Sto preparando un saggio sull’attore dall’antichità
al secolo XIX, identificando le linee di conflitto e dibattito, le conquiste e
le questioni irrisolte. La maggiore frattura si è certo avuta già nel secolo IV
a.e.v., quando i frutti del lavoro sia del poeta sia dell’attore non derivano
più dall’ispirazione divina, dall’enthusiasmos che eccita e commuove il
pubblico come un contagio (pre-artaudiano) apollineo (e lo stesso Platone
appoggia questa tesi, pur contraddicendosi); d’ora in avanti l’attore, che si è
fatto professionista e creativo, affida la propria performance alla techne,
alla tecnica ancora rozza e informe.
Avviene il contrario di quello raccomandato da
Platone (vedi Ione e Fedro): per fare spazio al dio, l’hypocritès
(colui che risponde al Coro, l’attore) deve farsi piccolo, ritirarsi in se
stesso, scomparire come individualità; altrimenti non può attingere al mondo
delle idee.
L’attore, invece, si fa sempre più egocentrico ed
esibizionista, suscitando perfino la disapprovazione di Aristotele. Coalizzato
in consorterie, privilegiato (esenzione dalle tasse e dal servizio militare,
impunità e mecenatismo) e fattosi in fretta divo venerato dal pubblico,
l’attore gode di una stagione più che soddisfacente. Perlomeno l’artista di
grande successo, perché la forma tespiana di teatro itinerante si rinnova nella
Roma repubblicana e imperiale; ma questi guitti che si tramandano il mestiere
di padre in figlio, pur bravissimi, sono considerati poco più che vagabondi
inaffidabili. E la chiesa opera una vera e propria crociata contro non solo l’attore
impudico e senzadio, ma contro il teatro stesso.
Il teatro, fino all’avvento del regista nel secolo
XIX, è fatto dall’attore. Un attore narcisista che certo non scompare, sulla
scena, per fare posto al personaggio, del quale si ritiene l’artifex.
Si tratta di una parabola ascendente che raggiunge il
culmine a fine Ottocento, con il Grande Attore (e la Grande Attrice)
protagonista assoluto, beniamino del pubblico, osannato e riverito come un dio
in terra.
Poi arriva Stanislavskij e il personaggio è tutto
frutto dell’intenso e profondo lavoro dell’attore su se stesso, un lavoro
scientifico che non affida niente al caso o all’ispirazione “divina”.
Come affrontare l’intensa e complessa problematica
dell’interpretazione con i ragazzi (10-13 anni) di “La Medea”? L’intenzione è
di tornare alla dimensione degli hermenèia di Platone, la capacità di
interpretare gli dei da parte del poeta (ricordiamoci che tra poeta e
declamatore, cioè attore, c’era ancora identificazione). La strategia è quella
di presentare il personaggio come persona “morta” (tutti i personaggi, anche
quelli che si riferiscono a persone viventi, risultano vivi solo nella lettura o
nella messa in scena teatrale) in attesa di tornare alla vita. Non può
risorgere da sola, ha bisogno di attingere linfa vitale da un
lettore/interprete; e costui deve farsi da parte, staccarsi dalla propria
esistenza quotidiana, creare uno spazio interiore ad hoc, lasciare la ribalta
al personaggio.
Non è facile, per un attore, mettere se stesso in
ombra per riportare alla luce, in una sorta di resurrezione, un personaggio
strappato al sepolcro della creazione artistica. Questo, comunque, è il primo
passo. Come prestare voce e corpo al personaggio? Ma, soprattutto, con quale identità
si presenta? Nel corso dei secoli, si passa dal tipo al carattere, giungendo
alla formulazione che il personaggio è una persona reale.
Non sono d’accordo.
