Mentre pascola le pecore, il dio Ermes osserva la ninfa Driope
raccogliere ghiande sotto le querce. È mattino
quando le si avvicina, è mezzodì quando la spinge ridendo nella grotta. Dopo l’amore, Driope si gonfia come un otre.
“Che cosa mi succede? Vuoi farmi morire?” domanda angosciata.
“Affido il tuo nome alla fama” le risponde Ermes accarezzandole il
ventre. “Stai per partorire mio figlio.”
“Sarò madre di un dio?”
“Madre di Pan, figlio di Ermes dei dodici Olimpi, nipote di Zeus e di
Maia.”
Nella grotta, dalla quale scorre via un ruscello, Driope spinge fuori
di sé non un bambino roseo, ma una bestiola villosa che scalcia con zoccoli di
capra. Inorridita, si rialza senza badare al sangue che le gocciola tra le
gambe, lo sguardo fisso alla creatura dal pene eretto. Gli occhi del neonato la
cercano, ma lei non si sente madre di un mostro con il muso barbuto sovrastato
da due piccoli corni rossi. Si sente tradita, vorrebbe gridare la rabbia e il
ribrezzo, ma vince l’impulso della fuga. In preda al panico, scossa dai
tremiti, via, via dall’obbrobrio.
“L’ha voluto il Fato!” le grida dietro Ermes. Ne è addolorato, ma Pan
deve fare a meno delle cure di una madre. Gli conviene maturare il più in
fretta possibile, così patisce meno la mancanza delle carezze.
“Ma forse non sei nemmeno un tipo da moine. Non hai l’aria triste di
chi è stato abbandonato. Tu basti a te stesso.”
Lo avvolge in una pelle di lepre.
“Un pastore ti vede bello. Una rupe anche. E così la foresta. Tu sei
brutto per chi vede le cose a metà. Chi fissa lo sguardo su una sola pecora,
non possiede la saggezza di chi scorge il gregge in ogni sua unità. Hai voce di
frana e cascata, di tuono ed eco tra i picchi. Hai membra di olivo e di
quercia. Zoccoli sul suolo come grandine. Peli come cardi e rovi. Ma negli
occhi hai i fiori della siccità, i più belli. Quanta armonia nelle tue
difformità! A chi loda l’incanto del crepuscolo e non sente lo strido del
rapace, tu mostri una storia di preda schiantata. Balzi sul sentiero degli
uomini e li atterrisci scomparendo tra i rovi, sul cammino della volpe. Quando
tutti gridano confusione, tu suoni e canti e danzi. Pochi ti ascoltano. Non hai
verità da rivelare, non sei seducente, non conosci storie edificanti, non hai
ambizioni, non cerchi il consenso. Sei solo. Chi ti vede e ti ascolta rimane
turbato. Infine qualcuno ti cerca. Non per amarti, ma perché gli hai messo
l’inquietudine nel sangue. Vuole battere il piede con te sul suolo duro.
Danzate con Pan! Non abbiate paura di chi vi guarda dritto negli occhi. Di chi
non accumula ricchezze e onori. Di chi non ha confini da difendere. Danzate con
Pan!”
Pan ascolta. Con un guizzo si libera della pelle di lepre e balza in
piedi, saldo sulle gambe arcuate.
“Qualcuno mi amerà?”
“Io ti amo.”
“Verrai a vivere con me nelle grotte e nei boschi?”
“Io vivo sull’Olimpo.”
“Triste sapere fin d’ora che l’amore non esiste. Tenderò agguati alle
ninfe. Forse qualcuna non mi guarderà con gli occhi, ma con il diletto degli
altri sensi. Se fuggirà da me, coglierò da solo il mio piacere.”
Ermes è orgoglioso di un figlio tanto acuto e determinato. Conosce il
mondo prima ancora di metterci piede. Come giudicherà l’Olimpo?
Gli dei sono impazienti di incontrare il figlio di Driope. La ninfa ha
raccontato, sfogando la rabbia, quale brutto scherzo le abbia combinato Ermes.
Le altre ninfe la consolano, ma le dee le proibiscono di diffamare colui che è
comunque di stirpe divina, minacciando una severa punizione perché gli ha
negato conforto e cure materne.
