Aquilino
ATTORE E PERSONAGGIO
L’attore dall’antichità al secolo XIX
Da
dove cominciare per affrontare un dibattito sul teatro? Dal testo, dall’autore,
dal pubblico, dallo spazio, dall’incidenza sociale, dallo sviluppo storico…?
Dall’attore, senza dubbio. Il teatro è fatto di personaggi, ma non è al
personaggio che il teatro sembra appartenere, bensì all’attore. Egli se ne è
impossessato e non se l’è più lasciato sfuggire, conseguendo sul finire del
secolo diciannovesimo l’apice di una gloria che dura tuttora, ora legata più al
cinema e alla televisione che al teatro in sé. Il teatro è stato spinto
indietro dalla prepotenza dell’emozione di massa. Lo stesso è accaduto nella
Roma imperiale. Lo spettacolo di massa, arena e circo, uccide l’attore; quello
che ne rimane è dissolto dal fanatismo religioso: anche questo sta per avvenire
di nuovo? Tollerato nel cinema e nella televisione, l’attore di teatro è più
facilmente il bersaglio dei moralisti e dei politici. La presenza fisica e non
virtuale, con la corporeità invadente, lo rendono troppo vero e incisivo perché
lo si possa ignorare e perdonare. Nel dilagare della pornografia e di ogni
estremismo online, è sufficiente un nudo di palcoscenico o una parola sventata
per provocare un’interrogazione parlamentare.
La
voglia di censura contro il teatro non si è mai attenuata.
Nel IV
secolo l’attore fa in fretta a portarsi sotto i riflettori, cacciando il Coro
dall’orchestra e insediandosi in maniera sfacciata sul proscenio, creando con
la propria magia lo schermo invasivo che diventa sempre più laico, libero,
incisivo. Anche allora lo spettacolo è di massa, dato che nel teatro di Dioniso
si avvicenda l’intera popolazione di Atene; ma quale differenza con la plebe
romana o il formicaio inconsulto dei nostri stadi dove in uno pseudo baccheggiare si venerano atleti e
cantanti! Oggi il popolo non ha nemmeno bisogno di maestose architetture, per
sottomettersi agli incantesimi dei potenti: in ogni casa ci sono un televisore
e un collegamento internet.
Nata
come declamazione di miti, erede della semplice tecnica dell’aedo (poi
nobilitata dal rapsodo con le doti di mnemotecnica e antologizzazione dei
brani), la recitazione è legata al canto e alla danza. Soprattutto al canto,
dato che le tragedie del quinto secolo, per la nostra sensibilità, sono più
simili a opere liriche che a drammi; il testo è infatti in metrica.
La
declamazione è al servizio del testo e il testo nasce, come d’altronde la
performance espressiva, dall’enthusiasmos che si manifesta nell’autore/attore
grazie alla presenza del dio.
Ce lo
spiega Platone nello “Ione”, dove oppone al soggettivismo artistico della techne
l’oggettività ideale dell’ispirazione: “Non per arte dicono queste cose, ma
per virtù divina (…) Il dio togliendo loro il raziocinio si serve di costoro, e
di chi dà oracoli, e dei sacri indovini, come ministri”. Autore, attore e
sacerdote-sciamano sono sullo stesso livello, fanno da tramite tra la divinità
e l’uomo.
Il
poeta invasato vive a livello emozionale ciò che scrive, come racconta Ione: “Ogni
qual volta narro qualche sventura, gli occhi mi si riempiono di lacrime; quando
invece qualcosa di spaventoso e terribile, mi stanno dritti i capelli per la
paura e il cuore mi batte forte”. E il pubblico lo segue empaticamente: “Li
vedo, dall’alto della tribuna, piangere e guardare in modo torvo e spaventarsi
con me alle mie parole”. Che cosa trasmette quindi la divinità all’uomo? Più
emozione che filosofia o precetto morale. Come succede con il magnetismo, ogni
elemento della catena espressiva attrae gli altri: autore, attore, pubblico.
“Quello di mezzo sei tu, il rapsodo e attore, il primo è il poeta stesso. Il
dio, per mezzo di costoro, trascina l’anima degli uomini dovunque voglia,
facendo derivare dall’uno all’altro questa forza”. Questa potente comunicazione
superiore non è certo esclusiva dell’Ellade; anzi, risulta antecedente nelle
regioni a settentrione (i primi sciamani provengono dalla Siberia) e in Oriente,
dove Shiva, il locale Dioniso, libera le emozioni con canti, danze e
libertinaggio gioioso.
Non è
questo il contagio di Artaud? Un’epidemia di peste, voleva Artaud, che
distruggesse il corpo malato di ipocrisia del pubblico borghese e lo
rimpiazzasse con una persona nuova, libera, aperta. La sua era una rivoluzione
velleitaria dettata dalla propria diversità, dal proprio stare male al mondo; e
non si rendeva conto che il pubblico è in grado di ingurgitare qualsiasi
pozione senza subirne il maleficio. I successivi tentativi di cambiare la
società attraverso un teatro nuovo e “contagioso” sono stati in fretta
inglobati nel sistema dello spettacolo, ingabbiati nelle storie del teatro,
fagocitati dagli impresari e digeriti dal pubblico più ostile, capace di
trasformare in beniamini gli istigatori e gli eversori. Un’epidemia di emozioni
divine volevano gli antichi, un “toccare il cielo con il dito” misterioso e
nobilitante. Ma guerre e stragi, invece di essere fermati, venivano cantati;
come ancora succede.
Il
teatro non salva, indica solo delle strade e invita a percorrerle; alcune di
queste sono le autostrade del potere, dato che il termine “teatro” non indica
un luogo preciso, ma un territorio sconfinato in parte inesplorato e selvaggio,
un labirinto nel quale non tutti vogliono perdersi, una geografia
dell’immaginario che molti vogliono degradare ad atlante della colonizzazione.
Forse
gli dei ispirano solo le persone sbagliate, quelle prive di potere. Altrimenti,
come potrebbero governare, senza vergognarsi, un’umanità infelice e straziata,
succube del proprio bisogno di un mondo ultraterreno forte e beato nel quale
traslocare post mortem? Se gli dei possiedono un tale potere invasivo, perché
non lo usano per influenzare le decisioni dei potenti? Lo stesso avviene nei
monoteismi: Dio, o qualcuno della sua corte, dialoga solo con i semplici, i puri
di cuore. Non mostrerebbe più misericordia se si mettesse in comunicazione
diretta con i malvagi?
Scrive
Platone nel “Fedro”, a proposito della mania o possessione da parte
delle Muse: “Invasando un’anima sensibile e intatta, la ridestano conducendola
fuori di sé nell’entusiasmo bacchico. Ma chi giunge alle porte della poesia
privo della mania delle Muse, convinto di essere un buon poeta grazie alla
tecnica, resterà non iniziato, e la poesia di chi è in sé sarà oscurata da quella
di chi è in stato di mania”.
A
dispetto di ogni divismo, Platone è chiaro: il poeta è grande solo finché si
trova sotto l’invasamento (l’ispirazione); poi torna a essere un uomo come
tutti gli altri, magari perfino gretto e fatuo. E il tecnico può scrivere versi
perfetti, ma che restano privi di calore e profondità se non interviene la vera
ispirazione.
La
poesia è quindi “divina” solo quando l’artista si rende “assente” riguardo alla
propria soggettività. L’arte non appartiene all’individuo, ma alle categorie
superiori. Quali dei operavano questo prodigio, di elevare l’uomo dalle proprie
miserie per fargli esprimere il senso del soprannaturale? Senza dubbio Apollo e
le Muse per i tragici e i lirici; e Dioniso per i comici.
Posso
trarre due conclusioni.
La
prima è che tanto fervore mistico ha fatto da alibi per i ricercatori in campo sia
creativo sia espressivo. I poeti e i musicisti non avevano bisogno di
alimentare un avanguardismo malvisto (Euripide ci proverà e sarà criticato in
nome della tradizione), dato che a tutto provvedeva il dio; quando c’è di mezzo
la religione, scienza e conoscenza arrestano il loro slancio e cadono in
letargo.
La
seconda è stata recuperata due millenni dopo, quando i teorici novecenteschi
hanno, in modo non sempre chiaro e coerente, invitato l’attore a fare spazio al
personaggio sacrificando in parte sé stesso. Un esempio è Stanislavskij: fa
sorgere il personaggio dall’attività psichica dell’attore, attivato in tutte le
proprie facoltà; e allo stesso tempo sostituisce a lui il personaggio, perfino
durante il processo di creazione. A me sembra molto importante questa censura
dell’Io attoriale, di solito piuttosto invadente. È come se l’attore
organizzasse in modo cosciente e sereno il proprio suicidio, facendo nascere il
personaggio da sé stesso e, una volta nato, cedendogli il posto vitale da lui
occupato. In altre parole, l’attore dà tutto sé stesso al personaggio, che ne
prende il posto sulla scena.
Ma se
l’attore deve scomparire in quanto identità reale, non deve farlo solo per il
personaggio, ma per tutto ciò che costituisce la scena, ossia il mondo in cui
rinasce. Il dio non è più una proiezione olimpica, il dio è il testo dal quale
l’attore trae l’energia per rinnegare sé stesso, cambiare, interagire con i
partner e la scena per costruire il teatro. L’invasamento non è fisico; essendo
innescato dal testo che procede sulla via della comprensione e
dell’interpretazione personale per giungere alla suggestione scenica che attiva
la compartecipazione fisica come dinamica corporale e vocale e interazione con
partner-spazio-oggetti, posso considerarlo psicofisico. Elimino cioè ogni
gerarchizzazione, considerato che già la lettura è un’attivazione corporea non agita.
