del sottobosco, a esplorare gli echi delle
caverne, a sondare la profondità degli istinti di morte, a misurare l’idiota
presunzione del potere, a misurare la pochezza dello sguardo alle stelle, a
decifrare il fitto brusio delle foglie, ad auscultare il cuore del pianeta
malato, a dare il giusto nome alle cose perché non è giustizia quella che viene
praticata, non è sapienza quella religiosa, non è conoscenza quella
scientifica, non è verità il buonsenso comune e nessuna legge è definitiva.
Drammaturghi, uscite dalla sfera ipnotica di Apollo.
Entrate in quella del teatro, dove la libertà è
incentivata.
Ma non sono qui per portare filosofia, nemmeno un
nuovo Verbo. Sono qui per attivare il tiaso sulla scena.
E il tiaso non diffonde morale, ma etica. E l’etica
che cos’è? La consapevolezza che ogni esistenza è definita da relazioni e
contesto, la ricerca di equilibri, la volontà di convivere senza sacrificare
l’altro, il realismo rafforzato dall’immaginazione, l’accettazione della vita
in tutte le sue espressioni, anche in quelle rifiutate dalle istituzioni.
Entro.
Quando si entra in un teatro, si dovrebbe uscire
dalla realtà. Come varcare lo specchio. Purtroppo mi rendo conto che non è
così. Varcata la soglia, niente cambia nelle persone che ho intorno. Continuano
a chiacchierare e fanno telefonate, immersi nelle passioni piccole. Non vedono
la soglia. Non hanno coscienza delle differenze fra un teatro e il cinema, o il
centro commerciale, o il salotto con il televisore. Hanno prosciugato la
sacralità di ogni altra attività umana per concentrarla nelle chiese, dove i
pochi che entrano lo fanno con devozione, rispetto, aspettative. O non è così? Ci
entrano solo per una gratificazione personale? Il teatro, per loro, è solo il
luogo dello spettacolo e lo spettacolo è: attività intellettuale, fabbrica di
emozioni, divertimento, espressione artistica, evento mondano.
Forse tra una chiesa e il teatro spettacolare non c’è
molta differenza; solo il dettaglio della salvezza eterna nell’aldilà.
Entro nel teatro con ampio anticipo, ci sono poche
persone, sufficienti comunque a zittire le voci della scena. Il pubblico è
sempre micidiale, una macchina da guerra che fa terra bruciata. Il teatro ha
voce flebile e potete sentirla solo quando è vuoto; e questo è un ossimoro, che
io amo. Il teatro è presenza di corpi e oggetti, come può essere vuoto? Eppure
da lì si parte, da un assurdo vuoto che si fa caos e poi ordine: la morte, il
caos della vita e l’ordine della performance artistica. Per dare un senso? No,
il teatro non è rivelazione. Non dite che il teatro è un tempio. La gente non
dovrebbe entrare nei templi. Io non ne voglio, non mi servono. So che me ne
hanno comunque dedicati alcuni, pochi rispetto ad Apollo, il fratello amante
dei riti e delle liturgie, nonché degli sgozzamenti e delle ecatombi. Ogni
culto apre la via alla violenza, ogni officiante ha le mani insanguinate, ogni
credente è un assassino. Mi accusano di praticare lo sparagmòs? Loro che
gestiscono macelli animali e umani? Io parlo sempre di vita, anche quando
tratto di morte.
Nei miei templi vorrei che la gente non entrasse. Mi
preghino stando fuori, nell’accogliente pronao che li ripara dalla pioggia o
dal sole cocente. Ciò che avviene nella cella, il nulla, non è affar loro. Lo
dico per il loro bene: se scoprono il trucco, perdono la fede. Anche ciò che
avviene sulla scena non è affare del pubblico. Se ne stia sulle poltrone
accoglienti, al riparo dalla pioggia o dal sole cocente, e dia il minor
fastidio possibile. Dovrebbe pagare, oltre che il biglietto, anche per il
disturbo che arreca agli attori.
Cerco di percepire le voci del teatro, ma gli arredi,
le immagini, gli atteggiamenti poco consoni dei presenti soffocano ciò che
andrebbe amplificato. Percepisco l’estraneità di queste persone, e qui non si
tratta di contraddizione e incoerenza fruttiferi; ma di penosa discordanza,
come di chi si siede a osservare un tiaso in azione. Non c’è niente da
osservare, solo da condividere e partecipare.
Il teatro dovrebbe essere padrone di se stesso. Ma il
potere di imporre le proprie leggi gli è stato eroso. Ora è un edificio
imbellettato con un padrone, un direttore, un comitato di gestione e una marea
di individui che lo frequentano per sbriciolare le sue rive e modificare la
linea di costa. L’isola di beatitudine diventa scoglio sommerso dalle acque.
Dove sono le immagini di Dioniso e di Apollo? Dove
sono le parole mitiche accompagnate dalla cetra e dal flauto? Al loro posto, il
linguaggio del volgo, borborigmi.
Incontro il direttore artistico, altri drammaturghi,
un critico, gli attori, intellettuali di diversa levatura... Ci scrutiamo come
animali rinchiusi nella medesima gabbia. Dovremmo allearci per studiare
l’evasione, ma i segnali di vivace cordialità sono ipocriti. Ci studiamo per
identificare chi vittima e chi predatore, e quanto siano inermi le vittime e
quanto abili e spietati i predatori. Ognuno non è ciò che è, ma ciò che appare:
la carica che ricopre, i successi raccolti, le conoscenze altolocate, i
progetti vincenti. Non siamo in un teatro, ma in uno stadio. Sono stato
invitato, ma nessuno s’interessa a me. Sono lo straniero, vengo da tanto
lontano che solo al nulla è paragonabile la mia origine. Da qui, il mio valore
risibile. Se io sono straniero, loro sono estranei, e tali si ostinano a
rimanere. Non vedono in me occasioni da cogliere, non sono utile alla carriera,
altri sono gli dei a cui si rivolgono, quelli che risiedono sull’Olimpo. Ognuno
cerca di attirare su di sé l’attenzione, ma la competizione è dura e presto
vinta dal drammaturgo più quotato. Ottenuto un uditorio (parlano e ascoltano,
non danzano e non cantano mai), si tuffa e nuota con ampie bracciate nella
pozzanghera della propria erudizione.
Sul palcoscenico, la scenografia dello spettacolo in
cartellone; un tavolo, tre sgabelli, una struttura a gradoni; come fondale, la
gigantografia lacerata di una maschera. Il tutto mi comunica tristezza. È un
quadro nel quale l’attore si riduce a una didascalia vagante in itinerari
preordinati e di scarso sviluppo, come uscire dal condominio al cortile, e
contemplare il cielo di antenne televisive.
La scenografia è sicuramente significativa, non lo
discuto. Apollo ama le transcodifiche, le metafore e la semiotica densa; e
probabilmente lo scenografo è anche pittore, o fotografo, e dedito alle nuove
arti digitali. Mi accosto. Si ostinano a trattare il palcoscenico come le città.
Non valgono tanto le relazioni tra gli individui e la natura quanto i singoli
progetti estetici che ingabbiano le persone riducendone l’espressività e creando
distonie.
Gli attori sono giovani e pieni di entusiasmo. I tre
leggii sono accostati sulla destra. Nessuno dei presenti analizza la scena ed
esprime proposte di utilizzo delle risorse. L’aritmetica è elementare: leggio +
attore = teatro. Nessuno ha provveduto alla musica, non ci hanno nemmeno
pensato. Nessuno suggerisce agli attori movimenti, nessuno imposta le luci se
non per una maggiore intensità sulla pagina. Nessuno esamina la rete che si
intesse sul palco tra relatori, attori, spazi, oggetti, pubblico. La gestione è
simile a quella di chi riceve in casa e indica agli ospiti i posti a tavola, un
po’ meditati un po’ improvvisati badando solo a una cosa, che quelli di
riguardo abbiano rilievo. E ognuno se ne sta incapsulato sulla propria sedia,
immerso in nuvole di parole.
Si fa una prova. L’attore che interpreta il sovrano
opta per l’onomatopea più ingenua: il potere si esprime, per affinità, con la
potenza della voce. Il personaggio principale, ricco di sfumature, viene reso dall’attore
anziano con energia costante e con picchi emotivi affidati soprattutto all’intensità
della voce.
Tutto è così affidato alle lunghe braccia della
consuetudine, del risaputo, del tramandato, del buonsenso, dell’esperienza. La
mente è in una sfera penetrata solo dagli input istituzionali e culturali. Se
un oggetto ignoto le si avvicina, viene fermato dai custodi dell’ovvio e subito
allontanato. Tutto ciò che è mistero, avventura, rischio, sperimentazione viene
dirottato verso le sacche della cultura alternativa e periferica, utile per una
recensione bonaria, ma lontanissima dagli astri dell’ufficialità. Invito l’interprete
a sondare il contrario: una voce controllata, pacata, subdola, distaccata e
fredda. Il minimo per esprimere il massimo. Qualcuno storce la bocca, ma
l’interprete è soddisfatto: ora si sente più in sintonia con la parte.