“Non è figlio mio” osa protestare Driope. “Io non partorisco mostri.”
“Vattene” la striglia Era. “Nessuno può generare un dio e poi
insultarlo e abbandonarlo.”
Driope si morde il labbro per non replicare: Era è vendicativa.
Ermes sistema Pan in una cesta e vola sull’Olimpo.
La cerimonia è semplice. Zeus in trono posa lo sguardo sul neonato.
Ascolta il nome che gli viene imposto e chiede a tutti gli dei di accoglierlo e
di trattarlo con il dovuto rispetto. Gli uomini devono onorarlo con preghiere e
sacrifici, riproducendone l’effigie nella pietra.
“Pan, mio figlio” annuncia Ermes con orgoglio. Strappa via la pelle di
lepre, ma il cesto si rivela vuoto. Ermes, imbarazzato, sente su di sé gli
sguardi perplessi. Zeus, sempre impaziente, volge l’imbarazzo in ilarità:
“Ti sei fatto un figlio invisibile, Ermes? Per farne il complice delle
imprese furtive?”
Ermes non sa che replicare, ma una voce rauca lo toglie dall’impiccio.
“Eh, magari fossi invisibile! Qualche signora potrebbe credermi bello,
così da sveltire gli approcci.”
Afrodite lancia uno strillo, sentendosi toccare le gambe. Solleva un
poco la tunica e Pan appare a tutti, seduto sotto di lei, lo sguardo in su. Un
brusio divertito e scandalizzato viene subito soffocato da un’occhiataccia di
Zeus.
“Che cosa ci fai lì, mostriciattolo?”
“Potente Zeus, non fare la voce grossa con un cucciolo, e non
insultarmi prima ancora di fare la mia conoscenza. Volevo che il mio primo
sguardo sull’Olimpo non fosse riservato al tuo volto severo e minaccioso, ma a
qualcosa che rimarrà per sempre nella mia memoria lasciva.”
“Impertinente!” esclama la dea soffocando una risata. Con il piede lo
spinge lontano da sé.
“Mi scalci via” pigola Pan fingendosi addolorato “perché sono ancora
troppo piccolo per accedere alla stanza dei segreti. Ma io crescerò, amabile, e
se mi aspetti potremo generare una mandria di cornuti zampettanti che ti
terranno allegra.”
Gli si avvicina Dioniso, estasiato.
“Meraviglia delle meraviglie” declama. “Vorrei per te recitare qui e
subito versi sublimi, ma c’è più poesia nei tuoi cornini che nella testa
presuntuosa di un poeta. Ermes, hai fatto un capolavoro.”
“Ricorda queste parole” lo ammonisce Pan, “quando di fronte a te avrai
un caprone puzzolente e muscoloso.”
“Non vedo l’ora. Farai parte del mio corteo e con te i piccoli cornuti
che avrai generato.”
“E con chi devo giacere, con una pecora?”
“Non è facile trovare una ninfa che ti soddisfi.”
“Una vale l’altra, ma l’una e l’altra si schifano del mio corpo
stravagante.”
“Allora non ti rimane che la pecora.”
“Ho capito. Devo fare tutto da solo.”
“Non è adorabile?” domanda Dioniso facendo girare lo sguardo. Artemide
sorride comprensiva, Demetra annuisce convinta, ma Afrodite si limita a una
smorfia scettica, Era inarca un sopracciglio e Atena sillaba come un discepolo
durante una lezione di geometria:
“Non mi sono chiari i suoi limiti. Quanto vi è in lui di bestiale,
quanto di umano e quanto di divino?”
Dioniso non sa che rispondere e si rivolge a Ermes che però con lo
sguardo invoca il soccorso di Zeus.
“Chiediamolo a lui” sibila Zeus.
Era si fa più attenta, sicura che il mezzocapretto s’ingarbugli in una
risposta confusa e assurda.
Pan si mette a zampettare in tondo, le mani allacciate dietro la
schiena, nella buffa caricatura di un filosofo ateniese.
Artemide emette una risatina limpida, che il cipiglio di Zeus soffoca.