Ma
come appariva un attore davvero invasato dal dio?
Ci
racconta Aulo Gellio nel sesto libro delle “Notti attiche”: “Visse in terra di
Grecia un attore di grande rinomanza, di nome Polo, superiore agli altri per la
limpidezza e il fascino del gesto e della voce. Recitò con appassionata bravura
le tragedie dei poeti illustri. Ebbe la sventura di perdere il figlio, amato
quant’altri mai. (…) Doveva rappresentare in Atene l’Elettra di Sofocle;
e doveva portare l’urna che si credeva contenesse le ossa di Oreste. Indossate
le vesti luttuose di Elettra, tolse dalla tomba le ossa e l’urna del figlio e
abbracciandole come fossero di Oreste riempì la scena non di finzioni, ma di
strazio e di gemiti autentici e sinceri. Si credeva di assistere a uno
spettacolo teatrale: ma protagonista fu il dolore”.
Non è
questo un caso di psicotecnica, memoria emotiva e reviviscenza secondo il
metodo di Stanislavskij, ma due millenni prima?
Dal
punto di vista del mestiere, quali doti doveva avere l’attore tragico? Una voce
chiara e forte (sappiamo tutti che Sofocle dovette limitarsi a scrivere senza
più interpretare le proprie opere, a causa della fragilità della voce), ma
forse nemmeno eccezionale, considerata l’acustica straordinaria dell’edificio
teatrale greco; una voce ritmica, dato che le parti del Coro e molte di quelle
dei personaggi venivano cantate. Inoltre, una capacità mimica stimolata ed
evidenziata dall’uso della maschera (che impediva l’espressione facciale delle
emozioni). Sembra poco, ma le testimonianze ci dicono che il grado di realismo
era alto, smentendo chi si ostina a portare sulla scena la quotidianità spacciandola
per verismo; a volte è più vero un gesto stilizzato che non una sequela mimica
volgare. Atro non c’è. Nessun manuale, nessuna cronaca di scuola.
Nel
449 a.e.v. Atene decide di premiare,
oltre al poeta e al corego, anche l’attore ritenuto migliore. Il primo
vincitore è un tale Eraclide. Nasce quindi l’attore professionista. Un secolo
dopo Aristotele si lamenta che i concorsi per attori sono più importanti di
quelli per gli autori. Il filosofo non ama gli attori, che giudica perversi,
stolti e ubriaconi (la prima stroncatura della categoria nella storia, ripresa
secoli dopo con ancora più veemenza). In ogni tempo si condanna l’attore
anonimo, mentre si salva quello divenuto famoso, il divo corteggiato dai
potenti.
Quali
sono i criteri di giudizio seguiti dalla giuria nell’agone tragico? Anzitutto,
la potenza vocale. Poi, la dizione perfetta e la capacità di modulare la voce
per adeguarla al personaggio. Si tratta di adottare i timbri e i volumi consoni
alle emozioni che si devono esprimere. Aristotele cita come esempio di
naturalezza il grande Teodoro, specialista in ruoli femminili, la cui voce sembrava
essere proprio quella di una donna in ambasce.
Infine
la gestualità che, quando si indossa la maschera, deve supplire alla mancanza
di mimica facciale. Ci rimane qualche schema di danza, ma niente sulla gestica.
Ben
presto l’attore si organizza in associazioni a difesa del proprio status.
Ecco
un decreto dell’Anfizionia delfica relativo agli artisti di Dioniso ateniesi,
della prima metà del III secolo a.e.v.: “Gli artisti di Dioniso di Atene godono
in ogni tempo d’immunità personale e di esenzione dai tributi; nessuno di loro
in nessun luogo né in pace né in guerra può dunque subire arresto o confisca
dei beni, ma devono essere loro concesse stabilmente esenzione fiscale e
immunità personale. Gli artisti siano esenti dall’obbligo militare e da ogni
tributo, perché le feste e i riti in onore degli dei, ai quali gli artisti sono
addetti, si possano svolgere nei tempi stabiliti”.
Quale
differenza con il trattamento riservato agli attori nel Medioevo!
L’arte
teatrale non è quindi un divertimento popolare, ma una componente dei complessi
riti (processione, canti e danze, sacrifici, spettacolo…) che dovevano
assicurare la protezione degli dei e la coesione sociale. Forse goderono
maggiori riguardi gli attori che i tragediografi: ricordiamo che Eschilo ed
Euripide furono censurati e passarono i loro guai con la giustizia.
La
sacralizzazione e la ritualizzazione assicurano protezione alla creazione
artistica, ma la pongono sotto una campana di vetro ostacolandone l’evoluzione.
I primi tentativi avanguardistici sono guardati con sospetto: la tradizione, come sempre, viene erroneamente
considerata un pilastro inamovibile, quando poi basta un decreto per stravolgerla
e imporre un nuovo corso. Solo alle autorità civili e religiose è concesso il
cambiamento: il popolo è condannato all’immobilità intellettuale ed etica.
C’è
già, tuttavia, chi condanna l’arte teatrale come attività ingannevole e
menzognera.
Plutarco
ci riporta il pensiero di Solone: “Solone, che era per natura amante di udire e
di apprendere, dandosi ancor più in vecchiaia al passatempo e al divertimento,
nonché ai simposi e alle manifestazioni artistiche, andò a vedere Tespi che
recitava un dramma. Dopo lo spettacolo gli si avvicinò e gli domandò se non si
vergognava di dire tali menzogne al cospetto di tanti spettatori. Tespi rispose
che non v’era nulla di grave nel dire e nel fare per gioco tali cose. Allora
Solone, battendo con forza la terra col bastone: Lodando, disse, e onorando in
tal modo questo gioco, presto lo troveremo attuato nei contratti d’affari”
(Plutarco, Vite parallele, Solone, 29,6, Utet).
Ed è
andata a finire proprio così.
Ma
lasciamo Tespi (con lui nasce il teatro in forma itinerante, per la gloria dei
teatranti vagabondi di tutti i tempi, e delle idee che non mettono mai radici,
ma si spostano veloci superando ogni barriera) e torniamo al nostro attore del
quarto secolo.
Non è
più un interprete passivo, guidato dalla divinità, che racconta una storia
mitica trasmettendo al pubblico il testo ispirato e sacralizzato. L’attore ora
è un creativo, con tutto ciò che di bene e di male ne consegue. Non si limita a
escogitare nuove modalità espressive e di rapporto con il pubblico, ma giunge a
modificare il testo adattandolo alle proprie esigenze e alla propria personale
esegesi. Il suo protagonismo influenza l’elaborazione dei costumi, la
scenografia, lo spazio scenico, le musiche e le luci. La sua intraprendenza,
insomma, smuove tutto quanto il teatro, dato che scopre che è tutto da
reinventare.
Questo
è senz’altro positivo, ma di sicuro la sua centralità porta con sé i capricci
del divismo che ora, più nel cinema che nel teatro, nutrono la sua fama
ingorda.
La
struttura della tragedia classica non gli va più bene, a causa soprattutto
dell’importanza del Coro, che impone ritmi e spazi; e del corego che pretende
di comandare, dato che paga; e dell’autore che s’impiccia di tutto, volendo
perfino recitare e coordinare il coro. Il teatro non si regge sul testo, ma
sull’uso che ne fa l’attore; il teatro è l’attore.
Egli
critica le parti più letterarie e dirige la propria attenzione sulle scene
madri e sui dialoghi che il pubblico riconosce come attuali e comprensibili.
Immediatezza ed emozione, e quindi popolarità, diventano l’obiettivo della
recitazione.
Ormai,
gli dei devono fare a meno del loro intermediario. Sarà la nuova classe dei
sacerdoti a trasmettere e interpretare la volontà divina: odi, ditirambi e
tragedie sono sostituiti da inni e formule ritualistiche. Altrove, profeti
ispirati continuano a mettere per iscritto la volontà di un dio unico, quel
Geova o Jahvè che nei suoi rapporti burrascosi con il popolo ebraico non
prevede certo il teatro, attività passibile di scomunica: “Beato colui che non
si è recato ai teatri e ai circhi degli stranieri”, è scritto nella Avodah
Zarah, un trattato del Talmud. Invece la volontà della poligamia ellenica è già
stata scritta e ora non può che avviarsi verso il proprio declino. Gli dei
muoiono e il teatro sopravvive.
Se
l’evoluzione della tragedia verso il dramma è lenta e frammentaria, la commedia
fornisce un modello di piena soddisfazione: caratterizzazioni, fisicità, più
dialoghi che monologhi, istrionismo e partecipazione vivace del pubblico. Ce
n’è abbastanza per dare soddisfazione all’attore più sviscerato.
Già
fra gli attori tragici, comunque, come ci narra Aristotele nella Poetica
(26, 1461-62), c’era chi si agitava come una scimmia o gesticolava come una
prostituta con l’unico scopo di accattivarsi gli spettatori (il più vituperato
è Callippide, colpevole per di più, a detta delle malelingue, di avere donato a
Sofocle un grappolo d’uva con uno dei cui acini il tragediografo si è soffocato).
