Alcune considerazioni relative alla messa in scena di “La Medea” come
conclusione del corso di teatro con ragazzi dai 10 ai 12 anni dell’I.C. Verjus
di Oleggio, prevista per aprile 2017.
Di solito, il luogo deputato per la rappresentazione è il teatro
civico da quasi quattrocento posti, con un ampio palcoscenico attrezzato.
Probabilmente ci andremo anche quest’anno, ma l’intento è di un prodotto
proponibile in qualunque spazio e situazione. Risulta pertanto utile l’abolizione
della disposizione unidirezionale dell’attore che si ritrova il pubblico
davanti nella classica scatola teatrale a tre pareti. La rappresentazione
supporta il pubblico in qualunque dislocazione: frontale, laterale, circolare.
La scelta scaturisce dalla rescissione parziale del rapporto
attore-pubblico. L’interpretazione avviene infatti su due livelli: un gruppo si
relaziona con il pubblico in modo diretto e coinvolgente; l’altro lo ignora del
tutto, in una performance a proprio uso e consumo.
I personaggi sono: tre mediatori, Medea, Giasone, Nutrice, Creonte,
Glauce, Mermero e Fereto (i figli di Medea), Coro dei cittadini. I mediatori
hanno il compito, come già nelle Baccanti dell’anno scorso, di facilitare la
comprensione, stimolando soprattutto un rapporto critico non offuscato
dall’empatia e dalla partecipazione emotiva. Essi hanno quindi una funzione
epica e il rapporto con il pubblico è quasi da avanspettacolo. Proprio per
questo essi si trovano all’esterno della scena vera e propria. Assistono alla
rappresentazione come cloni degli spettatori e non possono interferire con gli
attori veri e propri. Sono, in effetti, tre spettatori fatti accomodare sul
palcoscenico. A differenza dello spettatore in platea, sono attivi e
propositivi, esprimono in diretta giudizi e perplessità, fanno spettacolo pur
rimanendone fuori.
Sono un esempio di cultura, motivazione, curiosità, rapporto positivo
con l’immaginario. Essi sono vivi e ritraggono lo spettatore ideale, quello che
ha motivazioni e interessi, che rispetta i tempi e l’eticità, che sceglie in
modo personale e oculato, che ha cultura e idee personali, che sa apprezzare e
gratificare.
Non possiamo dire altrettanto con i personaggi della tragedia.
Sono figure mitiche, non inseribili nei libri di storia, quindi
personaggi fin dall’inizio, non di una tragedia d’autore, ma di un racconto
popolare anonimo. Non soggetti alle regole spietate della vita umana, essi
dovrebbero essere eterni, ma niente è eterno: anche i miti muoiono. D’altronde,
essendo sublimazioni incarnate, in quanto figure mitiche hanno assunto il tempo
narrativo come scansione delle proprie imprese. Sottoposti anche loro al tempo,
possiamo considerarli morti.
Tutti i personaggi di tutti i generi letterari non sono altro che
morti che ritornano, ai quali ognuno può fare indossare l’abito che preferisce.
Come i morti di Kantor, denotano memoria labile, confusione mentale, tendenza
alla ripetitività, incostanza e imprevedibilità. Essi, cioè, possono cambiare a
ogni resurrezione. Un personaggio muore non appena nasce, e manifesta però una
vitalità disumana che lo rende disponibile a ritorni infiniti, ogni volta per
una vita illusoria breve. Si forma, così, dalla sommatoria delle vite innescate
dai nuovi rifacitori letterari e drammaturgici, un superpersonaggio di illogica
e irrazionale complessione, che tracima da ogni parte, ma dotato di una forza
di coesione che gli impedisce di implodere.
Questa Medea, nelle intenzioni, presenta uno di questi
superpersonaggi, sintesi di secoli di rielaborazioni scelte e rivedute
dall’autore.
Anche questo superpersonaggio, tuttavia, nasce morto, pronto a
risorgere per diventare “un’altra Medea ancora”.