“I cornetti mi ricordano una mezzaluna” bisbiglia svelta ad Apollo.
“Che io sia bestia” risponde infine Pan, rivolto a testa alta a Zeus,
ma lanciando sguardi a tutti con secchi movimenti del capo “lo testimoniano le
membra, la voce, l’odore, l’istinto. Sono uomo perché parlo e penso, ma non
solo: incanto con le melodie e le danze. E se non fossi dio, come potrei
trovarmi qui? Ma io non sono solo bestia, uomo e dio. Io sono anche e
soprattutto qualcosa che nessun altro può essere: la fusione dei tre stati, che
fa di me un essere straordinario e unico, sintesi di natura, umanità e
divinità. Al signore degli dei e di tutte le cose io dico: sono orgoglioso di
essere Pan e in Pan si mostra la gloria del cosmo contrapposto al caos,
l’ordine universale che concilia gli opposti e stabilisce l’unità nell’armonia.
Io ti riconosco, Zeus, ma tu mi devi onorare.”
L’espressione blasfema risuona in un silenzio attonito. Nessuno può
dire a Zeus: tu devi. Nessuno può dirgli: mi devi onorare. Che fa, ora, il
tonante? Incenerisce l’empio? Ermes fa un passo avanti per implorare perdono,
ma il signore dell’Olimpo lo frena con un gesto.
“Io ti devo onorare?” domanda con voce controllata, senza ira.
“Non come umiliazione. Non oserei mai. Devi solo vedere in me
l’espressione più completa e vera della vita. La sua manifestazione vivente. Ti
piace l’espressione? Io sono la vita vivente. Chiunque, accettandomi, può
trasformarsi in filosofo. Io propago non conoscenza, sempre incompleta e in conflitto,
ma la sintonia con i cieli e gli abissi; e parlo della saggezza, la cui
stabilità salva il mondo. Voglio essere una peste salutare, voglio contagiare
gli uomini affinché cessino di essere tali e si sentano animali e divini.
Voglio che la loro anima turbolenta diventi l’anima del mondo.”
Zeus riflette. Osserva divertito il cucciolo che zampetta come se
danzasse, la cui voce aspra è incredibilmente ricca di fascino.
“L’uomo sottomette le bestie e teme gli dei. Come può identificarsi in
te?” gli domanda.
“Non pretendo che si pianti due corna in testa. Gli chiedo solo di
guardarsi intorno, sopra e sotto, non solo dentro se stesso. Gli propongo lo
sguardo lontano del corpo-mente. Gli ricordo che la verità e la natura sono più
semplici dei sillogismi e delle classificazioni. E più produttive dei fanatismi
e dell’ansia di conquista. Dico al filosofo: canta! E al politico: danza! E al
generale: passeggia! E al commerciante: fantastica! Da queste attività può
nascere l’empatia per la vita in tutte le sue forme, conosciute e no, di carne
e polvere, di pensiero e istinto, di commedia e tragedia. Poiché tutto, alla
fine, è un dramma senza dolore.”
“L’uno ti dà la caccia e l’altro accende il fuoco sotto di te.”
“Le tue parole mi ricordano che ho un’altra qualità che nessuno di voi
possiede.”
“Pan” sussurra Zeus, “non ti sembra di esagerare?”
“Io sono mortale, mio signore. Qualcuno di voi forse lo è?”
Lo stupore fa emettere un sibilo ad Ares.
“Tu sei mortale?” domanda Zeus. “Un dio mortale? Come puoi affermarlo?
Tu sei un dio!”
“Sento la mortalità scorrere nel sangue e non c’è ambrosia che possa
mutarne la sostanza.”
“È inaccettabile!” esclama Zeus. “Devo trovare il modo…”
“No. Io sono mortale. Muoio. Poi non so… poi non so che cosa succede.
Non m’interessa. Ho un tempo e il tempo mi dice: fa’ ciò che devi e fallo in
fretta.”