Demostene porta a esempio il decoro e la compostezza di Solone, Pericle e
Temistocle e raccomanda di non agitare troppo le mani. Ci penseranno i romani a
ipnotizzare il pubblico con una gestualità perfino esagitata, nonostante i
richiami al decoro da parte di Cicerone.
L’interpretazione
di personaggi ignobili e immorali pone una questione etica che preoccupa
Platone. Nella Repubblica (395) mette in guardia gli attori contro
l’imitazione di personaggi spregevoli.
“Dovranno
guardare a persone forti, temperanti, pie, generose e simili; rifuggiranno
invece dal seguire e dall’imitare la volgarità e ogni forma di bassezza, per
timore che dall’imitazione venga loro il contagio del vizio”. Ancora il
contagio, ma non quello catartico, bensì un’epidemia morale che diffonde
malcostume. E ancora: “Non vogliamo che imitino una donna e la rappresentino
nell’atto di offendere il marito (…), oppure di abbandonarsi a pianti e lamenti
nella sventura; men che meno poi permetteremo che la si rappresenti malata, o
in preda a passione amorosa, o sorpresa dalle doglie del parto”. Sembra il
catechismo dello spettacolo; gli stessi concetti esprimerà Rousseau venti
secoli dopo. “Né vogliamo imitazioni di schiavi e dei loro atteggiamenti
servili (…) Né, evidentemente, di uomini malvagi e vili (…) Né gli atti e le
parole dei folli (…) E ancora: dovranno forse imitare i fabbri e gli altri
operai? O i rematori delle navi pesanti e altri mestieri simili? Imiteranno
cavalli che nitriscono, tori che mugghiano, o frastuono di torrenti, o scroscio
di onde marine, o rimbombo di tuoni?”
Ha
inizio (così presto!) l’era senza termine dell’attenzione censoria del potere
verso le forme artistiche più coinvolgenti e ritenute pericolose, prima fra
tutte il teatro. Dopo Platone una pausa di libertà espressiva, ma i primi padri
della chiesa riprendono l’offensiva contro il teatro figlio di Satana.
L’interprete,
predica Platone, deve essere un uomo onesto e di valore, che educa il popolo,
concentrato sul contenuto del messaggio e non sugli aspetti spettacolari e di
piacere della rappresentazione. Un teatro di regime, svuotato della dimensione
artistica, equiparato alla pedagogia istituzionalizzata, moraleggiante e
convergente, reazionario quanto uno slogan statalista.
“Se
mai ci fosse un poeta dotato di sì prodigiosa abilità da essere capace di
tramutarsi in mille forme e di prodursi in tutte le imitazioni possibili, e se
costui, poniamo, si presentasse nella nostra città, e volesse recitare le sue
composizioni, noi gli faremmo solenne riverenza, come si conviene a uomo così
piacevole, meraviglioso e addirittura divino, ma gli diremmo che in mezzo a noi
un essere siffatto non ci sta e non ci può stare, e dopo avergli sparso profumi
e messo bende sacre sul capo, lo spediremmo in un’altra città; quanto a noi ci
rivolgeremmo a un poeta più austero, a un narratore meno piacevole forse, ma
certamente più utile, il quale imiterà per noi il modo di esprimersi dell’uomo
onesto”.
Povero
Platone! Se potesse visionare ora le serie americane in cui i delinquenti sono
protagonisti rispettati e amati, non proverebbe il desiderio di bruciare le
proprie opere, ignorate e derise dall’umanità (pubblico) che all’onestà
antepone il successo, la ricchezza, il potere e il piacere?
O se
potesse assistere alle parate spettacolari di maoisti, stalinisti, fascisti e
hitleriani, non entrerebbe in crisi?
Il
teatro, una volta allontanatosi dalla dimensione mitico-divina, è un fiume dai
cento affluenti, invano arginato dai moralizzatori istituzionali che alla
libera espressione antepongono l’ideologia politica e religiosa.
Si
delineano già le future linee di sviluppo e soprattutto i conflitti e le
questioni irrisolte.
Ho
citato Artaud e Stanislavskij, ma il contagio soprannaturale tocca da vicino
anche Grotowski: il suo teatro-non teatro sciamanico, di elevazione a una vita
interiore più ricca, è un ritorno al rito danzato e cantato di immedesimazione
dionisiaca e di condivisione dei doni divini, ove il pubblico è ammesso solo
come co-officiante, dato che l’aspetto spettacolare non ha più alcuna
importanza, oltre a quella di offrire strade nuove per un uomo nuovo.
Dopo
i tre tragediografi del quinto secolo, si avvia già la problematica del
personaggio come persona reale da far rivivere sulla scena; e nasce il divismo;
e l’istrione incantatore che affascina la folla; e il dibattito sugli effetti
(catartici e non) dello spettacolo sul pubblico; e le mille problematiche della
tecnica attoriale; e le due dimensioni del testo drammatico e di quello
drammaturgico; e il rapporto fra teatro e istituzioni; e così via.
Insomma,
la storia del teatro non presenta un’evoluzione darwiniana dagli organismi più
semplici a quelli complessi; ma è un continuo saltare avanti e indietro per
riprendere e sviluppare elementi del passato, oppure mostra salti in avanti audaci
e ancora infecondi; e fa sospettare che tutto quanto il teatro, in tutti i suoi
meravigliosi e misteriosi componenti, sia già presente nell’Atene del quinto
secolo.
Torniamo
al nostro attore tra il quinto e il quarto secolo.
Ora a
disposizione non ha solo i tragediografi, ma le commedie di Aristofane. Gli
eroi tragici parlano molto, agiscono meno e non ridono mai. Ora i personaggi
agiscono sempre e ridono spesso. Dalla parola all’azione, dalla parola seria a
quella leggera, dalla tragedia alla comicità.
Ciò
che affascina l’interprete è la possibilità di esprimere tutta la gamma delle
emozioni e dei sentimenti riferiti non a figure mitiche, ma a
personaggi-persone reali. L’attore mette in scena il presente, non più il
passato. L’immediatezza di comprensione e di piacere da parte del pubblico lo
gratifica e lo stimola a migliorare sempre più l’imitazione del vero, anche se spesso
in modo parossistico, parodistico, surreale.
In
breve, il pubblico ritrova sulla scena il politico o il vicino di casa, si
entusiasma e venera un interprete-divo, acclamando i favoriti della scena
insieme a quelli dello stadio. Sono passati appena ottantacinque anni dal primo
concorso tragico organizzato da Pisistrato e vinto da Tespi, mentre la prima
tragedia che possediamo completa, i Persiani di Eschilo, è di ventitré anni
prima. Il teatro, con l’avvento dell’attore, non appartiene più al mito. Se ne
stacca per seguire gli umori della politica, degli interpreti, dei registi e
soprattutto del pubblico. Generato dal pubblico, e mantenuto in vita dal
pubblico, l’attore non recita più per gettare un ponte tra l’uomo e il dio, ma
tra sé stesso e lo spettatore.
Tanto
potere sulle labbra di un uomo solo non può, con il tempo, che preoccupare i
reggitori dei destini, che non sono più gli dei, ma i governanti. L’atleta si
esibisce e vince in silenzio, senza veicolare giudizi e concetti; ma l’attore,
istigato dall’autore, oppure esprimendo la propria creatività, può spargere
semi tossici. Non per niente gli attori si tutelano entrando a far parte di
associazioni e corporazioni. Nei secoli, molti di loro sono comunque
sacrificati alla ragion di stato; o all’ego paranoico di un qualunque potente
laico o religioso. In occasione del debutto dei Cavalieri, per paura del
politico Cleone oggetto della satira, un demagogo sostenuto dal popolo, Aristofane
non trova un attore che sostenga la parte di Paflagone, un servo ipocrita e
prepotente che spadroneggia in casa. Aristofane stesso, forte di un’esperienza
giovanile, recita la parte.
SALSICCIAIO
- Mi dici come diverrò grand’uomo, io che sono un salsicciaio?
SERVO
– Proprio per questo! Perché sei piazzaiolo, furfante e temerario!
SALSICCIAIO
- Mi solletica, questa profezia! Ma mi stupisco d’essere capace di
amministrare.
SERVO
- Fa’ quello che fai già. Tutti gli
affari intruglia insieme, insaccali, accontenta sempre il popolo, da bravo
cuoco, con belle paroline, e tiralo dalla tua. Hai voce sgangherata, sei nato
male, sei di piazza. Hai tutto quel che ci vuole a reggere il governo.
La
funzione attoriale passa da quella religiosa a quella civile. La commedia si fa
satira e la satira è mal tollerata da chi si sente al di sopra degli altri e
non tollera critiche.
Le
commedie di Aristofane sono ancora legate alla forma scenica della tragedia:
danza, canto, variazione continua di ritmo. Due generazioni dopo si passa al
teatro di parola e al tipo si sostituisce il carattere e il carattere conduce
al personaggio e alla sue problematiche. La musica non scompare; anzi, è sempre
più invadente; e non per mettersi al servizio del coro o del cantante, ma per
sostituire la parola creando atmosfere proprie e imitando la natura. L’attore e
il musicista si presentano anche da soli al pubblico, nel recital. Il solista
diventa il virtuoso, una figura che si ripresenterà nei secoli (dal giullare
all’entertainer, dalle colorature di Mozart alla declamazione di Sarah
Bernhardt). Anche il mimetismo subisce la critica di Platone che accusa l’arte
di essere imitazione dell’imitazione del mondo ideale.