Una lettura a leggio è comunque teatro, anche se
l’interprete si ritrova limitato nei movimenti, legato com’è al copione. Ma non
si può aprire il soffitto e abbassare tanto le stelle da sfiorare le teste
degli attori? Non si può annientare il pavimento e fare ingoiare il pubblico
dalla voragine? Si può tutto, in teatro.
Le mie prime considerazioni riguardano il
palcoscenico inteso come bolla di risorse e di interrelazioni. Non si può
lasciare la scena, una volta iniziata la rappresentazione, perché chi se ne va dietro
le quinte rompe la bolla e spezza la magia, rivelando la realtà da cui la scena
è fuggita, percependola come antitetica. Se il teatro non è fuga dall’ordinario,
rimane prigioniero del fallimento del quotidiano. Ordinario in due sensi: la
normalità come routine, come sistema acquisito di atteggiamenti, tradizioni,
leggi, abitudini del qui e ora; e ordinario in quanto arroganza di riordino
dell’universo operato dai detentori del potere.
Evadere dalla realtà per rinchiudersi nella bolla
cosmica.
L’evasione non ha come obiettivo la ricerca della
felicità, nemmeno della verità. L’evasione è solo ricerca di altri mondi e, di
conseguenza, di altri modi di scrivere la storia e di strutturare il presente.
Il teatro non ripete gli errori della religione e della politica, non offre
paradisi terreni e ultraterreni e non crede che esistano situazioni di
perfezione civile o mistica. Esso crea solo una tensione che è anche tenzone,
una gara con lo spettatore per indurlo a lasciare le certezze, le pigrizie
intellettuali, i cancri del sapere e accettare una sconfitta che si rivela come
vittoria. Il teatro apre, scardina, cambia punto di vista, mette sottosopra,
ridipinge, destruttura. Senza mai ferire lo spettatore, senza provocazioni
aggressive. Il teatro non è il cortile, l’osteria, la piazza del mercato o la
tribuna dell’oratore. Esso gareggia a distanza, senza contatti fisici. Il
teatro sono io ed è Apollo, il teatro siamo noi, ma io conduco il gioco. Apollo
mi presta gli strumenti, tra cui la luce, ma sono io a dirigere la lampada, a
indagare nelle tenebre del cosmo e del sottosuolo. Io trasmetto l’energia
vertiginosa e l’ebbrezza feconda, e Apollo argina la follia con uno sciame di
frecce che tracciano il sentiero. Io mostro la lacerazione della carne e Apollo
scatena l’epidemia e insieme riveliamo l’orrore e il terrore, anche se io non
stendo veli pietosi e lui invece inventa le cerimonie funebri e le consolazioni
della reincarnazione e dei paradisi ultraterreni. Io traccio nuove vie di terra
e d’acqua e Apollo fonda le città. Io sono sempre in movimento, Apollo cerca
luoghi in cui fermarsi. Io sono l’anarchico, lui il colonizzatore.
Ripartiamo dal catalogo della scena.
La tendenza comune è di attribuire a ogni elemento un
ruolo preciso e codificato in senso apollineo, che ci offra garanzie sul
rispetto dell’ordine delle cose e delle regole, e sulla comprensione da parte
del pubblico. La prima conseguenza è che il leggio serve a sostenere il
copione; leggio e copione sono quindi incatenati insieme; e il leggio è
inchiodato all’assito. E l’assito è la base solida sulla quale edificare la
messa in scena, che non lascia spazio a dubbi. Tutto è inchiodato, incastonato,
immobilizzato. A ogni elemento viene assegnato un ruolo dai confini netti, in ambiti
predeterminati. Il signore della scena è l’attore, che usa e abusa dello spazio
e degli elementi come un neocolonialista avido di sfruttare le risorse altrui
fino all’ultima goccia. Non c’è collaborazione tra elementi attivi e passivi.
Al legno, alla tela, al metallo è tolta ogni dignità. Sono solo trofei da
esibire, cadaveri estetici.
Pensano che i brani andrebbero recitati con l’enfasi
degli spostamenti forti, dei gesti espressivi e risoluti; ma la lettura
impedisce i movimenti, quindi la resa è minore per forza di cose. Attori a metà,
così pensano. E non cercano soluzioni.
Gli interpreti devono mantenere la posizione
assegnata e contare solo sulla voce, per esprimersi. Non possono nemmeno
usufruire di un tempo continuo: le letture si alternano agli interventi
critici, gli attori entrano ed escono più dalla parte. Insomma, nel loro
accettare un codice espressivo non fanno che autolimitarsi, procurandosi
sordità e cecità.
Ah, quell’entrare e uscire dalla parte! Per molti
attori costituisce un ruolo ulteriore, una recita nella recita. Quando la
relatrice interpella l’attore dopo l’esibizione, egli può sibilare: un momento,
devo staccarmi dal personaggio. Se ne deduce che l’attore compie un lavoro
particolare, difficile e faticoso. La concentrazione, invece di farsi leggera e
profonda, si fa sudaticcia e tutta esteriore, tanta importanza assegna al sé e
alle reazioni del pubblico. Possiamo paragonarlo a un gasista che risale dallo
scavo e prima di rispondere alle domande di un passante deve detergersi la
fronte, togliersi i guanti, sospirare, accigliarsi perché l’intervento è
complesso ed estenuante. Se il passante commenta: brutto lavoro, eh? l’operaio
è felice. E questo personaggio che condivideva l’anima dell’attore e ora invece
se n’è andato… dove? Dove se n’è andato? Ricordiamoci di Diderot.
Ciò che sconcerta è che, durante le pause delle quali
s’impossessano i relatori, gli attori si trattengano sul palco non si sa bene
in quale veste. Il protagonista rimane abbastanza concentrato e ci dà a
intendere che è sì uscito dalla parte, ma che si prepara a rientrarci, per cui
mantiene una postura adeguata, le mani sul leggio, la testa un poco spinta in
avanti; come una batteria in carica con la lucina rossa accesa. Gli altri improvvisano
cercando il modo migliore per darsi un tono e non sembrare fuori posto. Presenze
ingombranti e prive di senso. Ne avrebbero se partecipassero al dibattito, ma
sono lì risucchiati nel vuoto tra una lettura e l’altra; e tutto ciò che sul
palcoscenico si trasforma nel nulla, nella presenza spettrale
dell’insignificante, è devastante. Ancora più ingombrante, d’altronde, la
presenza dei relatori durante le letture. Per loro, c’è la ricerca di una
postura che risulti non banale e che manifesti attenzione e interesse. Ognuno
se la gioca a modo proprio, ma il vuoto significante, quello che non è pausa o
silenzio ricco di espressioni, urla la propria alterità e implora di
assegnargli un ruolo. Non c’è elemento di scena, dall’attore alla sedia al
leggio, che possa fare a meno di un ruolo, se non si vuole che distrugga la
rappresentazione. Tutto è importante e significativo e l’elemento decorativo e
riempitivo è simile a un cadavere a una festa di compleanno.
Il risultato è che si sono strutturati tre gruppi
(pubblico, attori, relatori) che stabiliscono relazioni confuse e
intermittenti, dai confini mal definiti. Un caso di inquinamento comunicativo.
Soprattutto, un tiaso imperfetto, che non ha in sé Dioniso, ma l’ombra gelida
di Apollo. Insomma, non c’è enthousiasmòs!
La serata, in conclusione, si caratterizza come la
tipica serata culturale, identica in tutti i campi dello scibile e dell’arte,
sia che si parli di streghe del Seicento o di vini piemontesi, di bullismo a
scuola o della poesia di Gozzano, di jazz o di tragedia greca. Ma perché la
gente perde tanto tempo per occasioni che, più che arricchire lo spirito,
promuovono l’accumulo nozionistico? I relatori mietono immagini allo specchio
non dionisiache, ma narcisistiche; gli organizzatori si sentono meritevoli del Cavalierato;
il pubblico si sposta qua e là spinto dai cani pastore che sono i mass media; e
applaude sempre e comunque; e snocciola commenti sapienti; e fa vita sociale,
che è l’ossigeno quotidiano, e in fin dei conti una dannazione.
Riepiloghiamo.
Siamo in un teatro, ma non si fa teatro, solo
spettacolo che ha ben poco di Kalòn. Nessuno stabilisce con il luogo della
rappresentazione un rapporto profondo, originale, fecondo. Se la pancia del
teatro, che è una baccante, non viene ingravidata, come ci si può aspettare la
rinascita di Dioniso? Il rito è una reiterazione senza anima. Le parole
apollinee sono acute, ma non colpiscono il bersaglio. Apollo ripone l’arco e la
cetra, inutili senza i giocattoli di Dioniso. La sintesi dovrebbe consentire a
Orfeo di ammaliare cantando di vita e di morte, ma non c’è musica e non c’è
danza.
Eppure, il pubblico applaude.
Gli attori, più che soddisfatti, hanno valutato in
modo positivo la propria esibizione. Gli organizzatori postano fotografie
dell’evento, facendolo apparire unico: peggio per chi l’ha perso. Il critico
dice a se stesso: il teatro è comunque vivo, grazie a noi.