“Tu deliri. La morte toglie ogni gusto…”
“Alla vita? Ho una tale ansia di vita! Voglio inerpicarmi sui monti
più alti, lanciare un grido più forte di quello dell’aquila, esplorare le
grotte più profonde, gareggiare in corsa con i cavalli, bere latte dalle
mammelle delle capre, danzare intorno ai falò, spaventare i viandanti,
insidiare le ninfe, accoppiarmi con chiunque incontri sulla via, suonare malinconia
alla luna, insegnare agli uomini come tosare le pecore, mostrare agli abitanti
dei villaggi raccolti in cerchio le storie che incantano…”
“Ermes, tuo figlio è pazzo.”
Ermes, nascondendo il compiacimento, annuisce.
“Pazzo, sì” interviene Dioniso senza chiedere il permesso. “Ma non è
di questa pazzia che ha bisogno il mondo degli umani? Hanno mostrato di sapersi
difendere dagli assalti della natura bizzosa. Escogitano strategie che vanno a
lode della loro ingegnosità. Mostrano di voler espandere l’intelligenza senza
limiti, e questo è bene e non ci preoccupa, perché sempre incommensurabile sarà
la distanza tra noi e loro. Ma non stanno tradendo la loro natura in parte
animalesca? Assoggettano le belve e le inondazioni, ma perdono il senso di un
mondo vivo da condividere. Un giorno vorranno conquistare le stelle, ma non è
indispensabile che prima si mettano in sintonia con l’universo? Di questa
follia parla Pan, e io lo capisco e lo sostengo. La follia di essere uno e
tutto. Di armonizzare con l’esistente. Pan non sta recitando una parte, egli è
la parte che recita e questo gli è possibile perché muore pur essendo un dio ed
essendo un dio non può morire. Egli accoppia vita e morte.”
Per un tempo lungo, scolpito dall’immobilità dei presenti, nessuno
dice niente. Tutti fissano Pan come se lo vedessero trasformato. Il piccolo
mostro che vuole rivoluzionare il mondo.
“E sia” parla infine Zeus. “Faccia quello che ama fare. Cantare,
suonare, danzare… e insidiare le ninfe… e anche i pastorelli, immagino… e poi
che altro?... ah, fare il selvaggio nei boschi… e prendersi sassate dagli
umani… salvo poi ergersi in mezzo a loro come narratore di storie… e chissà
quali storie!... tutto questo vuoi fare, bestia umana e divina? Fallo. Porta
agli uomini altra follia, a me basterebbe quella che possiedono, ma se tu… se
tu giudichi che la tua sia diversa… Attento, però. Come possono venerare un dio
animalesco? Un dio mortale? Un dio immorale? Diranno che ti ha partorito il
Tartaro, non il buon Ermes. In quanto a te, Ermes… eh, sì, dagli un occhio.
Forniscigli le parole efficaci e accorte, quelle che più ammaliano. Fanne un
messaggero di follia utile. Va’, Pan, diffondi il pensiero che accomuna uomini
e bestie e piante e rocce, feconda il mondo con la tua arte. Dioniso ti divora
con gli occhi. Va’ con lui in un corteo che porti di villaggio in villaggio la
poesia e il canto, la commedia e la tragedia. Il senso delle cose, dici tu.
Ebbene, sia. Va’ per l’aspro suolo dell’Arcadia a recitare la tua verità, e se
nessuno vuole ascoltarla, ulula alla luna, e poi scatenati contro gli ottusi
pastori e fatti inchiodare a una montagna. Così comanda Zeus.”
Quando Pan si ritrova davanti alla grotta in cui è stato partorito,
scorge la propria ombra allungarsi sulla roccia, un’ombra possente come quella
di un toro.