Musica
e parola si ritrovano insieme solo in generi specifici, mentre il dramma e la
commedia si strutturano sulla parola recitata.
L’attore
e il personaggio, dunque. Il personaggio vivo sulla scena. Ma non sono già
personaggi le figure tragiche? Medea non è un personaggio? Sì, ma cambiando il
rapporto con l’attore, cambia la sua consistenza. L’attore tragico, più che
interpretare in senso moderno il personaggio, lo ricostruiva con le parole,
come se lo additasse da lontano, avvolto dalle ombre del Tartaro. Era un
interprete che portava una maschera, quindi impossibilitato nella mimica
facciale; la cui gesticolazione era misurata; la cui compostezza di rigore; la
voce addomesticata per sottolineare i ritmi del testo o la sua cantabilità.
Insomma, non era una persona che si potesse incontrare al mercato quella che
lui portava sulla scena.
Era
una persona morta.
Assente.
L’attore
era un medium che prestava corpo e spirito a una figura eroica morta per farne
rivivere le vicende.
Atene
richiedeva che i personaggi e gli avvenimenti delle tragedie fossero lontani
nel tempo e nello spazio, salvaguardando possibili contaminazioni con lo
scenario politico e sociale. Ora prevale invece la tendenza opposta. Sono
quindi “vivi” i personaggi dei drammi contemporanei? Ritengo che ogni
personaggio, antico e moderno, non possa ritenersi vivo, dato che al di fuori
dell’opera egli non è nulla, in nessun tempo e in nessun luogo. Come se fosse
una persona morta della quale si ricordano alcuni episodi. Ogni testo
drammatico è un necrologio e riguarda un defunto e alcuni frammenti della sua
esistenza.
Da questo
connubio perverso, per cui l’attore vivo e reale si rattrappisce in sé stesso per fare spazio a
una persona letteraria e renderla, per illusione, altrettanto viva, scaturisce il
personaggio come figura ambigua, un Giano bifronte che è allo stesso tempo
interprete e interpretato, persona reale e persona immaginaria, Io e Sé.
Stridori,
crisi, linea di demarcazione confusa e variabile, invadenze reciproche. Il
personaggio vuole uccidere l’attore e l’attore fa resistenza al proprio
suicidio; entrambi chiedono di vivere, sono fratelli siamesi indivisibili,
ognuno dei due vive dell’altro, un rapporto d’amore che si confonde con l’odio,
un conflitto che sembra insanabile. Come può il personaggio sperare che
l’attore scompaia per avere solo lui vita piena se egli non è altri che
l’attore? E come può l’attore pretendere vita per sé, dato che più è presente
sulla scena più si oscura il personaggio? Due menti e due cuori in un corpo
solo, una mostruosità affascinante.
Certo,
l’attore ha un’arma che reputa infallibile (quella tanto invocata da
Shakespeare): l’illusione che si basa sull’immaginazione propria e del
pubblico. Appena comincia a recitare, egli lancia il messaggio: non sono più
io, l’attore con un nome sulla locandina, quello che tutti conoscete; sono
diventato il personaggio, il cui nome è scritto accanto al mio; a lui dovete
dedicare la vostra attenzione, compiendo un atto di fede teatrale. Credete nell’illusione!
Se non fate questo atto di fede, il rito teatrale è insensato, un gioco
infantile smontato e di nessuna soddisfazione.
Come
può l’attore scomparire idealmente nel personaggio e proporre allo spettatore
un patto di fede assoluta nell’immaginazione, per il quale sul palcoscenico non
c’è più un professionista, ma un’altra persona altrettanto viva scaturita da un
testo drammatico? Egli opera la magia grazie al proprio mestiere, ma più è
bravo più lancia al pubblico un messaggio discordante: guardate me, non il
personaggio. Il pubblico, alla fine, non applaude la figura immaginaria
ricreata sul palcoscenico, immediatamente svanita con l’ultima battuta:
applaude l’attore e la sua bravura. Si tratta quindi solo di un gioco di
suggestione. Un gioco a tempo. Scaduto il tempo (si chiude il sipario), il
gioco è finito. Del personaggio sembra non rimanere nulla, mentre l’attore
riappare sorridente alla ribalta per godersi il successo. Con lui si
congratulano gli spettatori, non con il personaggio. Un gioco in un certo senso
crudele, che evoca un morto per ricavarne emozioni forti e dopo una o due ore
lo rispedisce nell’aldilà senza nemmeno un mazzo di fiori.
Rivediamo
i caratteri che al gioco assegna l’ottimista Johan Huizinga in “Homo ludens” e
verifichiamo quanto appartengano anche al gioco teatrale (anche se l’opera è
ormai datata).
Citiamo:
1)
Ogni
gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più
gioco. Il gioco libero, se non è nobilitato dall’interesse economico (sport,
azzardo, quiz televisivo…) è ritenuto infantile. Il teatro libero è sempre
osteggiato in nome del teatro “decoroso e utile”, utile a chi governa.
2)
Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in quanto il
desiderio lo rende tale. Sembra contrastare con il punto 6, ma Huizinga
distingue tra una prima fase e una seconda quando il gioco assume una funzione
culturale.
3)
Gioco
non è la vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in
una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. Vedi il mio
“teatro come rito di passaggio”. Il teatro come cristallizzazione del rito di
passaggio che rimane incompiuto, bloccato nella fase di mezzo anarcoide e di
esplorazione pura, non giungendo quindi all’integrazione nel sistema sociale.
4)
Ogni
gioco può in qualunque momento impossessarsi completamente del giocatore. Inclusio,
l’essere nel gioco. L’atto di
fede del pubblico. Da una parte non è gioco, è serietà. Dall’altra non è
immaginario, è reale.
5)
L’antitesi
gioco-serietà resta sempre un’antitesi instabile. Il gioco si converte in
serietà, la serietà in gioco. Il problema di rendere persistente fino alla
fine il realismo teatrale.
6)
È
indispensabile all’individuo, in quanto funzione biologica, ed è indispensabile
alla collettività per il senso che contiene, per il significato, per il
valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che crea, insomma in
quanto funzione culturale. Idem per il teatro. Spesso gioco e spettacolo si
confondono l’uno con l’altro.
7)
Si
svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un
senso in sé.
8)
Forma
di cultura. Giocato una volta, permane nel ricordo come una creazione o un
tesoro dello spirito, è tramandato, e può essere ripetuto in qualunque momento.
9)
Crea
un ordine, è ordine. Realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una
perfezione temporanea. Il teatro come ecosistema.
10) Affascina, cioè incanta. È ricco
delle due qualità più nobili che l’uomo possa riconoscere nelle cose ed
esprimere egli stesso: ritmo e armonia. La parola teatrale non può fare a
meno della musica.
11) Tensione. Ansiosa aspettativa.
12) Ogni gioco ha le sue regole. Ogni
teatro ha le sue.
13) Può portare alla formazione di un
gruppo. La compagnia teatrale.
14) Si circonda di misteriosità. L’essere-diverso
e la misteriosità sono espressi ambedue visibilmente nel travestimento. Come
il teatro, messo in relazione con gli dei, l’inconscio, l’anima, l’altro da sé,
l’avatar...
Conclude
Huizinga:
“Considerato
per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera:
conscia di non essere presa “sul serio” e situata al di fuori della vita
consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a
cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene
vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che
si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che
facilmente si circondano di mistero o
accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito.”
E
aggiunge:
“La
funzione del gioco, nelle forme più evolute che ci interessano qui, è
riducibile in massima parte a due aspetti essenziali, coi quali appunto ci si
presenta. Il gioco è una lotta per qualche cosa. Queste due funzioni possono
anche riunirsi, cioè il gioco può “rappresentare” una lotta per qualche cosa,
oppure è una gara tra chi meglio rappresenta qualche cosa. Il rappresentare, o
presentare, può essere puramente un mostrare doni naturali agli spettatori. Il
pavone e il tacchino mostrano lo splendore delle loro piume alle femmine, ma in
tale esibizione c’è già un voler suscitare l’ammirazione per la cosa insolita,
eccezionale”.
E
questo “pavone” è l’attore come non lo vogliamo. Oppure non è così? Senza la
presunzione, il narcisismo e l’arroganza che cosa resta dell’attore? Se
consideriamo che tali qualità non sono esclusive, ma appartengono al politico,
allo scrittore, allo storico… e a tante altre categorie di individui che si
ritengono diversi e straordinari, siamo tentati di ipotizzare che l’attore
possa farne a meno. D’altronde, il gioco è tanto più bello quanto più è leggero
e scevro da sovrastrutture che potenziano l’individuo e depotenziano
l’attività.
Anche
nel teatro si assiste a “una lotta per qualche cosa?”. Quello a cui si
assisteva nel teatro di Dioniso per i greci era un agone, una competizione tra
autori e attori. Oggi sembra un combattimento anche l’adesione dell’interprete
al personaggio, dato che ognuno dei due tenta di prevalere sull’altro. Una
battaglia che può essere condotta nel campo delle’mozione o della razionalità;
o di tutte e due per chi combina le sue dimensioni dell’immedesimazione.
Lotta
significa tensione e senza tensione non c’è né gioco né teatro. È una
partecipazione dell’anima, sia da parte dell’attore sia da quella del pubblico.