Il personaggio è tale solo nell’ambito della propria
opera, al di fuori della quale diventa una reinvenzione estranea allo spirito
iniziale. Che si voglia convincere lo spettatore che il personaggio è vivo e
reale è coerente con il cinema. Il personaggio inteso in questo modo fa parte
dello spettacolo, ma il teatro è un’altra cosa. Il teatro non è uno spaccato naturalistico
e veristico sulla realtà, ma un’espressione vocale e gestuale che deve fare i
conti non con le cineriprese ma con la musica, il canto, la danza, lo spazio e
la coerenza estetica interna che compatta la scena dall’inizio alla fine.
Il personaggio cinematografico (a meno che non faccia
il verso al teatro) non può fare l’eco a un partner, o cantare invece di
recitare, o gesticolare al di fuori delle convenzioni, o indossare vestiti
incongrui; quello teatrale sì.
L’interpretazione del personaggio tiene conto dello “spicchio
di vita” presentato nell’opera testuale e solo dalle sue battute e da quelle
degli altri personaggi desume e intuisce cronache e sentimenti extranarrativi.
L’attore si concentra quindi solo sul testo, dal quale trae tutto ciò che gli
serve per dare voce e corpo al personaggio.
Non si tratta solo di un’analisi psicologica,
condotta sulla concretezza della drammaturgia, ma della concertazione di un
personaggio con gli altri e della ricerca di tutte le modalità espressive
vocali e dinamiche che lo rendono presente, vivo ed emozionante. L’attore da
vivo si fa quiescente, il personaggio da morto si fa vivo.
Stanislavskij pone alla base dell’interpretazione due
processi: la personificazione e la reviviscenza. Con il primo l’attore assume
“il corpo” del personaggio: espressività fisica, voce, azioni fisiche coerenti.
Con il secondo analizza con l’immaginazione il testo suddiviso in sezioni,
identifica le emozioni e i sentimenti, li rivive, li proietta sulla
personificazione.
L’attore diventa il personaggio solo grazie alle
proprie qualità: immaginazione, memoria, fisicità, autocontrollo, sensibilità,
conoscenza e cultura. Il personaggio, quindi, fin che non è interpretato non
esiste; sulla carta esso è solo uno stimolo per l’attore.
Io dico che sulla carta egli è nel sepolcro e attende
che qualcuno lo risvegli e crei le condizioni affinché possa rialzarsi e fare
la propria parte.
Agli allievi fornisco un monologo-guida. Le battute
del personaggio sono annotate con azioni testuali e con azioni psichiche, seguite da un breve commento.
Azione testuale: tracciare il personaggio, fornire
indicazioni di massima su spostamenti, movimenti e azioni. Azione psichica: la
traduzione in azione fisica di ciò che si sente a livello emozionale e
sentimentale, non secondo una gestualità codificata, ma cercando la reazione
istintiva e primordiale del corpo senza filtri culturali.
Ecco un esempio.
CREONTE
riceve il peplo dai bambini e lo porge a Glauce Glauce, mia
figlia, indossa il peplo donato da Medea. postura regale, compie un ampio
giro ----- il dono rappresenta la resa di Medea, è convinto di avere trionfato
senza usare la violenza e senza danni eccessivi
accompagna Glauce allo specchio Corre allo specchio. Ne vedo
l’immagine riflessa. disegna con le mani l’incanto dell’amore per la figlia
----- nello specchio vede la bellezza della figlia come se fosse quella del
regno, un regno di felicità, armonia, pace
lo dice a Giasone Sono felice della sua felicità. abbraccia
il genero ----- non ha figli maschi, ma il matrimonio assicura la discendenza
va da Coro, il popolo Ora che sono anziano, posso ritirarmi in
un angolo d’ombra e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a
Giasone l’onere del regno. il Coro si alza, lui si siede e lo invita a
imitarlo, si guarda intorno, guarda lontano, come se vedesse il proprio futuro
tranquillo ----- è stanco del potere, da tempo cercava uno come Giasone per
affidargli il regno
scatta in piedi Qualcosa di terribile. si copre la testa, si
chiude gli occhi, si tappa le orecchie, non vuole vedere e sentire, un presagio
spaventoso ----- di colpo, collega l’incontro con Medea, la sua finta
remissività, la sua fama, i doni
corre da Glauce, l’accoglie tra le braccia, i due barcollano senza