Spalle larghe, torace muscoloso, pelle coriacea, energia prorompente…
ma l’immagine del ruscello è più ricca, gli mostra anche il cielo al di sopra
di lui. Vedendolo riflesso, è come se lo vedesse per la prima volta; e le nubi
gli appaiono vive come il falco che fa cerchi, e viva la brezza che le fa
danzare lente, viva la luce che muta la loro forma, vivo il sole, tutto è vivo
come lui è vivo, nel cielo riflesso. Intuisce che quello non è il cielo degli
dei. Si spinge oltre, al di sopra dell’Olimpo, al di sopra perfino del Fato. Ci
sono altri dei sopra gli dei? C’è un altro Fato? Pensa che il cosmo è dio e
fato di se stesso e che nel suo ordine rientra tutto. Pan, tutto. Prende
coscienza di non essere solo il dio pastore, ma il simbolo dell’unità
dell’universo. Dice a se stesso: io sono Pan, sono la mia pelle e i miei
pensieri, sono la mia ombra, sono l’orma nella polvere e il mio grido, sono il
desiderio e il seme che feconda la ninfa, sono la ninfa e sono la sua fuga,
sono la musica e la solitudine, sono il formaggio che mangio e sono le voci del
villaggio, sono il sogno e il mistero, sono la luna e l’ululato, sono io e sono
gli altri e sono roccia e quercia, perfino le stelle più lontane.
“Mi piaccio” mormora.
Si sposta sopra una roccia piatta e può scorgere le pendici del monte
scivolare nella valle dove i giovani badano alle greggi. Chiude gli occhi e
l’immaginazione gli mostra le radici del monte e la sua vetta a un palmo dalla
stella del mattino.
“Mi piaccio” ripete a se stesso. “Mi piaccio, e mi faccio anche paura.
In me c’è tutto quello che narra il mio aspetto, ma non solo. Ci sono forze che
io stesso ignoro, pur essendo un dio.”
Si dondola, saltella. Gli zoccoli traggono suoni ritmati dalla roccia.
Allarga le braccia e frusta l’aria come se avesse le ali. Dalla bocca sgorga un
suono cupo e melodioso. Così danzando e cantando, scende nel fondovalle:
“Bello il danzatore, bello il suo volto…”
Un rumore lo fa voltare di scatto. A pochi passi da lui c’è un
ragazzino. Il tremito lo fa apparire evanescente, immagine d’acqua. Dalle
labbra dischiuse esce il silenzio dell’orrore, ma gli occhi spalancati
manifestano la curiosità. Non ha mai visto un mostro. Sa che i mostri esistono,
lo raccontano gli anziani e le madri. Ora ne vede uno, il più spaventoso di
tutti.
Il primo impulso di Pan è la fuga. Il ragazzo non costituisce una
minaccia, se ne rende conto. Ma è vivo, gli occhi puntati su di lui, le labbra
aperte per gridare insulti e maledizioni… e se non scappa che cosa deve fare?
Che cosa deve fare l’uomo capra per non soccombere allo sguardo atterrito di un
ragazzo?
“Devo fare il dio” dice a se stesso.
“Attratto dall’acqua dei ruscelli,
si arrampica sulle rocce inaccessibili…”
Pan canta e danza. Non ha movenze di ballerina, ma di lupo in caccia,
di albero scosso dal vento, di falco in volo.
Il ragazzo riprende a respirare. Vede il mostro fare cose strane, ma
non è stato aggredito. Il mostro è orribile, ma fa cose che gli danno piacere.
Ha voce rauca, forte, modulata. Si muove come nessuno sa muoversi.
Quando tornano silenzio e immobilità, i due si scambiano uno sguardo
timoroso. L’equilibrio è fragile. Un sospiro basterebbe a evocare il caos.
“Il mio nome è Pan” mormora infine il dio.
Il ragazzo esita, dalla gola arida sembra impossibile che possano
fiorire parole, ma poi sussurra, con voce secca:
“Io sono Tespi.”
“Sono felice che tu non sia scappato, Tespi.”
“Non mi fai del male?”
“No.”
“Chi sei?”
“Pan, figlio di Ermes.”
“Un dio. Non sei un mostro, sei un dio!”
La voce ora è squillante, il ragazzo pensa già alla fortuna avuta, di
essersi imbattuto in un dio. Altri al villaggio raccontano di incontri simili,
ma di solito non sono creduti e vengono dileggiati. Anche lui finirà come loro,
quando racconterà…?
“Che cosa ci fai, qui?” domanda impertinente. “Non avevo mai sentito
di un dio con il tuo nome.”
“Sono nato stamane in una grotta, non potevi conoscermi.”
“Figlio di Ermes?”
“E della ninfa Driope, ma lei non ha retto al mio aspetto e mi ha
abbandonato.”