Se manca, l’incendio si spegne e lo spettacolo è di cenere. Questo alto livello
emotivo produce effetti contrastanti. Alcuni lo evocano come farmaco catartico;
altri come pericoloso sviamento dalla quotidianità sana e controllata.
Una
lotta alcuni per il bene, altri per il male.
Il
teatro non unisce, divide (per fortuna).
Combattimento
perché si oppone alla società nei suoi aspetti più ingiusti e malefici; ma non
combatte con le armi della violenza, bensì con quelle della parola e della
musica. E in questo consiste la sua forza tanto temuta.
Purtroppo,
se vince delle battaglie, la guerra l’ha sempre persa.
Ma
nessuno può cambiare faccia al mondo.
Chiamiamo
“homo agens” questo uomo che recita.
Agens dal verbo latino agere,
condurre. Colui che porta avanti l’intreccio: qui fabulam agit. O che
porta avanti il discorso, l’orazione. Cicerone e Quintiliano chiamano actores
gli oratori e histriones o scaenici actores gli attori di teatro.
Nei secoli successivi, si usano i termini istrioni per indicare i mimi, comici
per gli attori drammatici. Il termine attuale “attore” si impone solo nel
secolo scorso.
Può
essere affiancato all’homo sapiens e all’homo faber, oltre che all’homo ludens,
e di lui si può discutere se abbia una dimensione preculturale: recitano, gli
animali? I gatti di sicuro.
La
dimensione di mascheramento e finzione non necessita di una struttura sociale,
dato che l’individuo mente anche a sé stesso. L’homo agens, grazie
all’immaginazione, recita la parte del dio, del sacerdote e del credente;
recita le proprie illusioni e le proprie paure, per rassicurare o spaventare a
seconda dei casi; recita la propria vanagloria, la depressione e il suicidio; recita
l’aggressività per non sentirsi imbelle; recita eros e thanatos. La società è
un palcoscenico e tutti ambiscono a parti da protagonista. Chi più mente, più
sale nella scala sociale.
A
questo homo agens si indirizza la fede sociale di chi coglie nei governanti i
caratteri dell’onnipotenza, della giustizia, della magia. All’homo agens
televisivo, cinematografico e teatrale va la fede dello spettatore. Credendo in
lui come attore, rischia di credere in lui anche come uomo, mettendolo al di
sopra degli altri ed emulandolo.
Gli
attori diventano opinionisti, politici, leader.
Non è
facile per il pubblico (e molto difficile per i critici e i razionalisti)
annullare in sé ogni riferimento all’attore e dedicare l’attenzione solo a un
personaggio ritenuto, per gioco, vero e vivo. La fede nel personaggio si
accompagna all’apprezzamento dell’attore e questo spezza l’incantesimo,
distrugge in parte la magia del teatro.
Nel
gioco infantile tutti entrano nella finzione, anche un eventuale direttore di
gioco. Nel gioco adulto, come nello sport, si accetta la presenza di elementi
spuri, che fanno parte della realtà. Chi è finto, è vero; chi è vero, è falso.
Il direttore di gara, l’osservatore, il giudice… inquinano la purezza originaria
del gioco e lo riducono a transazione commerciale: c’è chi investe come c’è chi
perde e chi guadagna.
Il
gioco autentico non appartiene a chi è consapevole di giocare; ma nemmeno a chi
scompare del tutto nel gioco, confondendo immaginazione e realtà, spianando la
strada per l’estremismo e il fanatismo.
Di
solito, l’animo semplice accoglie con immediatezza l’invito, proprio come in
chiesa prega con convinzione e in piazza dà ragione al politico di turno. L’animo
semplice accetta i miracoli del teatro senza indagini critiche. Ciò che vede è
reale e ciò che ascolta è autentico. Il suo livello emozionale è sempre al
massimo. Affronta ogni situazione più con le emozioni che con la consapevolezza
razionale. Diventa quindi facile preda dei dispensatori di suggestioni.
Chi è
più circospetto di fronte alla realtà può o non può godere delle stesse
emozioni forti? Può anche lui commuoversi e indignarsi e fremere nell’attesa
dello scioglimento finale? Certo, accantonando la coscienza critica. Non per
atto di fede, ma per gioco. Il gioco del facciamo finta che sia così,
altrimenti non è bello; e decidiamo noi per quanto tempo. Dall’illusione
alla finzione. Dalla finzione alla fruizione controllata.
In un
caso o nell’altro, il teatro non propone il vero.
Il
vero è fuori, nelle strade e nelle case. Se n’è reso conto Grotowski, al
termine della sua avventura artistica, quando ha deciso di non produrre più
spettacoli e di fare teatro in privato, solo per la crescita spirituale degli
attori.
Il
teatro è un inganno accettato, ce lo dice chiaro Gorgia. Il teatro illude e
allontana dalla verità, ce lo dice Brecht.
Tutto
sta, allora, nella gestione dell’inganno; e qui risiede il vero; nella
sincerità dell’attore di fronte al pubblico, che si rifiuta di plagiare; nella
sua minore invadenza, nel suo rifiuto di protagonismo; nella sua accettazione
di essere al servizio di un personaggio che vuole risorgere dalle tenebre del
Tartaro e rivivere per poco la propria storia sul palcoscenico;
nell’accettazione della propria morte in quanto persona reale e vivente, unica
via per accedere alla dimensione attoriale e potere ospitare il personaggio;
come riservare le stanze migliori all’ospite di riguardo, mentre il padrone di
casa si ritira in uno stanzino.
Meglio
rinunciare a un’emozione in più, egli pensa, che sovreccitare lo spettatore, la
cui fede acritica potrebbe spingerlo oltre, là dove nemmeno io voglio che
giunga, in una dimensione del tutto avulsa dalla realtà.
Teatro
come gioco autocontrollato, partecipazione il cui obiettivo è la riuscita del
gioco e non il successo personale, emozione deleteria se rifugio dell’ansia e fuga
dalla realtà.
Ah,
l’enfasi delle emozioni!
Spettacoli,
cronache, social… tutto tende a suscitare emozioni forti non più rapportate con
equilibrio e consapevolezza alla realtà effettiva. L’umanità si è fatta
pubblico e chiede a gran voce emozioni continue, per sentire ancora il senso
affievolito del vivere. Ha ragione Platone? Certo, quando dietro le emozioni
non c’è niente di davvero importante. L’emozione per sé, e non come veicolo di
collocamento razionale. Emozioni senza confronto con il pensiero. Facile, così,
per chiunque, trasmettere idee della realtà mistificate.
Il
teatro deve stare attento alle emozioni, per non perdersi nel parapiglia degli
acquisitori di consenso.
Il
teatro non è solo emozione, deve essere molto di più.
Il
successo non è la misura equa per un teatro che intenda sopravvivere al
contingente.
Il
pubblico è del tutto inaffidabile.
Questa
illusione che genera emozioni forti è proprio ciò di cui ha bisogno l’avvocato
per vincere le cause.
L’oratore
prende esempio dall’attore e all’attore passa poi le proprie scoperte
sull’efficacia di una gestualità più contenuta ed elegante di quella, spesso
sbracata e sovreccitata, del palcoscenico. La sua non è recitazione, è actio,
l’azione fatta di voce e gestualità. L’homo agens con senno, moderazione
e grazia (quella che diverrà la cortesia), ma con la potenza della
parola che emoziona; egli fa uso della techne insegnata dai sofisti come
Protagora, Gorgia e Prodico, veri professionisti della suggestione di massa.
L’oratore non è ispirato dalla divinità, ma applica tecniche che rendono
efficaci i discorsi quanto la magia e la droga.
“Chi
accettava di pagarsi le lezioni poteva in tal modo acquisire l’arte di
persuadere un uditorio giocando sulle sue sensazioni. Se si dà fede a Tucidide,
Pericle derivò almeno una parte del suo potere politico dall’abilità
nell’influenzare le folle (…) Il teatro, anche più dell’assemblea o del
tribunale, è il luogo dove l’emozione di massa si manifesta appieno. Platone
suggerisce di sostituire al potere, proprio della poesia, di suscitare
emozioni, il dialogo filosofico: sarebbe stata questa la poesia adeguata
allo Stato ideale” (C. Segal, L’uditore e lo spettatore, in L’uomo greco, a
cura di J-P. Vernant, Laterza, pag. 201).
Nei due
libri di Cicerone sull’argomento, Orator e De oratore, e nella Institutio
oratoria di Quintiliano troviamo un vero e proprio manuale tecnico per
chiunque debba esprimersi di fronte a un pubblico.
“Le
altre parti del corpo aiutano chi parla, ma oserei dire che le mani parlano da
sole. Domandano, promettono, chiamano, congedano, minacciano, supplicano,
respingono, manifestano timore, interrogano, negano, indicano gioia, tristezza,
dubbio, confessione, pentimento, misura, quantità, numero e tempo” (Istituzioni
oratorie XI, 3).
L’attore
si cala nel personaggio, l’oratore nel proprio assistito e nei suoi familiari,
oppure nei panni dell’avversario da denigrare, e dalla tribuna commuove o
sobilla il pubblico: entrambi agiscono
per un medesimo scopo, il consenso. La scoperta fondamentale, per entrambi, è
che non basta fingere di essere qualcun altro, ma bisogna vivere nell’animo
emozioni e sentimenti appartenenti all’altro, grazie a un processo empatico che
non dipende più dall’intervento divino, bensì dalla sensibilità individuale.