Insomma, tutti soddisfatti.
La ricerca della gratificazione è giusta, ma chi ne è
ossessionato incontra l’hybris.
Se Apollo ha comunque consolidato il proprio potere (rispetto
per le istituzioni, competizione, invidie e rancori sotterranei, potenza della
parola sia come arte sia come legante sociale…), Dioniso si sente imbarazzato. Torna
fuori, tra i migranti che si aggirano nell’ombra dei sottopassi, tra i ladri e
le prostitute, tra i cittadini in catene e i padroni del tempo e dello spazio,
fautori delle leggi che dicono all’autista: non puoi andare più veloce? Il
mondo appartiene a loro e lo sacrificano a sé in modo convulso
Attenti, io sono la maschera. Quale? Dalla Tracia,
dalla Licia, dalla Frigia, o dall’India, o anche dall’Africa, fate voi. In
verità, non vengo da nessuna parte, sono già dentro di voi, innato. Non la
indosso, ve la porgo affinché impariate a togliervela. Solo conoscendo le
vostre finzioni potete spingere lo sguardo oltre. Dioniso ha origine in voi, ma
voi preferite farne uno straniero errabondo: meglio che sia sempre altrove.
Eppure non potete evitarmi: avete occupato i teatri, e i teatri sono la mia
casa.
Ecco, vi porto l’ebbrezza. Durante una recita
scolastica, un gruppo di ragazzine che interpreta il tiaso dopo una breve
coreografia si lascia andare a strilli ai quali nessuna di loro è abituata:
rosse in viso, eccitate ma non esagitate, sorridono. L’ebbrezza, niente di
perverso. Ma non la medesima del concerto pop o dell’ottovolante o delle
droghe. Questa è ebbrezza di vita perché è a tu per tu con la morte, nella
sfera cosmica dove c’è tutto e non c’è niente, dove la parola torna a fondersi
con il movimento e la musica, dove il silenzio è la fine delle cose in attesa
di un altro inizio: ogni silenzio è quindi carico di deferente senso del
mistero e nella propria fugacità concentra l’energia che esplode poi nella
parola e nel movimento, rendendola visibile e percepibile; si riversa sul
pubblico come uno sguardo estraneo intenso e fugace colto nella folla, che
lascia un’impressione di nostalgia, come se altrove ci fosse qualcuno che ci
aspetta, o qualcosa.
Dioniso, il vino, l’eccesso, la follia… E poi che
altro volete addebitarmi? Ma non è di questo che avete paura. Le società di
ogni tempo sono sature di droghe di tutti i tipi, e la follia dei signori dei
palazzi e dei campi di battaglia è benedetta, e dell’eccesso avete sempre fatto
una religione e un prodotto commerciale.
Ciò di cui avete paura è questo sguardo anonimo nella
folla, è lo sguardo del Dioniso errante. Quando meno ve lo aspettate vi
colpisce, e vi ferisce peggio che le frecce legalizzate di Apollo. Chiaro,
agita la melma della vostra pupilla stagnante; fuorviante, vi fa barcollare;
sapiente, vi spinge a cambiare strada; limpido, rimprovera la vostra disonestà;
e vi grida: guardati intorno, la folla è umana, è viva, può essere il tuo
tiaso.
Lo so che non basta. Chi cammina nella folla non si
ferma, ha imparato a superare il turbamento. Ma
se portiamo lo sguardo sul palcoscenico, forse qualcuno indugerà più a
lungo sulla poltrona, e non per applaudire; per rimuginare su quanto anche a
lui piacerebbe trascorrere del tempo con i giocattoli di Dioniso, in un tiaso
scenico, dentro la bolla cosmica.
Chi pratica la via media dell’integrazione in un
sistema di sfruttamento usa i mezzi più efficaci per denigrare, ridimensionare,
banalizzare l’opposizione e le diversità. Dioniso non si oppone, lascia che la
gente si rovini con le proprie mani. Ma questo fa già parte della sua diversità
inaccettabile. Per questo ne fanno un hippy drogato che delira e compie azioni
oscene e immorali, disgustose e depravate. Dioniso non fa altro che dire:
questa è l’esistenza; io non sono al di sopra degli altri, io faccio solo
teatro. Ma un teatro a-confessionale e a-civile è un covo di dissidenti, nemici
della società e del progresso.
Dice Penteo: mi scontro con uno straniero che non
riesco a controllare: non tace mai, né quando subisce né quando reagisce.
Eppure, io non faccio politica. Non ho niente da insegnare, solo da mostrare e
da raccontare. Penteo è stato ucciso, ma non l’ho ucciso io, non ho sobillato
le Baccanti contro di lui, come vuole Euripide. Penteo è morto suicida, la fine
che fanno tutti quelli come lui, vittime di conflitti e contraddizioni
inconsistenti, che non lo nobilitano e non gli offrono altre opzioni se non
quella di polverizzare l’epica personale. Morto perché il mondo civile della
città uccide non solo i propri nemici, ma anche i propri reggenti.
Chi detiene il potere punta un pugnale sul proprio cuore.
Dioniso Kalòn
Generato da Zeus e Semele, figlia di Cadmo e Armonia,
sorella di Ino, Autonoe e Agave. Si dice che quelle tra Cadmo e Armonia fossero
le prime nozze della storia e questa è già una maledizione, dal mio punto di
vista. Quando gli dei benedicono le istituzioni, è il momento per gli uomini di
tuffarsi nell’infelicità. Gli dei dell’Olimpo, che all’epoca tuttavia non hanno
ancora un monte sul quale abitare, partecipano in massa alla cerimonia portando
doni come la collana di Efesto donata da Afrodite alla sposa, in grado di assicurare
bellezza e giovinezza. Armonia la indossa e in breve si ritrova esule e
trasformata in serpente. Ino è la cara zia che mi accoglie alla morte di mia
madre, ma non posso dire che sia di animo buono chi tenta di uccidere i figli
di primo letto del marito: buttata giù da una scogliera e trasformata in
divinità marina da Afrodite, che è la mia bisnonna. Autonoe è madre di Atteone,
sbranato dai cani per volontà di Artemide che ha scorto nella sua nudità. Agave
sposa Echione, uno degli Sparti generati dai denti del drago. Ha un figlio,
Penteo, il mio nemico mitico, che uccide credendolo un leone. Di Penteo è
figlio Polidoro, dal quale discendono Labdaco, Laio e Edipo. E alla fine di
questa storia troviamo la cecità.
Non ci sono io dietro queste vicende incongrue di alternanze
di successi e disastri irrimediabili. Non io ho tracciato la strada che dal
serpente porta al leone, dal drago di Ares alla guerra dei Sette contro Tebe,
dall’unione infernale tra la guerra e l’amore (Ares e Afrodite) alle passioni
incontrollabili di madri che uccidono i figli, di figli che uccidono i padri,
di madri che giacciono con i figli e di fratelli che si uccidono tra di loro.
Io contemplo il disastro altrui combinato a mente
fredda: quanto pensiero dietro un omicidio impulsivo!
È la vita nel suo succo amaro, e proprio per questo
ho portato agli uomini il succo dell’uva. Non per ubriacarli e renderli dementi
o violenti; ma per ricordare loro che l’ebbrezza dei sensi è solo il primo
passo verso l’ebbrezza dell’anima. Essa non viene da sostanze inebrianti, ma
dalla gioia di immaginare, creare, condividere con la musica, la narrazione, il
teatro. E con il silenzio delle statue.
Le innumerevoli vicende delle narrazioni formano un
garbuglio che disorienta. Ai suoi enigmi ci si può avvicinare con passo
diverso. La precedenza va al mito, che nonostante gli sforzi benemeriti dei
filosofi sfugge ancora a una definizione unica e precisa. Le sue sorgenti sono complesse
e si trovano sia nelle steppe sia nei deserti, sulle rive sia dell’Indo sia del
Nilo, sui monti e sulle isole e tra le onde marine e oceaniche. Ciò che appare
chiaro è che ogni mito ha molte facce e molte bocche e solo al tempo è concesso
di eliminare e aggiungere, lasciandoci comunque sempre in una incertezza
feconda, che rende l’uno sorgente per altri. Il mito è materia senza forma come
l’acqua e se lo incanaliamo fa presto a rompere gli argini e travalicare le
sponde, formando nuovi rivoli. Ci sono miti che si gonfiano e formano laghi e
altri che inaridiscono e scompaiono nelle fessure del terreno; ma prima o poi
rispuntano.
Raccontare un mito è impresa ardua e la si risolve a
livello locale ospitando una sola versione, che viene adattata e
ufficializzata. E così le città producono miti tra loro simili eppure diversi.
E questo perché i linguaggi umani sono numerosi e diversi sono gli
atteggiamenti, i costumi, gli obiettivi; diversi nei luoghi e nei tempi.