“Mi spiace.”
“Come vedi, so badare a me stesso.”
“Certo. Sei un dio. Non dovresti stare sull’Olimpo?”
“Ci sono andato per conoscere la famiglia, ma non desidero abitarci.
Io sto bene qui. Ci sono grotte ovunque, e foreste, e animali… e ci sei tu. Non
conosco gli uomini. Temo che mi scaccino.”
“Sei un dio! Puoi assumere l’aspetto che vuoi!”
“Mi piaccio così.”
Di colpo, Pan si accorge di quanto tempo ha dedicato al ragazzo.
Troppo. Parlare lo affatica e lo annoia.
Con uno scatto si volta e corre a rifugiarsi nel bosco di sempreverdi.
Il ragazzo ci rimane male. Un dio bizzarro e imprevedibile. Un dio vagabondo.
Anche a lui piacerebbe fare il vagabondo. Anche lui sente la noia della
quotidianità del villaggio, sempre le stesse cose. Tespi ama sognare.
A passo lento, se ne ritorna alla capanna.
“Dove sei stato?” gli domanda la madre, aspra.
E lui non risponde.
Rivede nella mente la danza e risente le parole e desidera che danza e
parole raccontino una storia.
Pan si sente stanco. Non perché ha danzato. Parlare, pensare, fare
domande, rispondere, capire, decidere, stare attento… attività spossanti. Le
parole non hanno gusto se non sono accompagnate dai gesti, dai movimenti, dagli
sguardi obliqui, dalle annusate, dai salti, dal ritmo, dalla melodia, dalla
simmetria, dall’intonazione come picchiettare di pioggia o stormire di fronde o
frusciare vellutato di passi felini.
Si stende sul muschio. Chiude gli occhi per concentrarsi sui rumori
del bosco.
Poi li riapre per perdersi nel gioco d’ombre tra i rami.
Poi li richiude per dare un senso al ritmo dei passi leggeri.
Si rialza con un movimento fluido. Si apposta dietro un pino mugo.
Vede passare una ninfa. La tunica le danza sulla pelle come acqua; più che
camminare, vola sul tappeto d’aghi; ma dove va?
La segue. Dimentica ogni prudenza e allunga una mano per trarre a sé
il sogno.
La ninfa si chiama Siringa ed è diretta alla radura dove le sue
compagne l’aspettano. Si gira di scatto, scorge il mostro, lancia un grido e si
mette a correre. La veste s’impiglia sui rovi, si lacera. Nuda, Siringa è una
rivelazione che stordisce.
“Fermati!” grida Pan. “Non voglio farti del male! Voglio solo amarti!”
La ninfa sente un’eco distorta, come il ruggito dell’orso, o l’eco di
un tuono che porta la tempesta. Fugge sempre più disperata.
Pan si ritrova sulla riva di uno stagno. Una rana si tuffa. Che
silenzio! La brezza di un’anima desolata piega i giunchi. Un brivido lamentoso,
un suono lungo, una melodia. Le canne della riva cantano malinconia, quasi
angoscia. Pan ascolta. Poi vede. La rana annaspa in superficie, un attimo di
terrore negli occhi liquidi: una serpe la ingoia. Anche la ninfa è stata
divorata dal nulla.
“Sogno reale, perché mi sfuggi?”
“Tra noi non può esserci amore” bisbiglia la ninfa in un gorgo
d’acqua.
Pan spezza alcune canne e lega insieme sette sezioni, un flauto a
sette soffi. Sette sospiri. Poi se ne va lento.
Vuole raccontare a se stesso il dolore di un amore intravisto,
sfiorato e perso. Ma non lì. In un luogo chiuso. Non vuole suonare per il
capriolo o la poiana. Solo per sé. Vuole suonare la disperazione e risvegliare
l’eccitazione, vuole fare l’amore con l’immagine della ninfa dal piede leggero.
Suona e canta e danza, Pan, nella grotta preclusa agli uomini.