Il
contagio c’è ancora, ma non è più un prodigio; esso dipende dall’abilità
dell’attore-oratore. Egli riscalda il pubblico e il pubblico, a sua volta,
incentiva e potenzia l’attore; oppure lo raffredda; o addirittura lo distrugge.
Come
l’attore è diventato invasivo nei riguardi del personaggio, così il pubblico
verso l’attore; gli applausi si alternano ai fischi e l’estro del momento
decide del successo o della disgrazia di chi sta in tribuna o sul palco.
Immediata è anche la scoperta che il pubblico è manipolabile e corruttibile. Le
strategie di condizionamento si evolvono in fretta: calunnie, soldi, corruzione,
opinion leader, massmedia, arruffapopoli, casualità, umore del momento,
ignoranza, politica e religione…
Il
teatro, che non ha più niente della ritualità antica, diventa un fenomeno
sociale sempre più complesso; fenomeno che spesso si fa problema, coinvolgendo
nel bene e nel male tutti coloro che vi ruotano intorno.
La
teoria emozionalista, tuttavia, s’incrina subito: come può, l’oratore-attore,
provare ogni volta le passioni su cui fa leva per avere il pubblico dalla
propria parte? Come può davvero rivivere emozioni e sentimenti nel momento in
cui essi si succedono rapidi e contrastanti? Ecco che Cicerone, Quintiliano,
Seneca, Plutarco e altri indicano una via diversa: grazie a una grande abilità
(ma qual è il metodo per conseguirla?) l’attore non prova niente, ma finge di
provare, e fingendo così bene trascina il pubblico in una realtà immaginaria,
per cui davvero vale il motto del sofista Gorgia: “La tragedia è un inganno per
il quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più
saggio di chi non si lascia ingannare”. Ossia: lode all’attore che convince lo
spettatore della sua realtà finta e lode al pubblico che si lascia irretire. E
questo è il gioco in cui bisogna credere: facciamo finta che io sono.
Il
dibattito sull’oratoria si concentra sulle strategie più efficaci per
convincere pubblico, giudici e giurie, alla ricerca di un metodo organico che per
il momento non esiste. Le cause sono condotte in modo appassionato e idealizzato,
ma ben presto l’avvocato si astrae dal giudizio morale e se difende un
malfattore anche lui si fa protagonista del gioco del facciamo finta di credere
che sia innocente e agiamo di conseguenza. Anche il teatro perde presto la
propria originaria dimensione di voce della polis, e il palcoscenico può
dare voce agli interessi politici particolari. Ne consegue che non solo l’arte
è finzione, ma il messaggio stesso che veicola non è veritiero, e inganna e
imbroglia il pubblico.
Una
doppia menzogna, quindi.
Storie
e personaggi costruiti per veicolare determinati messaggi. Il teatro è sempre
più espressione particolare di gruppi ideologici. Non intendo la trasmissione
esplicita di determinati contenuti, ma una produzione di testi che, anche
abbastanza inconsapevolmente, supportano lo status quo e i suoi valori. In
compenso, non mancano drammaturgie critiche e addirittura eversive. Lo
spettacolo segue due filoni, quello del divertimento puro e quello delle idee
sull’uomo e sulla società; ma ormai è assodato che solo il divertimento rende
lo spettacolo davvero popolare.
Purtroppo
il dibattito tra emozionalisti e antiemozionalisti deve aspettare secoli per
proseguire, dato che la chiesa interviene in modo pesante sul teatro. Ma quale
teatro? La tragedia greca è in parziale letargo e si risveglierà solo con
l’umanesimo, quasi due millenni dopo la sua nascita. Per il momento, i suoi
personaggi rivivono nelle letture a carattere antologico, dato che il pubblico
mal sopporta ore di rappresentazione e pretende quindi cose brevi e appassionanti.
Le
tragedie greche e romane, come quelle senechiane, compresi i rifacimenti di
pochi nuovi drammaturghi, sono riservate agli intellettuali riuniti in un
salotto intorno a un dicitore. Il popolo assiste alle commedie di Plauto, alle
farse, agli spettacoli pornografici o violenti. Sulla scena sesso estremo e
sgozzamenti si alternano alle satire inaccettabili, come verifica l’attore
fatto bruciare vivo nell’arena da Caligola, intollerante verso tutte le
critiche, anche quelle “artistiche”. La satira è sempre più pericolosa.
Nell’impero
romano si edificano quasi trecento teatri, ma la dimensione spettacolare non si
esaurisce sui palcoscenici. Essa invade le arene, i circhi, le ville signorili.
Il teatro di strada non è certo un’invenzione moderna: saltimbanchi,
giocolieri, ammaestratori, illusionisti… si spostano di villaggio in villaggio,
di città in città, e danno origine alla dimensione itinerante dell’arte più
esecrata, quella che genera vagabondi e ladri, imbroglioni e prostitute. Questo
a detta dei benpensanti che da che mondo è mondo hanno sempre voluto le strade
e le piazze lastricate e pulite, dedicate solo al commercio e alla socialità,
vietate ai mascalzoni senza fissa dimora.
Quali
scelte ha l’attore, nel primo secolo dell’era volgare, prima che la chiesa concluda
con successo la crociata contro il teatro?
Tre
sono i tipi di carriera attoriale.
Il cantor,
il cantante; l’actor, il dicitore; l’histrio, il performer.
Il
cantante, insieme al musicista o all’orchestra, è presente in diverse forme di
spettacolo: nella pantomima, nella commedia, nell’atellana, nella farsa… Quasi
sempre, infatti, i testi sono misti di prosa e poesia, e questo ci rimanda alla
tragedia greca; infatti, non manca neppure la danza, prima di pertinenza del
coro, semplice e codificata in uno stile solenne, ora eseguita sia dai cori sia
dai singoli, spesso in modalità lasciva o addirittura pornografica.
L’actor,
lo abbiamo visto, si ispira ai canoni estetici ed espressivi dell’oratore. Egli
declama scene madri di tragedie, ma anche pagine famose di grandi autori, e
perfino dialoghi filosofici. Riservato a un pubblico scelto e acculturato.
La
novità, il cui seme è nelle commedie di Aristofane, riguarda l’histrio,
l’attore di azione, che basa la propria performance sulla fisicità, voce e
corpo; e sul ritmo pressante che eluda la noia; e su un provetto rapporto con
il pubblico al quale è disposto a concedere tutto ciò che emoziona, diverte,
eccita. Attore e attrice, poiché non siamo più in Grecia e le donne si
esibiscono sui palcoscenici o nelle piazze con grande successo. Incentrare lo
spettacolo sul corpo è stato considerato immorale e scandaloso, ma ha
costituito nel secolo ventesimo il nucleo della rivoluzione drammatica. Non più
solo testo, non più solo voce, non più solo spettacolo, ma l’espressione totale
del corpo vivente, espressione intorno alla quale ruotano i grandi nomi del
teatro moderno e contemporaneo. Il corpo, in Grecia, era accuratamente
nascosto, dato che sulla scena non c’erano servi e operai, ma i signori micenei
e gli dei. Anche l’erotismo da palestra o bagno pubblico era moderato
dall’estetica e dall’educazione che escludeva la volgarità e l’aggressività. A
Roma tutti i limiti vengono via via spostati all’infinito e sotto gli
imperatori sesso e violenza sono ingredienti comuni. Bisogna però osservare che
accanto all’estrema licenza permangono forme di buongusto, di educazione e
controllo della fisicità, di validità intellettuale e culturale. Insomma, ce
n’è per tutti; e anche questa è democrazia. Demonizzare l’età imperiale
equivale a demonizzare il presente, considerata la diffusione della
pornografia, della trivialità e della stupidità televisiva, dell’esibizione
gratuita del nudo, del gradimento popolare della violenza testimoniato dalla
vendita delle armi, dalla cinematografia, dai videogiochi, dagli spettacoli
come quelli dei combattimenti tra animali eccetera.
Condannare
il teatro imperiale è stato un atto di arroganza e di meschinità, giustificato
solo dal tornaconto politico del nuovo potere religioso.
Ecco
gli attori dell’età imperiale.
L’attore
delle emozioni.
L’attore
che più emoziona il pubblico è il pantomimo. Utilizzando le maschere per
segnalare il cambio di personaggio, sostenuto da un coro che racconta la
storia, egli con un ricercato linguaggio gestuale, grazie ai movimenti
codificati che il pubblico affezionato comprende (non si può fare a meno di
pensare al teatro orientale; e tanta ricchezza è andata persa, poiché troppo
poco rimane delle tecniche, come se qualcuno avesse voluto distruggere non solo
il teatro, ma anche la sua memoria), rappresenta scene dalle tragedie antiche o
dai libri venerati di Virgilio. La pantomima viene introdotta a Roma nel 22
a.e.v. da Pilade di Cilicia e Batillo d’Alessandria e all’estero prende il nome
di danza italica.
“L’attrazione
essenziale erano i movimenti del danzatore, flessibili, artistici, appassionati,
talora squisitamente lascivi” (W. Beare, I Romani a teatro, Laterza). Poteva
avere sia contenuti comici sia tragici. Nel teatro imperiale, prende il posto
della tragedia, mentre alla commedia subentra la farsa. Ci rimane il testo
dell’Alcestis Barcinonensis, la tragedia euripidea ridotta in 122 versi,
una mezz’ora di spettacolo, la misura giusta per il pubblico volubile di
allora. Oltre al coro, la compagnia comprende i suonatori e le ballerine.