Tutto quanto si predica sull’arte immortale e sui personaggi eterni è
pura retorica. La storia fa un massacro di grandi personaggi e di ammirevoli
autori, ai quali l’attributo di genio
non è stato conferito in quanto le loro opere sono scomparse negli incendi,
nelle distruzioni o nella cattiva volontà degli uomini, spesso ciechi e
insensibili, oltre che crudeli. Le opere che sopravvivono non hanno di diritto
una durata eterna, se la aggiudicano solo grazie al caso. I personaggi,
comunque, hanno vita più breve. A volte l’opera in cui è avvenuta la loro
gestazione sopravvive in angusti dimenticatoi, come è successo per le pergamene
della civiltà greca e romana, rimanendo in coma per secoli, fino a quando
uomini amanti della cultura danno loro nuova vita con le traduzioni, il
recupero filologico, i commenti. I personaggi, nel frattempo, sono usciti
dall’opera originaria, sono scomparsi e riapparsi in altre opere, come è
successo appunto per la Medea euripidea rinata in lingua latina con Ovidio,
Seneca, Ennio, Draconzio.
Quando diciamo “Medea” che cosa diciamo? Nulla. Nulla più di un
episodio di cronaca nera. Non esiste una Medea, esistono infinite Medee che mai
raggiungono lo scopo di unificarsi in un superpersonaggio stabile e definitivo,
al di là degli stereotipi che illudono sulla sua unicità.
Il personaggio Medea è vivo in forma letteraria nel testo prosastico o
drammatico, ma deve morire e rinascere sul palcoscenico, per diventare
personaggio teatrale.
Ebbene, di che forma di vita parliamo? Esiste forse una donna Medea,
maga di discendenza divina, madre e assassina? Ha un corpo, Medea? Ha una
personalità? Ha il corpo dell’attrice che la interpreta, ma non la sua
personalità. Medea non ha una personalità, non è una persona. A lei si nega la
vita, perché non può contenerla; in questo senso è morta. Giunge dal mondo dove
tutte le cose e tutte le parole finiscono, il mondo della morte che mai nessuna
cultura ha descritto come mondo del nulla assoluto. Vi sono brecce tra una
dimensione e l’altra provocate dai ricordi, dalle testimonianze ancora
fruibili, dalle eredità morali e di pensiero, dalle credenze religiose e dalle
iniziative artistiche.
Attraverso una di queste brecce la scena evoca il personaggio Medea,
che è uno spirito sconosciuto, privo di lineamenti, ancora muto, incapace di agire
sul reale, misterioso e informe. L’azione congiunta del testo, dell’interprete
e delle arti visive e sonore coordinate dal regista rivestono di significati la
forma nuda, donando al personaggio un’altra vita. Ma non è una vita umana, è
una vita onirica e subliminale.
Da una parte abbiamo quindi i tre mediatori che sprizzano vitalità da
ogni poro, dall’altra il gruppo di morti che rivive di vita propria per
presentare un’altra Medea non al pubblico presente, ma a se stesso. I mediatori
mediano tra la rappresentazione e il pubblico; gli attori mediano tra i
personaggi testuali e quelli drammatici; solo con l’interpretazione il
personaggio rivela a se stesso di essere un’altra volta in qualche modo vivo.
Ripugna, quindi, agli interpreti tutto ciò che è troppo vivo: colori,
musiche, coreografie… Tutto prende efficacia solo se non si oppone con violenza
all’idea di morte dalla quale sorge la drammaturgia, ma si armonizza con il
silenzio interiore dei personaggi che devono recuperare la memoria, la
motilità, la prontezza di pensiero e di eloquio. Tutto questo richiede un
richiamo forte di energia. Da uno stato di passività devono passare in fretta a
una situazione di simulazione della vita nel mondo reale e materiale.
