Dopo numerosi ripensamenti, mi sono deciso: pollice verso. Quando
elimino una pianta sana e generosa, mi rimorde sempre la coscienza, quindi devo
agire d’impulso: occhiata di sbieco, decisione pronta, esecuzione immediata. Si
tratta di due esemplari di Goji. “Il Lycium barbarum è un arbusto caducifoglio
appartenente alla famiglia delle Solanaceae, originario dell'Asia orientale e
naturalizzato nell’Europa centrale e settentrionale. È una delle due specie di
Lycium a frutti rossi che spesso si trovano in vendita nei negozi di alimenti naturali
con il nome di bacche di Goji; l’altra specie è il Lycium chinense. Fra le due il
Lycium barbarum è il più ricco di vitamine, sali minerali e antiossidanti ed è
famoso in Asia per le sue bacche, annoverate nella farmacopea cinese” (da Wikipedia).
Per onestà, informo che il loro gusto non è certo invitante e che non
sono tipo da industriarmi per essiccarle, rendendole più gradevoli. Al momento della maturazione ne ingoiavo
qualcuna, ogni volta pensando: bisognerà che trovi il modo di essiccarle (ma
non sono il tipo).
La pianta è vigorosa, cresce in modo disordinato sparando lunghi
tralci in ogni direzione, e ha pure le spine. Necessita di cure in quanto
alcuni tralci seccano, e va comunque sostenuta e tenuta in forma. Insomma, tanto
lavoro per qualche assaggio acido.
Tuttavia, l’ho piantata io, l’ho coltivata da quando era un arbustello
di trenta centimetri, portandola a una maturità rigogliosa (fino all’invadenza)
che la ricopre ogni autunno di miriadi di bacche, più belle da vedere (fino a
un certo punto, dato il caotico intrecciarsi dei rami) che buone da mangiare.
In quanto alla salute, ho i mirtilli e il ribes nero, mi posso
accontentare.
Poco accorto come al solito, la interro d’angolo tra il fico e il
nespolo. Ogni volta faccio come se dicessi a un bambino piccolo lasciato solo
in una stanza piena di giochi: sta’ lì fermo e aspettami. I primi anni gli
passo accanto e storco la bocca: sembra non voler crescere (il Goji, non il
bambino). Poi si fa un ceppo nodoso e robusto e lancia tralci come fuochi
artificiali.
Mi è d’inciampo quando taglio l’erba, quando raccolgo i fichi e le
nespole, quando lo sguardo si sofferma con disgusto sul groviglio.
Va bene la salute, va bene la gola, ma se il giardino non è anche il
posto dello spirito va a somigliare a un supermercato. Anche il fico mi dà
frutti in abbondanza (a me e alle vespe), ma riempie lo sguardo di storia. Il
nespolo a primavera è un trionfo di fiori bianchi.
In conclusione, lo faccio a pezzi e poi con pochi colpi di zappa lo
sradico.
Addio, Goji.
E questo è un sacrificio.
Lui è la vittima immolata non a un dio, ma
al mio ego che profuma di infinito (e basta alzare gli occhi alle stelle). Io, sacrificatore,
ne condivido la pena, perché anche una parte di me è stata sacrificata. Quella
delle illusioni (sicuro dell’efficacia e della bontà delle bacche e di un tocco
di esotico), e anche quella dell’efficienza (non sono pragmatico, acquisto
piante per capriccio e secondo l’estro del momento), e quella dell’amor proprio
(anni di cure per niente), e infine quella degli affetti (ogni pianta del
giardino è una presenza viva di frequentazione giornaliera, con conversazioni silenziose
brevi e intense).
D’altronde, amo i sacrifici.
Ogni scelta è un sacrificio e io amo le scelte perché portano ai
cambiamenti.
Eliminato brutalmente il Goji, ora l’angolo è armonico, equilibrato, idoneo
alla raccolta dei frutti: bello e buono, come il mio teatro Kalon.
Ogni volta che coglierò un fico o una nespola mi ricorderò di te,
Goji, sacrificato alla gestione kalon del giardino, punito perché hai deluso le
aspettative dopo cento dilazioni, ucciso dal mio invecchiare che fissa con
occhio storto ciò che richiede manutenzione eccessiva senza dare niente in
cambio.
Tu sei morto, io sono vivo e sto meglio di prima.
È stato quindi un sacrificio utile. In tempi di accumulatori seriali, privatizzatori
nevrotici, egotici egoisti e neocapitalisti psicotici l’idea del sacrificio potrebbe
costituire una panacea. Non dico dell’elemosina che altro non è se non una
transazione finanziaria: ciò che elargisco mi rientra in termini di autobeatificazione,
immagine sociale e riduzione delle tasse. Dico della capacità di rinunciare a
qualcosa con immediatezza e sollievo (come perdere peso, come recuperare una
respirazione profonda, come raggiungere una vetta) e di cambiare il paesaggio
interiore ed esteriore della propria esistenza. Tutto ciò che possediamo è
legato a noi dai ricordi e fa parte della nostra storia, ma quando si elimina
ciò che ristagna nel solaio della psiche non si fa altro che una potatura: l’organismo
si rinvigorisce.
Scrivo di sacrificio non per obbedire a norme morali e religiose, non
per farmi grande di fronte all’autorità o a un dio, ma per alleggerire me
stesso di una parte dei pesi di cui si sobbarchiamo a volte senza buonsenso; e
quindi per farmi più lieve. In questo farsi piccoli e leggeri di fronte all’immensità
della vita sta un senso profondo di gioia e di adesione al senso vero dell’esistenza,
che sta nel suo opposto, nella morte.
L’estirpamento del Goji fa seguito ad altri sacrifici, tra i quali il
taglio di un pruno di una decina di metri che ramo dopo ramo ho fatto a pezzi
da solo, in tre giorni di lavoro; e poi tutto in discarica.
Sguardi nuovi sul mondo, rinnovarsi.
E ora? Forse un cotoneaster germogliato spontaneo dove pongo la
ciotola invernale per gli uccelli. Ne ho un altro che ha già raggiunto i due
metri e questo non ha spazio per espandersi. Gli lascio fare l’ultimo inverno e
poi…
Si nasce, si muore, così è.
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