Questo
attore è paragonabile al nostro attore drammatico, considerata la sua
immedesimazione emotiva e fisica con il personaggio. Anche Cicerone e
Quintiliano scrivono di immedesimazione, ma a livello tecnico l’oratore non fa
che sciorinare gesti codificati limitati a mani, braccia e torso; la sua
immedesimazione è più teorica che pratica; mentre il pantomimo mette a
disposizione dell’interpretazione corpo e anima in modo totale.
L’attore
del divertimento.
Il
secondo attore è quello comico. La sua performance non è certo quella del
cabarettista intellettuale o del garbato interprete del teatro leggero. Egli
mette a fuoco i desideri e gli umori del
pubblico e non si pone limiti morali e di buongusto. Che reciti per strada, su
un palchetto o in un teatro, la sua strategia è semplice: interessare, piacere,
fare ridere. Spesso gli sono compagni giocolieri e acrobati, in un varietà
vivace e sboccato, nel quale non mancano le ballerine discinte o nude e le
volgarità più grossolane. Un avanspettacolo senza censure, con la sola
attenzione a non offendere in modo troppo pesante i potenti, dato che c’è il
rischio di perdere la libertà o anche la vita. Il mimo, molto apprezzato
da Cicerone come testimonia in alcune lettere e nel De oratore (Orazio
scrive invece di “cori di prostitute, ciarlatani, accattoni, mime e buffoni”),
è lo spettacolo comico più popolare, un insieme di recitazione, mimo, canto e
danza; le ballerine, naturalmente, poco o niente vestite. “…piccole compagnie
di attori girovaghi, uomini, donne e bambini, che viaggiavano come zingari di
paese in paese. Li guidava il capocomico, o la capocomica (archimimus,
archimima), rispetto al quale il testo era poco più che contorno.
L’archimimo avrà forse cominciato con l’annunciare il titolo, o anche col
riassumere la trama; egli restava in scena praticamente senza interruzione, e
dominava a tal punto lo svolgersi del dialogo che l’espressione fare il
secondo attore in un mimo equivaleva al nostro fare la spalla. L’actor
secundarium partium rivestiva ruoli del tipo del pagliaccio o del matto”
(W. Beare, I Romani a teatro, Laterza, pag. 175).
L’archimimo
(da non confondere con san Mascolo detto Archimimo) indossava un cappuccio, una
giubba patchwork (centunculus, abito a toppe), la calzamaglia e il
fallo: Arlecchino?
“Breve,
divertente, d’attualità, completamente libero da ogni considerazione di tecnica
o di decenza, e tuttavia capace di adottare, se atto al caso, lo stile più
sentenzioso”.
Dalle
opere del conte Francesco Algarotti (1712-1764): “L’Archimimo che rappresentava
Vespasiano, volendo dimostrare l’avarizia sua, chiesto ai direttori della pompa
funebre quanto ella costasse, e sentito che costava milioni; perdio, rispose,
date a me un cento mila scudi e gettate il mio cadavere al fiume”.
L’atellana
è invece una farsa improvvisata di tono satirico, l’antesignana della commedia
dell’arte; mista di versi e di prosa e infarcita di termini rustici e volgari;
impiega maschere fisse: Dossennus, Maccus, Buccus, Manducus, Pappus e Kikirrus,
il cui nome richiama il verso del gallo. Sono i primi clown. Ghiottoni e
grossolani, maliziosi e saccenti, i beniamini della plebe.
L’attore
dell’eccitazione.
Dalla
volgarità all’oscenità il passo non è lungo. Al pubblico impresari senza
scrupoli forniscono spettacoli pornografici di tutti i generi, oltre a quelli
violenti elaborati da una fantasia cinica. Nudità e amplessi, esecuzioni
capitali e combattimenti all’ultimo sangue tra uomini (magari vestiti da eroi
mitologici, a dimostrazione della continua teatralizzazione di ogni festa) o
tra uomini e animali; e ci mettiamo anche la corsa dei carri nel circo e la naumachia,
la battaglia navale. L’immaginazione romana è senza limiti. Il tetimimo,
per esempio, simile ai nostri giochi acquatici, prevede che nella fossa
dell’orchestra riempita d’acqua si esibiscano in elaborate coreografie belle
sirene nude.
Questo
attore è l’attuale performer, la cui esibizione spinta o sanguinosa al giorno
d’oggi è teorizzata come particolare forma d’arte. Il performer di allora richiama
alla mente quello dei video pornografici e snuff, o dei club privati sado-masochisti;
con la differenza che sia i teatranti sia il pubblico della Roma imperiale hanno
una consapevolezza diversa del sesso e della violenza, ambedue componenti
fondamentali della vita, come gli stessi dei insegnavano agli uomini.
“Per
i romani il teatro era essenzialmente un posto dove divertirsi. Il teatro
doveva concorrere con altre forme di divertimento. Se non si riusciva a fare
un’impressione immediata il risultato poteva essere lo svuotamento della platea
(…) Le feste comprendevano corse di cavalli, combattimenti tra gladiatori,
lotte di bestie, incontri di lotta, di pugilato, danza sulla fune ecc; talvolta
queste attrazioni in concorrenza avevano luogo contemporaneamente rispetto
all’esecuzione drammatica” (W. Beare, op.cit.).
In
sintesi, una società dello spettacolo, quella imperiale. Meglio: della
spettacolarizzazione. Come tendono a fare tutti i regimi dispotici: panem et
circenses, parate, divismo, monumentalità, accentuazione della visione e
svuotamento dell’ascolto, contenuti inconsistenti o stupidi.
Ma
quali valori trasmetteva il teatro? Lo domando perché noi siamo abituati a
misurare ogni cosa in base alla sua produttività. Serviva, il teatro? A chi e
per che cosa? Certamente, nel suo complesso, non si poneva come obiettivo
l’educazione del popolo. Il popolo non andava educato, ma dominato; e in
mancanza della televisione… Nemmeno contribuiva a consolidare o diffondere la
moralità. Ma quale moralità? Se non ci immedesimiamo nel cittadino romano (dato
l’argomento trattato, non dovrebbe risultare difficile a nessuno), e se
applichiamo il nostro metro di giudizio, non possiamo comprendere quanto il
teatro fosse coerente con la società. Anacronistico parlare di immoralità,
perversione, oscenità… Gli intellettuali avevano quello che desideravano: dotte
letture durante i banchetti; i ricchi, spettacoli mozzafiato con abbondanza di
scenografie e coreografie; il popolo continue occasioni gratuite per divertirsi
ed eccitarsi. Il tutto ringraziando gli dei per tanta generosità.
Il
breve excursus ci mostra che nei primi secoli tutte le forme di teatro erano
presenti nell’impero, meno una: quella edificante e rassicurante. Mancava il
teatro per famiglie, insomma. Sì, c’era stato Terenzio; ma poi? La famiglia non
faceva pubblico. La famiglia non si muoveva al suo completo per andare a
teatro. La famiglia non era ancora il nucleo sacro e intangibile della società
com’è inteso oggi. Le vite quotidiane dei mariti e delle mogli si svolgevano su
binari paralleli. Per donne e bambini erano più che sufficienti le farse e gli
artisti della giocoleria. Il teatro, più che sui personaggi, era impostato sui
tipi, come dimostra l’atellana. La comprensione immediata lo rendeva
soddisfacente per tutti.
Finita
l’era repubblicana, finito anche il primo teatro “borghese”, erede di quello di
Menandro. Purtroppo, ci resta ben poco. Nomi di autori come Titinio e Atta e
titoli di commedie: La ragazza di Velletri, La flutista, La sensale di
matrimoni, La suocera, La recluta va alla guerra, Gli uomini sposati, Lo
spendaccione, La figlia sospetta… I numerosi titoli al femminile ci raccontano
l’evoluzione del ruolo della donna. Le commedie prevedevano azione e ritmo. La
stessa scenografia ce lo suggerisce: la scena una strada, il fondale le
abitazioni con tre porte praticabili, a sinistra la campagna, a destra il
centro città. Un via vai di personaggi, un garbuglio di situazioni, un
inseguirsi di battute. Vivacità, divertimento e satira erano sviluppati da
attori capaci di interpretare tipi con il brio e l’energia necessari per soddisfare
il pubblico popolare. Accanto alla commedia, il dramma per i palati più
esigenti. Ci rimangono settanta titoli, ma nemmeno un’opera completa, nessuna
trama. Come può essere scomparso nel nulla tutto questo?
Anche
tutti i generi di attore erano presenti. Tutti meno due. Mancava il grande
attore mimetico e mancava perché nessuno scriveva parti per lui. Mancava anche
l’attore-sciamano alla Grotowski. L’dea che l’attore potesse lavorare per sé
stesso più che per il pubblico non era ancora nata. L’attore viveva solo per
gli applausi e gli incassi. E infine mancavano le scuole di teatro. I ceti più
elevati godevano delle declamazioni di stile oratorio, il popolo applaudiva
istrioni di scarsa considerazione a livello sociale, salvo le eccezioni che
diventavano tali per l’appoggio dei potenti. La professione dell’attore non era
granché e chi la sceglieva faceva una scelta di libertà anarcoide, o di sincero
amore per il canto, la musica o la danza, o perché ereditava il mestiere. Più
che artista era visto come intrattenitore, alla stregua di un gladiatore o
degli stessi animali del circo. I teatranti svolgevano un importante ruolo
sociale nell’ambito del “panem et circenses”, ma non avevano da aspettarsi
alcun riconoscimento.