La narrazione orale accoglie la versione locale del
mito e la diffonde non senza piccole e incessanti varianti, che di una storia
fanno mille storie. I primi racconti contano sulla voce severa di un anziano,
depositario della legge e della verità. Ma gli anziani muoiono e i giovani sono
impulsivi e intraprendenti. Amano suonare e cantare. Le parole del mito ora
sono ordinate secondo le misure, perché la musica spinge al canto e il canto
vuole il ritmo. Chi suona e canta segna il ritmo con il corpo: danza. La danza
nasce dai piccoli movimenti che fondono parola e musica e poi si trasmette agli
ascoltatori come un morbo benefico. Il racconto viene suonato, cantato e
danzato e i ballerini agitano fronde o mimano animali e si ha l’impressione che
tutto il mondo suoni, canti e danzi. Il mito è il racconto del mondo e il mondo
partecipa al proprio racconto.
Le parole non sono soffocate dalla musica e dalla
danza e infatti di esse si nutrono i filosofi che sposano i miti alle verità.
Il loro pensiero svela significati che uniscono la luce e le tenebre, l’abisso
e il cosmo. La mente ha bisogno di elaborare concetti e non si accontenta più
delle immagini. I concetti non sono storie. Nessuno sa bene che cosa siano, ma
tutti capiscono che possono delimitare le regioni sconfinate dei miti e rendere
più comprensibile ciò che era mistero.
Allo stesso tempo, dei miti si appropriano i
religiosi. Piegano i racconti al proprio mondo di dogmi, stabilendo verità spesso
diverse da quelle dei filosofi. Anche i politici partecipano alla gestione dei
miti, e li utilizzano per giustificare il potere. Più avanti, dei miti si
interessano i filologi; e poi gli psicanalisti, e gli scrittori, e i registi di
cinema e televisione e tanti altri… fra i quali gli operatori di teatro:
drammaturghi, registi, attori.
Dopo l’epoca felice della tragedia greca, più la
gente si è occupata dei miti più ha conficcato pugnali nelle loro parti vitali,
riducendone la motilità e la sanità mentale. Tuttavia, a volte agonizzanti,
essi sono rimasti vivi e ci sono tempi in cui la vitalità riemerge come se al
proprio interno si muovessero semi ancora in grado di germogliare.
Il teatro deve rinascere dal mito.
Ciò non significa che sulla scena si devono rappresentare
i racconti mitici o replicare le opere del trio tragico secondo i nuovi stilemi
drammaturgici e registici. Non basta. Il teatro che intende rifarsi al mito
deve scavalcare millenni di storia e tuffarsi nella verità del mito, di sicuro
irraggiungibile, ma anche dotata di tale energia da poterne cedere una parte.
Il mito nasce quando tutto, intorno e insieme
all’uomo, è vivente. Vivente l’uomo, e viventi l’onda, l’aquila, la nube, il
fulmine, il papavero, la roccia, il ruscello, il crepuscolo, la notte. Tutto
convive con l’uomo e dentro l’uomo, fornendogli significati e sogni. Non c’è
metafisica, tutto è qui e ora e tutto si ripete qui e ora e tutto prende
significato dal qui e ora.
Il cantore non narra del figlio di Agenore che un
tempo è partito alla ricerca di Europa rapita da Zeus. Egli narra di Cadmo qui
e ora, che segue la vacca, uccide il serpente, costruisce la Cadmea.
Il protagonista però non è Cadmo. Egli è solo uno
degli elementi che interagiscono per dare vita all’organismo della storia, e questi
elementi sono il mare, le colline, i denti del drago… Le parole costruiscono
l’organismo, la musica gli dà un’anima, la danza lo fa muovere. Il teatro non
riproduce, non imita la realtà, crea. Costruisce l’organismo scenico con
simboli e metafore, utilizzando oggetti e teli, luci e musiche, movimenti e
corpi non per gratificare il pubblico, ma per la gioia di dare unità e vita a
un mondo espressivo. Senza gerarchie. Un telo non può muoversi da solo, ha
bisogno dell’attore; ma l’attore diventa telo e insieme sono un organo della
scena vivente.
Il teatro, quindi, non utilizza, e soprattutto non
abusa del mito; ma lo ricrea nel suo slancio iniziale, come lettura di una
sinergia interpretativa che dà senso e piacere al mondo.
Alle origini del mito, che cosa troviamo? Uno
scrittore che inventa una storia? No. Un filosofo che elabora teorie
dell’universo? No. Un fanatico in vena di dogmi religiosi? No. Troviamo
singolari e inesplicabili sinergie tra fenomeni naturali, cronache locali, credenze
religiose, racconti di stranieri, dicerie, fantasie e trasposizioni artistiche.
Impossibile delimitare i settori e isolare i singoli elementi. Siamo nell’ambito
della teoria della complessità. L’insieme non è una somma, ma il risultato
magico di interazioni incontrollabili. Il risultato ha una potenza e un
dinamismo che solo nei secoli successivi vengono ridimensionati, quando il mito
entra a fare parte non più della vita ma della storia umana. Di esso si
impossessano teorici e operatori… e ognuno ne fa l’autopsia, studiando i
singoli organi di quello che ormai è un cadavere. Chi tenta di ridargli vita
non si rende nemmeno conto che attiva una nuova sinergia e il suo Frankenstein
non è più il mito originario, ma una nuova realtà vivente adattata ai tempi. Il
mito, nella purezza originaria, è perso per sempre. A che cosa ci può servire,
allora, in ambito teatrale?
Anzitutto, il mito attinge all’essenza dell’umanità.
Esso travalica tempi e luoghi e nella semplicità di linguaggio e
rappresentazione mette in scena l’uomo nella sua verità ultima, sondato nelle
dinamiche più profonde, illuminato dalle relazioni con l’ambiente naturale e
sociale, messo a confronto con il soprannaturale, messo non al centro
dell’universo, ma nell’occhio di un ciclone di leggi incomprensibili che regolano
il cosmo, alle quali è sottomesso pur avendole plasmate.
Quando l’uomo racconta queste prime storie ad altri
uomini, non si limita a un intrattenimento leggero e ottimistico, non cerca la
risata e l’applauso. Va dritto al punto e parla della morte, di come Dioniso
sia stato fatto a pezzi dai Titani e sia poi risorto. Narra delle beghe tra gli
dei simili a quelle tra gli umani, cause di disgrazie e rovine. Di hybris e di adikia, di aretè e di hamartia, di tiche e di
timè.
Il mito è una complessità che comprende le
metamorfosi naturali; le relazioni tra gli uomini, e tra gli uomini e gli dei;
le cronache che si fanno storia e portano alla fondazione di città, stati,
imperi; la condizione umana e il destino… C’è quindi un movimento, non sappiamo
se evoluzionistico, dal piccolo al grande, dal dettaglio al globale, dal terrestre
al cosmico, dal locale all’universale, dal corpo alla psiche, dall’impulso al
raziocinio, dal vegetale e animale all’uomo.
Ripeto: che cosa c’entra il mito con il teatro?
Nella sua prospettiva, si elimina la centralità
dell’attore o del regista, in nome della sinergia di tutti gli elementi che
concorrono alla messa in scena; si riconosce che l’esito finale è superiore
alla sommatoria delle parti; si impone l’obiettivo alto di trascendere
l’individuale per attingere a dimensioni universali; si determina l’eticità
dell’atto teatrale a doppia valenza: come esperienza attoriale di tipo
spirituale e come esposizione mediata di storie significative per la comunità;
si risolve il conflitto fra testo e performance con il testo nascosto, scritto
nella mente dell’attore: egli può così raccontare rimanendo in assoluto
silenzio, esprimendosi solo con i movimenti del corpo in reazione alla storia
che racconta a se stesso; si trasforma il palcoscenico in luogo rituale,
differenziato dalla realtà contigua, inattingibile da chi non svolge il rito;
si realizza una immedesimazione mediata nel personaggio, che non può invadere
l’interprete, gli si affianca e lo guida per concretizzare nella recitazione la
medesima sinergia tra gli elementi del sistema complesso.
Di fronte al mito, l’albero eccessivamente frondoso
del teatro viene potato; ne emerge così la struttura ramificata e con il
sacrificio si apportano nuove energie: maggiore flusso di linfa dal suolo e più
ricca vegetazione della chioma (prendere dalla terra per dare al cielo, togliere
al cielo per fertilizzare la terra, partire dall’esperienza per elaborare
strutture universali, feed back delle strutture universali sull’esperienza).
“La mitologia” scrive Luc Ferry ne Imparare a
vivere la saggezza dei miti “è anche e prima di tutto una filosofia ancora
in forma di racconto, un tentativo grandioso che mira a rispondere in maniera
laica alla questione della vita buona, dando lezioni di saggezza vive e
concrete, rivestite di letteratura, poesie ed epopee e non formulate con
argomentazioni astratte.” Il teatro come indagine non razionale sulla vita e
sul mondo, distinta da quelle scientifiche e filosofiche.
Jean-Pierre Vernant ripropone la contrapposizione tra
mithos e logos, ponendo il confine sulle istanze emozionali.
“Tutto ciò che dava alla parola la sua potenza
d’impatto, la sua efficacia sugli altri, si trova ormai svalutato al piano del
mithos, del favoloso, del meraviglioso, come se il discorso non potesse vincere
nell’ordine del vero e dell’intelligibile se non perdendo contemporaneamente
nell’ordine del piacevole, del commovente e del drammatico.”