Pan, Satiro, Sileno, Priapo, Fauno, Silvano… dio dai molti volti, dio
di flora e di fauna, di rocce solitarie e grotte profonde che sono l’atrio
dell’inferno. Suona, Pan, suona le voci del bosco e del cosmo! Nel passo
leggero di una ninfa hai spiato l’armonia degli astri. Suona il loro vorticare in
un cielo folle!
C’è un mistero di fronte al quale anche l’Olimpo tace. Che potere ha
la tua divinità? La ninfa scompare e la rana viene divorata. Questo è il mondo.
Rincorrersi per divorarsi. Solo qui c’è la pace. Nella solitudine di una voce
che è tutte le voci.
Pan balza sulla soglia della caverna e ride.
Questo è il mondo! Vita e morte intrecciate. Questo è il mondo e io
l’ho visto! Il mondo danza e poi si abbatte stremato sotto gli artigli. Questo
è il mondo! Non una sua parte, tutto. Sono qui, adesso, e con me ci sono i
giorni trascorsi e quelli a venire. Sono solo, ma intorno a me c’è vita ovunque
posi lo sguardo. La sento in fremiti e gridi. Sono già morto, eppure sono vivo.
Sono talmente vivo che devo per forza morire. Ho tutto, sono tutto. Ciò che non
sono è la cronaca di un attimo, la riduzione al dettaglio, il protagonismo del
minimo. Io sono tutto. La mia anima è quella del mondo. Percorro la storia
avanti e indietro, dalle origini fino al termine posto all’inizio di un’altra
storia. Vedo dall’alto migrazioni e battaglie, costruzioni di città e genocidi,
invenzioni e religioni, confini e disperazioni, preghiere e maledizioni.
Questo è il mondo!
Ecco la luna. La voglio. Imparo a saltare sempre più alto. La mano la
tocca, lei freme e la marea sale. Mi stacco il cuore dal petto e lo lancio
lassù. Ora il mio cuore è con lei. Ha il mio cuore, non può evitare di avere
anche le mani e lo sguardo, i baci e il sesso. Ecco, giaccio con lei.
L’universo risuona dei nostri gemiti d’amore. Sia questa la voce autentica del
cosmo: l’amore impossibile.
Un clamore lontano. Tamburi, canti, urla sguaiate, strilli, nenie,
inni, orazioni, lamenti, e i versi orribili degli animali squartati a mani nude
dalle menadi. Affondano le bocche nelle carni per ingoiare il dio, per nutrirsi
della sua potenza.
Il corteo striscia nella valle come una serpe ebbra di sole. Pan
ascolta. Osserva. Intorno a satiri e a donne camuffate da bestie si affollano
gli umani desiderosi di perdere il senno. Dioniso, mascherato, se ne sta sul carro
ornato di fiori e di edera. Pan ascolta. Spia da dietro la roccia.
Io non posso accodarmi a chi cerca l’amore dove non si trova,
negandosi la consapevolezza del dolore. Io non perdo il controllo. Gioisco, mi
scateno della danza, spavento e mi spavento, ma non perdo il controllo se non
per l’attimo necessario a riconquistarlo.
Io non voglio avere due facce come Dioniso. Ho la mia, e mi piace. Non
voglio che la gente mi segua e mi circondi spiandomi come ora faccio io. Sto
bene nella grotta. E sui sentieri solitari. Dove incontro l’incauto cui manca
il respiro, non la folla che inneggia e vomita parole insensate.
Io suono, io canto, io danzo. Ma non con loro.
Pan suona un ritmo indiavolato. Le note vanno lontano. Al villaggio,
gli uomini alzano la testa e non capiscono. Da dove viene? Che cosa significa?
Tespi traccia un cerchio dentro il quale isolarsi, nel quale ascoltare e poi
ripetere la verità del mondo, la vera faccia dell’esistenza.
Pan grida:
“Panmegas tethneke!”
L’aquila fa eco, sopra le guglie, tra le rupi. Lo aspetta per
strappargli il cuore, e Pan dovrà ricostruirlo con fatica. Non domandate
all’aquila perché lo faccia. Non lo sa. Nel suo animo c’è un comando che viene
da lontano, e lei lo esegue.
Il suo grido è il grido di dolore di Zeus, che non tutto sa e non
tutto governa.
Altrove, un silenzio arcano.
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