meta La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a
terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. movimenti scomposti, segmentati,
la testa che si piega da ogni parte ----- cerca di fare una diagnosi, ma sa
spiegarsi che cosa succede
va a prendere il telo rosso e glielo avvolge intorno al capo Il
diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i
capelli. come un mare in burrasca, un’onda che si alza e si abbatte -----
pensa ansiosamente a come aiutare la figlia
ora anche Glauce è un’onda e i due invadono la scena Urlando,
si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla
carne. ----- un urlo interiore, il terrore, l’impotenza, il senso della fine
i due ora si scontrano, il telo li avvolge e li unisce come un
corpo solo La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. un tremito
convulso, la voce stridula e impastata ----- la decisione di non abbandonarla,
di morire con lei
il telo rosso si allunga intorno a loro Corriamo abbracciati e
diffondiamo l’incendio nella reggia. ora è come se danzassero avvinti -----
l’addio alla figlia
si fermano, si osservano, si scambiano accenni di carezze La
carne si stacca a brandelli dalle ossa. gesti fluidi e lenti, come se si
togliessero l’un l’altro la carne dalle ossa ----- la consapevolezza serena di
morire insieme
schiena a schiena, calano seduti Muoio così, abbracciato a lei.
E lei muore con me. ognuno dei due si passa le mani sugli occhi per
chiuderli ----- l’accettazione del fato
a occhi chiusi, respiro profondo Il mio ultimo pensiero è per
la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire
anche lei, ma cento volte di più. la testa cade, poi grugnendo la rialza e
aiuta Creusa a tornare al posto ----- il tiranno si è risvegliato, l’accettazione
della morte muta in rabbia e odio
Agli allievi fornisco anche un time-lapse testuale, ossia tutte le
battute di un personaggio in successione, avulse quindi dalle circostanze, che
vanno ricostruite. In quelle battute c’è tutta la linfa vitale per la
definizione del ruolo.
Ecco l’esempio di Creonte, preceduto da alcune indicazioni-stimolo che
facilitino l’analisi dell’attore.
ipocrita – maschilista – xenofobo – insicuro – vendicativo – legato
a Corinto, alle proprie cose, alla figlia – poco influente sul corso delle
cose, non ha il controllo che crede di avere - disgusto, diffidenza, ansia,
amore, misoginia, odio, onore, orgoglio…
CREONTE Glauce, mia figlia, indossa il peplo
donato da Medea. Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. Sono felice
della sua felicità. Ora che sono anziano, posso ritirarmi in un angolo d’ombra
e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a Giasone l’onere del
regno. Poi, qualcosa di terribile. La mia bambina impallidisce, trema in tutto
il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. Il
diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i
capelli. Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema
si fonde alla carne. La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. Corriamo
abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. La carne si stacca a
brandelli dalle ossa. Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me,
straziata. Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i
figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più.
CREONTE Non amo gli stranieri. Non parlano la nostra lingua, non adorano
i nostri dei, hanno usi diversi, non ci si può fidare e infatti sono ladri e
rissosi. Medea è della Colchide, la regione dell’oro che attrae avventurieri e
predoni, un paese oscuro dove si pratica la stregoneria.
CREONTE Anche Giasone è andato in Colchide con gli Argonauti, ma lui è
un eroe e l’ha fatto per riavere il trono di Iolco che gli spetta di diritto.
La sua discendenza aristocratica gli impone dei doveri, e lui si è sempre
comportato bene. Purtroppo dalla Colchide ha portato qui una donna maligna.
Quando gli ho offerto in moglie mia figlia Glauce, gli ho detto chiaro che
Medea e i suoi figli non devono rimanere a Corinto. E lui ha accettato senza
esitazioni. Così fa un uomo messo di fronte alle proprie responsabilità. Quando
il destino chiama, nessuna esitazione, dritto alla meta.