La storia tuttavia ci insegna quanto spesso vi siano
punti di contatto tra le due dimensioni, mostrandoci quanto un racconto possa
risultare “scientifico” e quanto una teoria possa provocare emozioni. Le
modalità di pensiero per sogno e per logica s’incontrano nelle intuizioni che
appartengono a tutte e due e che possono poi essere elaborate in un modo o
nell’altro.
Il teatro che riparte dal mito non affoga quindi
nell’immaginazione slegata dalla realtà, ma espone in modo diverso dalla
relazione scientifica o religiosa pensieri sulla vita e sul mondo agganciati
all’esperienza, e che tuttavia non si esauriscono nell’esperienza del singolo,
ma si riverberano in modo universale.
Il mito non parla a una cultura, ma all’umanità; e
così fa il teatro.
Ma ora concentriamoci di nuovo sulla mia storia.
Semele, mia madre, viene visitata da Zeus. Una visita
veloce (solo con mio fratello Eracle si è fermato addirittura tre notti): Zeus
è una brezza di primavera, una ventata e il polline è disperso. La conquista è
facile, basta dire: sono Zeus, e qualunque umana depone le armi. Ma Semele è
tanto ingenua quanto curiosa. Ispirata da Era, famosa per i consigli che
portano al suicido o al massacro, chiede a Zeus con insistenza di mostrarsi nel
suo vero aspetto. La capisco. Chi mai non desidera contemplare il volto di dio?
E pensare che basterebbe fissare le nuvole.
Zeus, irresponsabile come al solito, l’accontenta; e
aprendo l’impermeabile la folgora con la propria maestosità. Io, già esistente
nel ventre materno poiché il seme divino è di effetto immediato, rischio di
trasformarmi in una manciata di carbone, ma mio padre non può lasciare che
succeda, dato che ha dei progetti (ne ha su tutti); e desidera anche fare un dispetto
a Era che vorrebbe morti tutti i suoi figli bastardi e i loro discendenti.
Ecco qua, per cominciare: gli dei seminano e mietono
senza sosta. Ma non senza nobilitare gli amplessi disonesti e le meschine beghe
familiari: tutto diventa morale e poi istituzione. Spesso, però, manca l’etica.
Un incipit emozionante: le attenzioni appassionate di
un dio per una mortale, la gelosia della moglie, il cinismo o l’irascibilità (a
seconda delle versioni) del dio che si mostra nudo come una folata di napalm e
infine l’orrendo divampare delle fiamme: che fine farà il bambino?
Ci sono simboli di vita e di morte, il fuoco divino
che feconda e distrugge; l’impossibilità di un rapporto paritario tra l’essere
umano e la divinità; e ci sono le dinamiche terrene degli animi divini: un dio
che abusa degli umani e tradisce il vincolo matrimoniale e una dea possessiva
che fa scempio delle amanti o dei loro figli usando i mezzi più perfidi. Grande
teatro! Passione e morte, carnalità e cenere, i grandi piani divini attuati con
i mezzucci della seduzione, la vampata soprannaturale, il triangolo composto da
un prepotente, un’ingenua e una vipera… Ma il teatro è più che spettacolo. Da
questo racconto possiamo imboccare strade diverse: la fiducia tradita di
Semele, e allo stesso tempo la sua sconsideratezza nel ritenere possibile che
una donna possa dare alla luce il figlio di dio; e la fine a cui sono destinati
coloro che delirano su un rapporto a tu per tu con la divinità: bruciare tra le
fiamme (e questo è l’inferno, l’abbraccio di dio); un’altra strada è quella che
ci porta nel mondo assurdo gestito dalle divinità, dove una crea e l’altra
distrugge; e dove gli uomini patiscono proprio perché s’inventano divinità
simili. In ogni caso, abbiamo sulla scena espressioni mal conciliabili di
esistenza (umana e divina), poste su piani diversi; dinamiche di caratteri;
simboli universali (l’estasi senza vaticinio, che annienta); colori vivaci,
luci abbaglianti e suoni terrificanti; ritmi vari, dal gocciolio della
seduzione all’affanno dell’amplesso, dal sibilo dell’istigazione al
tamburellare frenetico del divampare delle fiamme, un’anteprima di orgia
bacchica in cui mani di fuoco smembrano mia madre.
Abbiamo, con tali considerazioni, anche affrontato il
dibattito fra teatro naturalista e teatro simbolico. Abbiamo progettato una
messa in scena che riproduce una realtà sociale, solo che non è quella
strettamente umana, ma comprende anche gli dei; e non è sempre pervasa di
religione ogni società? Ma il lavoro non si limita certo a una cronaca. Sulla
scena ci sono fatti significativi, e simboli e spunti sensoriali e semantici
che inducono ad allargare il discorso e a esprimersi su questioni universali.
Per realizzare un simile allestimento, non bastano le fotografie.
L’immaginazione esplora e ciò che scopre manda a gambe all’aria il naturalismo.
A partire da Aristotele il naturalismo ha pervertito l’arte e il teatro. Esso è
stato associato a bellezza, verità, misura, giustizia. La natura è bella? Sì,
ma ne va accettato anche il brutto e l’orrido: un corpo in decomposizione, un
atto predatorio, uno tsunami… La natura è vera? Bisogna domandarsi: quale
natura? Quella che è davvero se stessa o quella che vi inventate con la
scienza, la filosofia, le arti? Voi non
avete ancora idea di che cosa sia la natura. La natura è equilibrio, perfezione
delle proporzioni, simmetria? In un sistema complesso, ognuna di queste
asserzioni richiede il proprio contrario. Se la vita ha bisogno della morte,
come può un canone estetico fare a meno del caos? Se c’è una legge, esiste
anche la sua infrazione. La natura è giusta? Non esiste il concetto di
giustizia, ma solo quello di necessità. Ciò che deve essere fatto va fatto, al
di fuori dell’etica, ma nell’ambito di un’etica più ampia, che comprende il
cinismo. La vita non pesa se stessa sui piatti di una bilancia.
Vedete che in una simile prospettiva il teatro come
rivelazione, peste che risana, conflitto fecondo, rivoluzione, educazione,
riasserzione di valori, modellatore di società… pone se stesso nel campo delle
illusioni morali, arrogandosi una potenza redentrice che chiude gli occhi
sull’immutabilità tragica del cosmo.
In alto lo sguardo, uomini, ma non ai vari Olimpi,
bensì al cosmo!
Torniamo alla mia biografia.
Zeus svelto svelto preleva il corpicino arrossato dal
rogo che devasta mia madre tra le urla delle serve e delle sorelle. Il palazzo
è in subbuglio, la verità accettabile è presto trovata: il delinquente vigliacco
che ha avuto una tresca con Semele ha trovato il modo più brutale per disfarsi
di lei e del bambino; oppure, altra versione, Semele si è suicidata per il
disonore. Nessuno, in famiglia, crede alle sue confidenze. Fino a poco prima ha
ripetuto che Zeus l’ha scelta per mettere al mondo un eroe. Le sorelle,
soprattutto, non possono accettare che Zeus possa avere scelto lei e non una di
loro. Un’operazione, quindi, contraria a quello che avviene di solito:
l’intervento divino non viene inventato per dare spiegazione a un fatto
incomprensibile, ma è negato per rendere comprensibile un fatto straordinario.
In un caso o nell’altro, la mistificazione è di casa, nella dimensione
religiosa.
Semele viene sepolta in fretta e furia con lacrime
finte e silenzi imbarazzati, e con lei si seppellisce lo scandalo. Una piccola
statua di Era (di Era!) viene lasciata sulla sua tomba, e per fortuna le statue
non parlano, altrimenti la si sarebbe sentita cantare un inno di trionfo. Anche
qui, quanti spunti per una scena teatrale! L’orrore del corpo in fiamme, il
caos nel palazzo, l’abbaglio di un incendio che fa piazza pulita di una
credente estatica… Ma quale teatro? Il teatro è per gli uomini, non per gli
dei. Non vuole allestimenti sontuosi, non ha bisogno di sforzi olimpici, solo
di teli e strumenti musicali, semplici manufatti di legno e qualche faro. La
grandiosità del mito con la povertà significativa dei mezzi che usa la
fantasia.
Il cosmo è vario, non sontuoso.
Ma io che fine ho fatto?
Io sto bene grazie a Gea che mi ha foderato di edera.
E grazie alla prontezza di Ermes che mi strappa dal ventre in fiamme e mi cuce
all’interno della coscia di Zeus, al riparo dagli sguardi indiscreti. La
gestazione è breve (Zeus ha troppi impegni, soprattutto amorosi, per perdere
tempo con una gravidanza) e quando nasco Ermes mi affida alle cure della zia Ino.
La poveretta è gelosa dei figli di primo letto del marito e tenta di ucciderli,
senza riuscirci. Le sue vere disgrazie vengono da Era, che perseguita anche me come
fa con Eracle, implacabile e crudele. Furibonda perché mi ospita, fa impazzire
(la sua specialità) Atamante che uccide uno dei figli avuti da Ino e getta
l’altro in mare. Afrodite interviene di nuovo e trasforma lui e la madre in
divinità marine.