L’attore evoca il personaggio, ma non lo domina; ne viene intriso,
perfino invaso; sviluppa per esso sentimenti che possono stridere con la sua
storia. Invece di pietà può sentire disprezzo, invece di empatia odio. Tuttavia,
non tradisce la propria disponibilità e fa di tutto per facilitare la presa di
vita del personaggio di pertinenza. Deve farsi da parte, lasciare esprimere
l’entità che si manifesta attraverso il suo corpo e il suo animo. Il
personaggio è invasivo e prepotente, si appropria dell’energia vitale con tanta
più facilità quanto meno gli si oppone l’interprete.
Vivi e morti stanno in mondi separati.
I vivi abitano la realtà, i morti i sogni e le illusioni. I vivi
coabitano con le cose, i morti con le parole inespresse. Per segnalare questa
differenza in termini visivi, sul palcoscenico viene steso un grande telo
bianco, il nuovo pavimento dei morti, quasi una nuvola. Esso non solo delimita
il “cimitero”, ossia l’area esclusiva riservata agli attori, ma consente di
ricavare con facilità un sotto, un “tartaro
o erebo”: è sufficiente sollevarlo e tirarselo sulla testa per
scomparire nel mondo degli inferi. Gli interpreti non escono mai dall’ampia
macchia bianca, dato che al di là non esiste nient’altro che il nulla. Viene
quindi escluso ogni progetto di scenografia: niente all’esterno può collegarsi
allo spazio chiuso, delimitato e impraticabile. Una bolla d’aria, un acquario,
un cerchio magico, un varco spazio-temporale. Tutto ciò che vi accade è vero,
reale, significativo. Tutto ciò che accade all’esterno è menzognero, illusorio,
insensato.
Lo spazio a disposizione, circolare o vagamente poligonale, richiama
l’idea di un vortice che trascina tutti verso il centro.
Al centro c’è Medea.
Sopra una struttura lignea rivestita, come un paludamento, o sopra una
scaletta nuda, magari collegata mediante un’asse a un’altra, ella può sedersi e
fare alcuni passi, drizzarsi sopra gli altri. Alla sua destra il re Creonte su
un’alta sedia bianca da ufficio, la figlia accovacciata ai suoi piedi; e
accanto a loro Giasone, che misura inquieto lo spazio ristretto, dando l’idea
di non avere un proprio angolo in cui placarsi; ambizioso di tutto e padrone di
niente.
Alla sinistra di Medea il Coro dei cittadini e davanti a lei i due
figli: un poco scompaiono sotto la struttura un poco sotto il telo bianco; a
badare a loro c’è la Nutrice.
Di lato, sul proscenio, i tre mediatori, la cui libertà di movimento è
illimitata, purché non calpestino il telo bianco; essi si spostano anche in
mezzo al pubblico.
Non vi sono colori se non il bianco, il nero e il grigio. Il giorno e
la notte in tutte le loro sfumature. Anche l’incarnato viene spento dal trucco;
ma sul pallore dei visi risaltano le labbra rosse, segno della vita provvisoria
di cui godono i personaggi.
Musiche in tono, rallentate e lontane, quasi un’eco. Coreografie
congruenti, anche se ancora non so come riuscirò a fare lavorare i ragazzi su
un’idea che contrasta con il modo comune di pensare: esprimere violenza e
aggressività senza ricorrere a urla e movimenti convulsi.
Non so nemmeno se riuscirò a trasmettere il senso di questa messa in
scena che non ha assolutamente niente a che fare con il mondo cinematografico
degli zombi. Spiegazioni e comprensione si svolgono sul piano delle emozioni e
soprattutto sulla difficoltà di esprimerle… senza troppo esprimerle.
Affronteremo un training (molto semplificato) sull’interpretazione
attoriale secondo il sistema di Stanislavskij e secondo invece la teorizzazione
epica di Brecht, psicologismo contro straniamento. Commenterò dei video di
Kantor e presenterò la gamma delle emozioni relative alla partitura della messa
in scena. Fornirò un prospetto di emozioni e sentimenti (avrò il supporto di
una psicologa che in quattro lezioni guiderà i ragazzi al riconoscimento) e ne
attribuiremo una scelta motivata a ogni personaggio in una data situazione.