CREONTE Quella donna è pericolosa. Lo dicono i miei consiglieri, lo
dicono i sudditi. Un domani potrebbe montare la testa ai figli, convincerli che
il trono di Corinto spetta a loro. Capaci di suscitare le fiamme della guerra
civile. Noi siamo gente pacifica.
CREONTE Temo che con i suoi poteri faccia del male a me e a mia figlia.
Via, via, non la voglio qui. Vada a morire lontano dalla mia città.
Da
dove si parte? Dal silenzio, dal rilassamento, dalla disponibilità a “essere
invasi” dal personaggio, dall’accettazione che i compagni non sono più quelli
di prima, ma si dispongono a diventare (per buona parte) un’irreale realtà
individuale. Di conseguenza, ci si chiama con il nome del personaggio, non con
quello reale. I primi esercizi riguardano la presa di distanza da sé e la
capacità di mentire. Il teatro è menzogna; ma, come ha detto il sofista Gorgia,
la sua riuscita consiste nel fatto che lo spettatore sa e accetta di essere
ingannato. Quindi: più è falso, più è vero.
Ci si
muove in uno spazio che è come una scatola magica, un carillon con più
figurine: lo si apre ed esse ruotano sulla musica, fino a che lo si chiude di
nuovo. Lo spazio chiuso è rappresentato da un ampio telo bianco steso sul
pavimento: quello è il palcoscenico-pianeta dove per breve tempo i personaggi vivono
il proprio dramma, sempre come se fosse la prima volta.
Non
lo vivono per il pubblico, ma per se stessi e per gli interpreti. Il pubblico è
infatti negato e la performance non ne tiene conto. L’attore può dargli le
spalle, può abbassare la voce, libero da ogni costrizione di comunicazione con la
platea. Il teatro è un gioco, con le sue regole e la sua astrazione dal reale. Tutto
ciò comporta la mancanza di una scenografia: solo il “suolo” bianco e gli
oggetti, bianchi: scaletta per Medea, sedia girevole per Creonte, cubi per il
Coro... L’unica macchia vivace è un telo rosso.
Ma
non tutti gli attori della compagnia assumono il ruolo di un personaggio
tragico. Tre di loro si muovono all’esterno del suolo bianco, portandosi dietro
uno sgabello che consente loro di sedersi e diventare spettatori. Si spostano
in platea, interagiscono con il pubblico. Il loro compito è di spiegare,
commentare, esprimere reazioni emotive. Sono mediatori drammatici, fanno da
raccordo tra il luogo chiuso della scena negata e il pubblico, nello stile
brioso degli intrattenitori.
Una
formula che abbiamo già sperimentato con “Le Baccanti”.
Finora,
abbiamo punti d’inizio, complessi e stimolanti, ma non ancora una tecnica
completa e strutturata. Ci sono idee da sviluppare, come la gestione della
recitazione. Sono previsti ben tre cori. Uno è quello classico emanato dal
testo; in questo caso è il popolo di Corinto. L’altro è quello dei
mediatori-intrattenitori, la cui funzione scaturisce comunque dalla tragedia
classica: fornire informazioni, chiarire punti oscuri, esprimere punti di vista
ed emozioni. Ho intenzione di rendere corali anche alcuni momenti, quando tutti
i personaggi riecheggiano o contrastano l’espressione emotiva di uno di loro.
Questa conduzione corale interesserà anche i movimenti, ancora non so come
nello specifico. D’altronde, nessuno di loro è personaggio senza gli altri. C’è
un destino comune, la storia di ognuno che si intreccia con quella degli altri,
una coesione, una sinergia nel bene e nel male che fa sì che nel luogo chiuso
vi sia, alla fine, un solo personaggio, quello dello spirito dell’opera.
E i
costumi? Nessuna scelta estetica che fa tanto sfilata di moda. E certo nessun
mimetismo. Ecco qualche idea iniziale. Creonte è però già cambiato: un enorme
soprabito di pelle nera e un elmo tipo longobardo o ostrogoto, trovato al
mercatino dell’usato di Feriolo.
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