E io? Era progetta di darmi in pasto ai Titani. Mi
attirano con i giochi che nei secoli saranno oggetto di interpretazioni e dei
quali posso dire con certezza che mi legano al teatro. Non che l’abbiano voluto
i Titani, che di queste cose non capiscono niente (i Titani sono i grandi della
storia, ai quali si dedicano monumenti, condannati al Tartaro perché di guai ne
hanno combinati abbastanza), ma perché l’ho voluto io, il nato tre volte, come
si capirà più avanti.
Abbandonato nel palazzo silenzioso (tutti in riva al
mare a contemplare attoniti cadaveri e… sparizioni), m’impossesso dello
specchio della zia e come tutti i pargoli gioco con la mia immagine. Non è
quello che fanno gli attori e i registi? Per non parlare dei ballerini e dei
cantanti. Tutti trascorrono buona parte della vita davanti a uno specchio reale
o ideale e studiano i mutamenti minimi del volto, angosciati dalla decadenza
fisica. Tutti trovano gratificazione nel contemplare i volti espressivi e la
languida determinazione dello sguardo. Potrebbero completare l’attività con una
sana masturbazione. Che cosa cercano, al di là del volto riflesso? Spero che
qualcosa cerchino. Il viso è destinato a infiacchirsi, corrugarsi, ingrigirsi.
Sono in grado di tollerarlo? Di volta in volta s’illudono di una nuova forza e
una nuova bellezza, quella relativa all’età che impreziosiscono con le
conoscenze e la professionalità acquisite; in alcuni casi anche con la
profondità di pensiero. Ma sono inganni per zittire l’angoscia della morte.
Quanto è misera la saggezza al servizio di uno solo!
Mi guardo nello specchio e vedo il mondo.
Il mondo è nella dimensione simmetrica della mente,
essa contempla se stessa e vede il mondo, il mondo dei sogni che è lo specchio
di quello reale, ogni specchio è deformante, ma contiene la verità. Vedo il
mondo intorno a me, dietro di me, mi vedo immerso nel mondo, ma usando lo
sguardo dell’immagine riflessa il mondo è davanti a me, a una distanza di
sicurezza. Posso tuffarmi nel mondo, e questa è la vita; e posso anche
osservare il mondo fuori di me, dallo specchio, e questa è la riflessione della
vita. Il mondo lo vedo e lo creo. Lo rappresento. Grazie allo specchio. Il
teatro sono io allo specchio. Ma io nello specchio sono il mondo presente,
passato e futuro.
Chi si guarda allo specchio e vede solo se stesso fa
un teatro misero, di ambizioni e obiettivi limitati, di spettacolo e
intrattenimento, di vita sociale e non totale, di chiacchiere e non vaticini.
Guardarsi come mondo nello specchio dà ebbrezza. Dà
ebbrezza e rapisce in mondi inesplorati ed esplorabili.
Distratto dall’Io cosmico, sono colto di sorpresa dai
Titani.
I Titani non provano ebbrezza, non sono il mondo di
cui abusano, non dedicano la vita all’arte, ma all’Io territoriale e alla
sopraffazione.
Per loro annientare uno come me è uno scherzo di cui
godono come iene.
Non li sento arrivare, non li vedo. Con strilli di
gioia accolgo i giocattoli. Ne avevo proprio bisogno, per il mio teatro. Ho
intenzione di recitare davanti allo specchio: lo sguardo riflesso mi vede e io
vedo me che faccio teatro, e il teatro dentro lo specchio mi guarda, e tutto è
luce, e nella luce mi sento come cuore pulsante, sento la mia voce, i rumori si
trasformano in musica, con lo specchio in mano mi sposto per la gioia di altre
immagini riflesse, in continua metamorfosi, e per la gioia mia; tanto che
faccio ondeggiare lo specchio stretto in mano e il mondo ondeggia, imbarcato su
una nave che di isola in isola attraversa gli oceani; e così recitando,
cantando e ballando faccio teatro per me stesso. Penso: voglio giocare al
teatro. Ecco, sono di nuovo il bambino abbandonato nel palazzo silenzioso. I
Titani portano altri giochi: gli astragali, la palla, la pigna, i frutti d’oro,
il rombo, il vello, la bambola pieghevole. Con quale giocare per primo? Li
allineo davanti a me, poi volto loro le spalle e li osservo nello specchio. Ora
il primo è l’ultimo e l’ultimo è il primo. Non è possibile una gerarchia,
dentro lo specchio ogni ordine si ribalta e questo avviene anche quando il mio
tiaso attraversa un villaggio: il capo perde il potere, le donne lasciano i
telai, i bambini capiscono più degli adulti, i guerrieri vengono disarmati, i
sacerdoti derisi.
Tiro i dadi. Gli astragali mi danno numeri a caso,
vaticini che annegano nel tempo che tutto sommerge: l’imprevedibile è la mia casa.
Non penso al domani, non giuro sulla mia arte, ciò che mi sembra bello oggi
diventa un obbrobrio domani; si farà lo spettacolo? Non si sa. Piove, manca un
attore, non c’è corrente elettrica, la sala è vuota, il teatro crolla, il mondo
sprofonda nella propria hybris. Si fa quello che si può, nel breve intervallo
di vita, si fa senza pensare alla morte, che è solo la fine della vita, niente
di più, e ci aiuta a rendere prezioso il tempo tanto disprezzato. Ecco, sono
vivo. Tiro i dadi e ora sono morto. Io, Dioniso, il tre volte morto, nel ventre
di Semele, nella pentola dei Titani e nell’Ade, dove sono sceso per riprendermi
mia madre.
Mi serve per dire a Zeus: prima che divino, sono
umano; e così è il mio teatro.
Chi ha paura della morte? Solo chi vive. E chi vive
muore cento volte. Solo chi vive senza vivere può dire alla morte: in me non
trovi niente da rubare.
In questo tempo di vita che corre verso la morte, in
cui l’irreparabile dipende solo da una combinazione di ossicini, tessiamo il
sudario con il prezioso vello d’oro, che utilizziamo anche per maschere e
costumi di scena. Diversi dai vostri. Voi vi mascherate per appropriarvi di
piccoli spazi di arbitrio, per rendere possibile e tollerabile la convivenza,
per portare acqua al vostro mulino, per soggiogare gli altri, per diffondere la
lieta novella, per apparire senza essere, per avere senza dare, per dominare e
uccidere nella legalità, per asservire con i libri sacri. Maschere sono le
parole, gli onori, il potere. Mascherati e paludati, diventate la maschera che
indossate e dietro la quale non resta più nulla. La vita è un teatro tragico e
non sapete farne la regia. Tutto vi sfugge, i monumenti a voi stessi si
sgretolano, perfino il ricordo sbiadisce e quello che ne rimane è solo
invenzione. Lo spettacolo del vostro tempo di vita è fasullo, come le
interpretazioni degli attori che fanno meraviglie con il corpo e lasciano
affamata l’anima.
Sono io la maschera vivente.
Ma non una di quelle che usate sul volto per imitare
l’effetto della mia, di sospensione metafisica, di portale, soglia verso
l’indefinito. La mia maschera è l’idea di un volto senza corpo, gli occhi
vuoti, vuota dietro gli occhi. Essa è uno sguardo senza pupilla, che fissa
tutto e oltre. Nessuno può indossarla, ma ognuno può cercarla sul proprio viso;
tutti ne avete una, occhi su tutto e oltre; e un vuoto fecondo nella mente.
Siete abituati a intendere la maschera come ciò che
nasconde e trasforma, la giudicate dal punto di vista di chi vi osserva e vi
vede mascherati. Cambiate prospettiva. Definite la maschera da ciò che sta
dietro ed essa diventa una modalità di osservazione del mondo. Tra voi e il
mondo ora c’è la maschera e non importa più che cosa rappresenta: tutte le
maschere sono uguali, una finzione. Ora importa che tra voi e il mondo c’è una
cesura, come tra il palcoscenico e la platea. Tra gli attori e il pubblico c’è
un portale che solo alcuni attori, quelli qualificati, possono oltrepassare.
Ora che indossate la maschera non si pone più nemmeno il problema del pubblico.
Non portate la maschera per farvi guardare, ma per guardare. La maschera sono
io e vi dono occhi nuovi. Vedete, ora? Avete il mondo sulla scena e potete
osservarlo senza paura. Ma lo vedete solo voi perché lo vivete. Il pubblico non
ne sa niente, se non di riflesso, se non come la spia che scorge e ascolta e
invidia, perché scorge e ascolta la vita e non può partecipare al tiaso. Ci
pensano i vostri compagni attori a raccontare e spiegare, quelli che sono
preparati per mescolarsi alla gente, una presenza straordinaria e generosa.
Essi sono il raccordo tra la vita e la morte e la vita siete voi sul
palcoscenico e la morte è seduta in platea, è il pubblico. Gli spettatori
assistono a uno spettacolo doppio, perché io sono l’ambiguo, il doppio. Sono
anche il triplo: un attore per la storia, un attore per il coro, un attore per
la connessione, l’interfaccia.