Come avviene l’approccio al personaggio da parte degli interpreti?
Il metodo di Stanislavskij è tutto sulle spalle dell’interprete. Suo è
il lavoro di documentazione, di approfondimento delle motivazioni e delle circostanze,
di ricognizione nel proprio intimo per cogliere punti di contatto nel presente
e nel passato. L’attore plasma se stesso per aderire a quella che suppone
essere la verità del personaggio, vissuto come potenzialmente vivo. Con una
ricostruzione lenta e faticosa, egli diventa il personaggio. Ma per quanto
siano consolidati i cambiamenti, supportati dalle tecniche espressive e dal
make-up, egli rimane comunque ciò che era, una persona esistente che si presenta
al pubblico come qualcuno che in realtà non esiste. Il pubblico ne valuta e ne
apprezza la verosimiglianza e applaude però non il personaggio, ma l’interprete,
lodandone la magica professionalità che lo rende un altro; allo stesso tempo,
il pubblico venera il personaggio confondendo realtà e fiction, faticando a
porre limiti precisi tra la persona reale e quella frutto di invenzione e
interpretazione.
Dal primo naturalismo ai serial contemporanei, l’adesione totale dell’attore
al personaggio si è tanto specializzata che cinema e televisione hanno rubato
la scena al teatro, fornendo le migliori prove di immedesimazione, supportate
dall’ambientazione e dagli effetti speciali.
L’attenzione del pubblico sull’attore è storia vecchia, risale all’età
ellenistica, quando le prime corporazioni impongono nuovi gusti, modificano
arbitrariamente i testi, generano il divismo a scapito dell’opera in sé.
In questa Medea l’attore non conta più del personaggio.
Anzi, l’attore deve morire.
Se vuole recuperare il personaggio dal limbo in cui si trova, se vuole
sintonizzarsi, deve usare la sua stessa frequenza, e spegnere il bailamme di
interferenze causato dall’energia in eccesso della vita quotidiana. L’ostacolo
maggiore non è rappresentato dal disturbo esterno, ma da quello interiore.
Insicurezza, ambizione, presunzione, inadeguatezza, superficialità, distrazione…
tutto ciò che riporta l’attenzione sull’Io dell’interprete è causa di disturbo.
L’attore non sa ancora come si presenta il personaggio che deve
interpretare, il primo passo è solo di mostrarsi accogliente, di fargli spazio
nell’Ego personale, di concedergli libertà di espressione, senza giudizi
morali, senza alcuna prevenzione. Il personaggio è quello che è, non risponde
alle leggi civili, né tantomeno ai precetti religiosi.
Da solo, l’attore fatica a ospitare in sé un personaggio che per sua
stessa natura è portato alla comunicazione e richiede quindi, anche nel caso di
un monologo, referenti reali o virtuali con i quali intessere le dinamiche del
dramma. Alla costruzione del personaggio sulla scena contribuiscono quindi i
partner, ma non solo; anche la struttura spaziale, gli schemi di movimento, le
sonorizzazioni, gli oggetti. Un personaggio non può nascere a tavolino, deve
nascere sulla scena, e l’evocazione non è immediata, ma lenta, con un ritmo
discontinuo, affidato sia al raziocinio sia all’intuizione, finanche al caso e
al sogno.
L’esito finale non è di avere dato vita a una persona tanto credibile
da poterle aggiudicare un’identità umana; ma di avere sulla scena un interprete
che veicola le parole di un’entità misteriosa, a metà strada tra il mondo dei
vivi e quello dei morti, che racconta una storia fuori del tempo anche se è
datata, armonizzata con le altre entità che la circondano in uno spazio che non
ha relazioni con lo spazio circostante, in un rapporto con il pubblico
esistente ma negato.
CHI FOSSE INTERESSATO AL TESTO PUO' FARNE RICHIESTA VIA EMAIL: quila@libero.it
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