Martedì 4 ottobre 2016. Aula Teatro dell’I.C. Verjus di
Oleggio. Arrivano alla spicciolata, alcuni da casa, altri direttamente da
scuola; e questi devono fare merenda. L’orario è dalle ore 16.00 alle 17.45.
Eccoli. In elenco erano diciotto. Poi due hanno dovuto ritirarsi (con enorme
dispiacere) per altri impegni, uno non si fa vivo. Sono quindi in quindici,
quando ne volevo tredici. Ci penserò. Dalla quarta elementare alla seconda
media, età 9 - 12. Si comincia. Li faccio sedere in un cerchio largo. Ripeto
quanto ho già esposto durante l’incontro con i genitori. Il laboratorio prevede
la messa in scena di una Medea tratta non solo da Euripide, ma anche da Seneca,
Grillparzer, Wolf, Alvaro e altri. Il testo non ha subito una riduzione ad hoc
destinata ai bambini. Quindi si tratta di un lavoro difficile e ambizioso. Sono
necessari disciplina, impegno, autocontrollo, passione. Il tempo va sfruttato al
meglio, non si viene per giocare e chiacchierare. Al termine di ogni incontro,
tre allievi si fermano per passare l’aspirapolvere e lavare il pavimento.
Presento i personaggi. Leggo il mito degli Argonauti e le
vicende relative all’incontro di Giasone con Medea. Accenno alla regia: non c’è
fondale; uno spazio, chiuso, riservato alla tragedia segnalato da un enorme
telo bianco steso sul pavimento; una scaletta, due cubi, una sedia da ufficio,
tutto bianco; più un telo rosso; l’altro è lo spazio dei tre narratori, che
possono spostarsi tra il pubblico, portandosi dietro uno sgabello bianco per
diventare a loro volta pubblico.
Bene, tutti attenti e interessati. Ma all’inizio è sempre
così.
Infine, introduco la tematica principale del laboratorio: il
personaggio. Chi è il personaggio, che cos’è l’interpretazione, che tipi di
interpretazione ci sono, come sarà il nostro personaggio.
Sei di loro sono con me già da uno o due anni, gli altri
hanno avuto qualche piccola esperienza di teatro, oppure nessuna.
Propongo alcuni esercizi da effettuare in piedi e in cerchio,
per amalgamare il gruppo e affrontare gli stati emotivi più sensibili senza
forzare la mano.
Mani sulle spalle del partner davanti, come nel “trenino”;
si parte e al mio segnale il ragazzo che ho indicato compie un movimento (di
spalle, di gambe, di bacino…) che deve essere ripreso da quello dietro e
trasmesso a tutti gli altri, in successione. Il valore dell’esercizio non è (io
mi riferisco sempre all’età dei miei allievi) tanto nell’imitazione, quanto nel
mantenere il contatto; alla loro età, non ci si tocca più con facilità e
spontaneità come quando erano più piccoli. Il contatto sportivo è diverso e
quello di gioco è pressoché scomparso, dato che i ragazzi non trascorrono più
il tempo libero in compagnie chiassose e vagabonde.
Il secondo esercizio riguarda lo sguardo, e quante volte
negli anni passati ho affrontato questa difficoltà, di guardare fisso negli
occhi un partner. Si richiede di agganciare lo sguardo di qualcuno e di tenerlo
incatenato per cinque secondi, conquistando un punto. I più sicuri e
intraprendenti accumulano cinque punti in pochi minuti, gli altri due o tre,
alcuni solo uno. Ma tutti hanno superato l’ostacolo. Ripeto l’esercizio per
consentire a quelli con un solo punto di aggiudicarsene un altro. Per
concludere, il gioco delle smorfie silenziose: a sguardo agganciato, chi ride
per primo è fuori.
In cerchio seduti. Al segnale, alzarsi e spostare la sedia
davanti a sé senza fare rumore. Matteo mi domanda a che cosa serva. Gli rispondo,
ma più che la risposta è l’esecuzione a far capire la validità. La prima volta
sono rumorosi i corpi in movimento e fanno rumore le sedie poggiate male sul
pavimento. Faccio riflettere su come sia questione di concentrazione e di
strategia. Devo controllare il corpo, trovare il modo di alzarmi senza fare
scricchiolare la seduta, poggiare la sedia una gamba alla volta per evitare
contatti bruschi. I miglioramenti sono immediati.
Per scaldare il gruppo: buttare le braccia in avanti e
gridare “dà!” a ogni passo in sincronia fino a raggiungere uno straccio rosso sul
pavimento al centro della stanza. Il primo tentativo è disordinato, sia nella
coralità sia nel movimento. Impongo cinque passi, dato che l’impeto li porta a
raggiungere il centro con solo due. Indico chi lancia il primo grido, ma lascio
a lui la decisione di quando iniziare. Invito gli altri a tenerlo d’occhio, a
valutarne la postura e la respirazione, per prevedere la sua attivazione.
Solo alcuni dei presenti si conoscono tra di loro; c’è
un’allieva di un’altra scuola e un’altra di Arona (da quest’anno il laboratorio
è aperto a tutti; quando l’anno prossimo lo si saprà, forse avrò problemi a
gestire il numero dei partecipanti).
Li invito a presentarsi con poche parole. Dapprima secondo
verità e realtà; poi mentendo, inventandosi cioè un’identità, dato che l’attore
è un bugiardo che dice di essere chi non è (ciro Gorgia (il buon artista è
quello che riesce a ingannare gli spettatori, e i buoni spettatori sono quelli
che si lasciano ingannare dall’artista). Il ritratto di sé è sempre povero e si
riduce a: nome, indirizzo, sport praticato, alcune preferenze. Il ritratto
inventato svela una strategia piuttosto comune, anche se involontaria:
l’imitazione. Se uno dice di avere una madre che lavora alle Poste, facile che
si ripeta per altri tre, come infatti avviene. Li invito a riflettere su come
sia opportuno evitare di copiare, sforzandosi di cercare sempre una propria
originalità.
Ma non sono mancate le eccezioni: alcuni trasformano la
presentazione di fantasia in un personaggio che attira subito l’attenzione
degli altri.
Stiamo già facendo teatro.
Il tempo è tiranno. Si vorrebbe continuare a giocare,
inventare, fare qualcosa insieme, ma già alcuni genitori sono in attesa fuori
della porta a vetri. Ecco, torniamo nella realtà. A martedì!
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