Gli spettatori vedono l’eden, nel quale non manca la
tragedia, che anzi lo intesse nelle sue fibre più profonde; e ascoltano le voci
apollinee dei narratori.
Essi, l’interfaccia, possono perfino decidere di
escludere il pubblico staccando il collegamento tra il centro e la periferia;
servendo, per esempio, cibo e bevande; creando disturbo in modo che la scena
risulti una conquista e non una passività di emozioni passeggere. Il loro
disturbo è una punizione, certo, ma non è anche lo specchio della vita
quotidiana che crea un disturbo continuo, pervicace e manovrato contro la
presenza artistica individuale?
Io sono nella bolla, Apollo si mescola ai narratori.
Io sono sul palcoscenico, Apollo è in sala. E questo
è il mio teatro.
Ecco la pigna.
L’ho posta sul tirso insieme all’edera per dare le
vertigini al bastone, rigido e lineare, sostegno e arma. L’edera lo rinforza e
lo trattiene, la pigna diventa trottola e gli impedisce di conficcarsi al
suolo, facendolo vorticare in giro per il mondo.
La pigna è un labirinto di semi. La vostra vita è un
labirinto. Vi fate prendere dall’ansia per trovare una via d’uscita e vi
affannate per niente: ogni uscita porta ad altri labirinti. Vi illudete di
riuscire a disegnarne la pianta. Guardate in alto e nello spicchio di cielo credete
di vedere scale d’oro che scendono per farvi salire. Impazzite e sbattete la
testa contro i muri. Non fate che correre fino a cadere stremati, il cuore
scoppiato. Incolpate chiunque incontrate, e lo uccidete. Cercate un angolo
appartato e vi accasciate lì, nel vostro letame.
Ma se vivete il labirinto con la gioia delle scoperte
quotidiane, l’ansia non ruggisce più, l’avete addomesticata. Il labirinto c’è
come gioco e come esplorazione. Trasformate in musica e parola i suoi meandri.
Cantate insieme agli altri, se ne avete voglia. Oppure state in silenzio, a
seconda delle vostre predisposizioni. Nel tiaso dentro il labirinto non ce n’è
uno uguale all’altro, e ognuno recita a modo proprio.
La pigna è un labirinto che gira vorticoso, una
trottola labirintica.
Se i suoi semi perdessero l’aderenza, schizzerebbero
via; ma, trattenuti dalla forza centripeta, si metterebbero a girare intorno
all’origine: ecco il cosmo. Un labirinto senza fine.
Se legate la pigna a una corda e la fate roteare, ne
sentite la voce.
Le menadi usano il rombo per ascoltare le seduzioni
della mia voce: ora muggisce, poi sibila, e strilla, e arroventa, e bisbiglia o
soffia e fischia come un vento di primavera.
Se la pigna fosse elastica, la fareste saltellare
come una palla. Basta trasformarla. Ecco, la pigna è una palla. Tutto è, e allo
stesso tempo tutto si trasforma. Salti bassi, salti alti, rimbalzi sul muro,
rimbalzi lenti e veloci: il ritmo. La palla collega la terra al cielo. L’utopia
di un rimbalzo potente la porta oltre le nubi e diventa un pianeta. Continua a
ruotare e a roteare, ma con un ritmo diverso. Ecco che cosa fa la palla: indica
alla pigna e al rombo la via dei cieli. Ma quando giunge al culmine, torna giù,
saltella al suolo e si ferma. Il cosmo è dentro di noi e l’esplorazione
stellare non porta a nulla se prima non si esplorano gli abissi del cuore
umano.
La palla ci insegna che niente deve rimanere legato
alla terra, tutto assume un ritmo e rimbalza verso la metafisica. Anche il
teatro. Non c’è teatro che possa narrare la realtà come se fosse tutta
racchiusa nel quotidiano, nel qui e ora, nella cronaca individuale, nella
cronaca sociale e nella psicologia; se lo fa, è spettacolo.
Il teatro che non è teatro si chiama spettacolo.
Tutto quello che si fonda sull’attore, sul
drammaturgo, sul regista e non rimbalza verso la metafisica, ma soprattutto
l’etica… perché questa metafisica che tutti invocano, questa spiritualità… chi
mai l’ha definita?... sottolineiamo allora la “ricerca” di una metafisica, per
quanto confusa e inconcludente… ebbene, tutto quello è spettacolo.
Potete fare spettacolo, è un’attività dignitosa e
utile. Ma se volete fare il mio teatro, smettetela di dannarvi per le recensioni,
per le repliche, per i biglietti venduti, per i premi e per i funerali di
stato. Morite con dignità, soli e ignoti, fatti a pezzi in uno sparagmòs
ingiusto, se volete entrare nel mio teatro.
Non hanno fatto a pezzi anche me? Non mi hanno
ignorato nelle città del potere e del lusso?
Quando salite sul mio palcoscenico, vi imbarcate per
un altro mondo. Non siete più il vostro nome, siete menadi, baccanti. Obbedite
alle mie leggi che sono contenute in una sola: Kalòn. Mirate al buono, all’armonia,
al tutto. Mirate al bene, all’accettazione della complessità crudele e
contraddittoria del mondo.
La bambola snodabile è quindi l’attore? Certo, si
piega a comando, assume ogni posa, si muove come una melodia. Ma l’attore non è
solo una bambola. L’attore è tutto ciò che ha intorno: i compagni del tiaso e
tutti gli elementi del paesaggio. L’attore è significativo quando egli è
presente come tale in una complessità, per cui la sua individualità è definita
dal contesto e dalle relazioni. Il contesto non è solo quello drammaturgico, ma
quello sociale e cosmico. Le relazioni non si stabiliscono solo con il
personaggio e i partner (e gli altri personaggi), ma con tutto ciò che
definisce la scena: luci, musiche, oggetti, scenografie. Una relazione particolare
è quella con il pubblico, che viene negata e recuperata come negazione.
Se l’attore non è tutto ciò, rimane davvero una
bambola articolata senza anima.
Gli vengono quindi negati i frutti d’oro, gli acini
dell’uva, il succo della vite. Gli viene negata l’ebbrezza del tiaso, che è
comunione con il mondo. Egli rimane l’adoratore di se stesso e la complessità
della vita gli sfugge.
Nemmeno le mie baccanti la comprendono, ma per brevi
squarci di tempo possono viverla.
Ecco il mio teatro: vivere la complessità del mondo,
essere vissuti dal cosmo, rientrare nella vita universale dalla quale ci si è
esiliati, utilizzare i giochi con un senso di ebbrezza che porta pace e bene,
pur nell’orrore. Il respiro si fa corto. E anche questo è teatro. Sentirsi
sospesi sul vuoto, elaborare vertigini invece di pensieri, cercare senza alcuna
fede nell’esito della ricerca, credere nell’impossibilità della fede, piegarsi
al vento dell’assurdo umano o delle follie naturali e raddrizzarsi per breve
tempo negli sprazzi di serenità. Tutto questo volerlo raccontare, trasformando
le parole in movimenti e suoni.
Fratelli dei Ciclopi e dei Centimani, i Titani sono
figli di Urano e Gea, del cielo e della terra. Essi sono l’energia caotica del
mondo, la sua complessità disordinata, quella che quando fate teatro ingabbiate
nella sfera di cristallo del palcoscenico lottando per darle forma e quiete.
Urano si sente minacciato dai figli più orrendi e
selvaggi e rinchiude Ciclopi e Centimani per poterli controllare. Il suo è il
primo atto di filosofia (il discernimento) e di governo (il controllo).
Non è d’accordo Gea, per la quale tutto ciò che è
vivente ha medesimi diritti e dignità. Perfino le creature più mostruose. Sono
nate da lei, come le si può definire mostruose? Gea è la mia prima baccante.
Materna e terribile.
La sua è la prima forma di opposizione a uno status
quo. La prima dialettica si sviluppa tuttavia non secondo lo schema
tesi-antitesi-sintesi, dato che la contrapposizione è espressa dalla stessa
tesi, della quale Gea fa parte e dalla quale non può uscire, con il rischio che
il mondo tracolli. Ella istiga i figli contro il padre, in nome dell’integrità
familiare che Urano ha infranto. Solo uno risponde all’appello: Crono, il
tempo. Evira Urano e prende il potere. Ma per tenerselo deve diventare
paranoico. Urano e Gea s’inventano il consueto oracolo che uno dei figli lo
avrebbe spodestato. Il significato è semplice: lo scorrere del tempo porta a
cambiamenti, a uccidere ciò che è il prima per fare spazio al dopo. Unendosi
alla sorella Rea, Crono dà infatti inizio alla generazione olimpica, ma ciò che
nasce muore, e lui divora i figli uno dopo l’altro. Solo Zeus sopravvive alla
furia paterna. C’è sempre un’eccezione, una diversità, un a scappatoia, un
cambiamento. Crono è esiliato, nascosto alla vista, odiato da tutti. Nessuno
accetta che il trascorrere del tempo conduca a velocità folle verso la morte.
Mio padre Zeus regna su una famiglia conflittuale e discorde, incoerente e
tremenda, appassionata e sanguinaria, priva di moderazione fino alla follia.
Io ne sono il rappresentante più significativo e
sincero, perché non nego la realtà.
Da una parte i Titani, dall’altra i nuovi figli,
quelli che regnano sul mondo. I Titani, incapaci di darsi regole, di
condividere e accettare, di integrarsi e collaborare, essendo violenti dichiarano
guerra, la perdono e sono sprofondati nel Tartaro; anzi, sotto il Tartaro,
nelle viscere maleodoranti e inquiete della terra, là dove nascono i terremoti
e le eruzioni vulcaniche. Essi se ne stanno in attesa di una liberazione che
porterebbe alla fine del mondo; e nel frattempo fanno sentire la voce
spaventosa, con le guerre e l’inquinamento, con le rovine economiche e le
epidemie.
Ma prima di assalire l’Olimpo, tentano di uccidere
l’ultimo nato, un uomo-bestia-dio tanto più temibile rispetto ai fratelli
perché non rifiuta i Titani, li accetta come parte non eliminabile della vita.
I Titani non vogliono accordi, vogliono il potere assoluto.
Mi sorprendono allo specchio, ne scorgo per un attimo
i volti imbiancati. Mi vogliono straziare con i pugnali grandi come falci. Mi
trasformo in leone, in serpente e in toro, ma loro sono più veloci e più forti.
Mi fanno a pezzi, li mettono a bollire, li arrostiscono e li mangiano. Apollo
riesce a impossessarsi del cuore e lo porta a Delfi, offrendolo a Zeus. Mio
padre mi restituisce l’integrità e per la seconda volta sono morto e ritorno alla
vita. La prima volta mi sono avvicinato alla dissoluzione con il fuoco, ed è
l’energia nucleare delle stelle; la seconda sono stato suddiviso, dissociato,
riportato al disordine titanico della vita in evoluzione, ed è la dispersione
dei frammenti dell’esplosione e il compattamento in strutture che si riuniscono
per formare un organismo.
Io muoio e non mi curo della morte.
Tutto questo è tragedia, lo so. Ogni giorno sul
pianeta esistenze vengono dissolte e disintegrate, ideali bruciati, anime
libere incatenate, città fatte a pezzi, comunità disgregate, società
sottomesse, popolazioni sfruttate. Tutto questo è tragedia perché è vita. Non si
può sfuggire né all’una né all’altra.
Tutto questo è teatro. Tutto questo è Kalòn.
Kalòn è ciò che concilia Dioniso e Apollo, fratelli
diversi, come poli opposti che si attraggono e si respingono allo stesso tempo.
Io sono Kalòn e se lo sono devo ammettere che anche Apollo lo è, per quanto la
sua insensibile tirannia mi disgusti.
Kalòn risolve la complessità con l’equazione
dell’espressività.
Kalòn è il bello individuale, la meraviglia del
singolo elemento, l’apoteosi del principium individuationis ma senza alcuna
chiusura egotica, senza narcisismo, senza competizione: un bello aperto,
solidale, intelligente, generoso, tollerante, amoroso. D’altra parte, Kalòn è
l’idea che unifica, è la comunità organizzata, è l’istituzione e la società, è
lo stato, è la religione, è la regola.
Kalòn contro Kalòn, ma senza vittime.
Quando invito le baccanti a lasciare la città e i
suoi doveri, le restrizioni che imprigionano, gli obblighi che soffocano… e a
correre sul monte, nei boschi, tra gli animali… io non lo faccio in dispregio
di Apollo, e lui lo sa.
Sa che senza la mia follia la sua compostezza
autoritaria si ridurrebbe a sabbia del deserto, perché la città è confusione e
distruzione, non solo progresso. Progresso verso che cosa? All’inizio del tutto
c’era già tutto, bastava vederlo. I cittadini sono ciechi.
E quando Apollo riporta le donne nelle famiglie, non
lo fa per ferirmi. Sa che senza una casa, una legge, una stabilità le baccanti
si trasformerebbero in brutte copie delle serpi e dei lupi. Se il mio Kalòn è
folle, il suo è imperfetto, e anche questo sappiamo entrambi. La civiltà che
egli ha imposto, lui il fondatore di città, lui il colonizzatore, è portatrice
di epidemie e guerre. Il coltello sacrificale di Apollo non brilla mai, è
sempre incrostato di sangue. La mia barbarie lo perfeziona, la sua civiltà mi
dà forma; e si vengono a scoprire le pazzie della civiltà e la saggezza della
barbarie.
E io? Sono talmente pieno di energia che se non mi
esprimessi nella danza, nel canto, nel teatro… e se non accettassi i limiti…
imploderei, bruciato non da Zeus, ma da me stesso; divorato non dai Titani, ma
da me stesso. La follia è un dono, ma va tenuta al guinzaglio, altrimenti è
devastante.
Come danzare insieme senza figure codificate? Come
cantare senza note? Come fare teatro senza moderare la follia creatrice
abbassando il capo di fronte alla gloria del testo, dello spazio e del ritmo?
Da solo mi perdo. Da solo, Apollo perde l’umanità.
Insieme abbiamo uno sguardo alto, che vede dall’alto, che porta in alto.
Ecco il mio teatro, il teatro Kalòn.
Un teatro che riflette l’Armonia cosmica e la sua disarmonia tragica, perché nuove stelle si
formano e altre scompaiono, i mondi nascono e muoiono come gli uomini, e questo
può essere capito, ma dà dolore. Riflette la Simmetria come misura appropriata,
rete di relazioni tra gli interpreti, gli spazi, gli oggetti, le luci, le
parole, al di fuori di ogni gerarchia, poiché tutto concorre a formare un
quadro di stabilità in opposizione al caos; e allo stesso tempo riflette le
discordanze e le incoerenze, senza le quali la simmetria non avrebbe rilievo;
da una parte l’ordine, dall’altro l’assurdo di un caos sempre incombente, ma
stimolante e fecondo.
Riflette l’Euritmia, il ritmo esatto e dalle
corrette proporzioni tra le componenti della scena, tra la musica e gli
interpreti, tra le parole, in modo che la simmetria si nobiliti con il
movimento e l’armonia sia un fluire nel tempo; ma anche l’interruzione brusca,
il silenzio annientante, la staticità devitalizzata; e pure la cacofonia di
cose e suoni e parole, perché così avviene nel cosmo e nella vita, che ciò che
si rallegra nella concordia viene di colpo spezzato o degradato, e la scena è
invasa da conflitti, malattie, disgrazie, lutti, disastri e incubi.
Kalos kai agathòs non è uno slogan turistico né
una citazione dotta. È una battaglia infinita tra l’individuo e la società, tra
l’intuizione e il concetto, tra il Kalòn e l’estetica. Senza il conflitto
sociale affonderemmo in una palude di prevaricazione, disuguaglianza e
violenza. Vi auguro che il teatro diventi conflitto estetico, non abbia come
obiettivo primario di piacere al pubblico, ma di fornire all’attore un luogo
incorrotto di azione, dove operare una fuga dalla città al monte, e poi il
ritorno alla città dal monte; in modo da realizzare nella complessità drammaturgica
il contesto e le relazioni che rendono autentica, utile ed emozionante la
storia.
L’attore nella sua complessità umana, fatta di
corpo e di mente. Il cuore è una interrelazione. A lungo il teatro è stato solo
parola. L’interprete una voce e un gesto, niente di più. Ma poi il teatro si è
fatto solo corpo. Un corpo esibito, meccanico, spogliato, musicato, straziato,
utilizzato come un materiale muto in grado comunque di provocare emozioni. A me
non interessa l’emozione del momento, soprattutto quella che nasce dalla
provocazione e dallo scandalo. La libertà personale non è frutto solo di un
trauma emotivo. Il corpo dell’attore vi ha insegnato moltissimo, ed è lo stesso
che ho dato alle mie Baccanti: un corpo libero che nella propria libertà
ritrova la sensualità e lo strazio. Ma che cosa è senza una storia?
Vi auguro che il teatro sia di corpi pensanti e
affettivi, che non sfruttino se stessi per sconvolgere il pubblico, che non lo
divertano senza alcuna relazione con lo stare al mondo, che non si facciano
influenzare dagli accidenti del successo e della moda, che non perseguano il
narcisismo dell’applauso, che anzi non tengano conto del pubblico, che vivano
una scena dionisiaco-apollinea per riconciliare il sé con l’io e il mondo, in
una unità coerente e benefica espressa da un racconto.
Per tutto questo andiamo a indagare il teatro
Kalòn come un sistema complesso di relazioni estetiche performanti in un
contesto etico.
A seguire:
IL PUBBLICO NEGATO
IL LUOGO CHIUSO
LA PAROLA PERFORMANTE
LA MUSICA ANIMANTE
LA DANZA DEL TEMPO
LA VOCE CANTATA
L’ATTORE CONTRO IL PERSONAGGIO
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facebook: aquilino.di.oleggio
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