I
clericali hanno inferto il colpo di grazia su vittime già duramente provate.
Tanta
ricchezza di espressioni teatrali avrebbe potuto portare a grandi novità nel
giro di pochi secoli, ma la lenta e incessante erosione praticata dalla chiesa
ha spento le luci della ribalta e spinto nell’ombra del retroscena opere e
interpreti, e soprattutto genialità e idee.
“Quanto
all’oscenità, il mimo raggiunse abissi incredibili. Non solo l’adulterio era un
tema di repertorio: l’imperatore Eliogabalo ordinò che venisse rappresentato
realisticamente sul palcoscenico. Era naturale che la Chiesa cristiana si
schierasse contro il mimo, e fu ugualmente naturale che gli attori la
ripagassero mettendo in burla i sacramenti, per il maggior piacere delle masse.
Gradualmente la Chiesa prese il sopravvento. Nel V secolo d.C. tutti gli attori
di mimo furono scomunicati. Nel VI secolo Giustiniano chiuse i teatri. E
tuttavia il mimo continuò a vivere” (W. Beare, op.cit.)
Parrebbe
facile giustificare gli interventi stizziti dei padri della chiesa quando si
considera che una parte del teatro imperiale scaturiva da denudamenti, atti
sessuali, violenze di ogni genere. L’indignazione sembra legittima. Tuttavia
bisogna osservare che la chiesa non ha combattuto solo gli eccessi, ma
anzitutto e soprattutto il continuo riferimento alle divinità pagane e il
terrificante meccanismo che sta alla base della recitazione, per cui l’attore è
sé stesso ed è un’altra persona, diventando testimone di falsità.
Incomincia
l’era repressiva dominata dai fanatismi e dalle interpretazioni dei testi sacri
e della stessa volontà divina. A Roma molti riti sembravano apparati teatrali e
molti spettacoli, infarciti di divinità, somigliavano a riti. La chiesa doveva
estirpare in fretta tutti i riferimenti al paganesimo: edifici, preghiere,
credenze, altari, culti, statue, papiri e pergamene, festività… tutto ciò che
si riferiva agli idoli pagani via, censurato e smantellato. Era intollerabile
che il popolo si estasiasse di fronte a una Venere nuda sul palcoscenico. E
l’attore, quel bugiardo contro natura, quel mistificatore che come gli idoli
instillava nella gente false verità… via, via, sfrattato senza stipendio.
Se
Dio è verità, come si può tollerare che un uomo si presenti sotto le mentite
spoglie del personaggio?
Molti
i padri della chiesa che condannano il teatro: Tertulliano (160-220 ca.),
Lattanzio (250-324 ca.), Agostino (354-430 ca.), Girolamo (IV-V sec.)… Che cosa
rimproverano all’arte drammatica? Idolatria, uso inadeguato e degradato del
corpo, messaggio satanico che passa attraverso gli occhi stabilendo con gli
spettatori un rapporto puramente visivo ed emotivo, non filtrato dalla
razionalità.
L’opera
più drastica è forse il De spectaculis di Tertulliano, nella quale si afferma
che ogni forma di spettacolo è opera del diavolo.
“Tutte
le manifestazioni teatrali esercitano un effetto distruttivo, perché scatenano
negli spettatori sentimenti, passioni, impulsi irrazionali, invogliandoli a non
comportarsi più con serenità”.
Un
concetto ripreso da Agostino che esprime dubbi perfino sull’uso dei canti e delle
musiche in chiesa; quella del teatro è una “strana follia”. Lattanzio
ribadisce: “Sono da evitare tutti gli spettacoli” perché “oltre alla licenza
verbale, nella quale ogni oscenità è riversata, su richiesta a gran voce del
popolo si tolgono tutti gli indumenti le prostitute che si spacciano per
attrici” (De divinis instritutionis, 1, 20, 60).
Cipriano
si ricollega al fenomeno del contagio, che non è certo quello catartico di
Aristotele o quello rivoluzionario di Artaud, dato che scrive di “un contagio
tanto impuro e infame”. Le emozioni terrorizzano i sant’uomini, che predicano
di mantenere la coscienza “tranquilla”, evitando turbamenti e impressioni
forti, dato che cattivi pensieri e tentazioni sono sempre in agguato. Ambrogio (340-397)
esorta a rifuggire dalle vanità: “Volgiamo i nostri occhi dalle vanità; perché
l’animo non concupisca ciò che vedrà. (…) I piaceri del teatro sono osceni”.
Si
apre la tematica dell’occhio, del vedere e desiderare, intenzione giudicata
identica all’azione. E Girolamo (347-420): “Non passeggi al tuo fianco un
attore travestito da donna, non la dolcezza avvelenata di un cantore diabolico,
non un giovane depilato e vezzoso. Niente delle arti sceniche ti si attacchi”.
Gli
attacchi sono contro l’idolatria, esprimono la condanna della violenza e della
crudeltà, esorcizzano la sfrenatezza dei sensi, la libidine esibita dai
teatranti che attraverso lo sguardo si trasmette al pubblico facilmente
suggestionabile come una peste dell’anima.
Insomma,
niente sesso. E questa è la chiesa di tutti i tempi.
Scrive
Vincenzo Ruggiero Perrino (Lo spettacolo nell’alto medioevo. Tra
condanne e la definizione di una nuova estetica teatrale, in Senecio, 2012):
“È proprio il cristianesimo a
istituire una responsabilità dello spettatore, abolendo la sua innocenza e
negando l’autonomia dello spazio ludico come mondo a parte, esente dal
principio della responsabilità. Per questo può dirsi che il discorso cristiano
sugli spettacoli è, essenzialmente, un discorso sulla disciplina dello sguardo”.
Al riguardo, cita il versetto 5, 28 del Vangelo di Matteo: “Ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei
nel suo cuore”.
La
responsabilità dello spettatore? Mi pare che venga presa in considerazione solo
in negativo. Si ritiene che lo spettatore sia responsabile di fronte a ciò che
vede, ma si deplora che venga inevitabilmente danneggiato nello spirito da
certe visioni, che sia cioè succube dello sguardo. E dov’è quindi la
responsabilità? Consiste solo nell’evitare certi spettacoli? Non sta anche
nella capacità di sostenerli e di non farsi influenzare? O di accettarne il
gradimento? Ma lo spettatore, per questi esegeti del mondo, è solo un bambino
che va tutelato. Anche contro la sua volontà.
La
chiesa spegne il teatro, ne distrugge gli edifici (utilizzando però le pietre
per erigere edifici sacri), ma non rinuncia come al solito a fare proprio ciò
che ha condannato.
“Tuttavia,
negli Atti di Giovanni, risalenti verosimilmente alla seconda metà del II sec.,
la tendenza alla spettacolarizzazione delle pratiche cristiane a scopo di
proselitismo è decisamente forte. Vi si narra che l’apostolo organizza a Efeso,
non senza trovarvi ostacoli e resistenze da parte del potere politico, un
grande spettacolo di guarigione nel teatro della città” (Perrino, op.cit.).
Ciò
che è male per gli altri, va più che bene per chi condanna. Il teatro è una
grande risorsa di comunicazione e la chiesa ha sempre piegato alla propria
volontà i pulpiti, i giornali, i libri, le scuole, le televisioni, gli
spettacoli. Quindi, dopo il primo furore iconoclastico, l’obiettivo non è più:
distruggiamo il teatro; ma: reinventiamolo a nostro uso e consumo.
Il
teatro, in conclusione, si moralizza e nel millennio successivo gli unici a
dare ancora qualche problema ai difensori della pubblica decenza e a trattare
di amore (e sesso metaforico) sono i giullari, i menestrelli, i trovatori.
Il
nomadismo (senza dio, senza patria, senza famiglia) rende il giullare una
figura ambigua. Per l’arcivescovo Vanus non produce beni e non diffonde
contenuti validi. Per Turpis fa spettacolo mediante una gesticolazione
scomposta che tradisce la sacralità del corpo. Il corpo, per i cristiani, è
tanto più sacro quanto meno è corpo, il che contraddice ogni legge naturale e
divina. Il loro dio avrebbe potuto creare un mondo di puri spiriti, senza
l’appendice fisica imbarazzante e demonica.
Si
arriva quindi al punto che la chiesa stessa si fa produttrice e promotrice di
spettacoli.
Dapprima
timidamente, con i drammi liturgici (evoluzione del cantus responsorius
mutuato dalla liturgia ebraica) organizzati dai monaci nelle chiese; e poi con
le sacre rappresentazioni fuori delle chiese, nelle piazze e nelle vie. Tutta
la città vi partecipa, grazie anche alla suddivisione del dramma in scene che
vengono rappresentate in punti diversi. La città stessa è il palcoscenico, la
città è santificata; l’attore non è più un professionista, ma un fedele.
La
forma liturgica cede sempre più il passo alla spettacolarizzazione sacra.
Scenografie
impressionanti riproducono l’inferno e il paradiso, il popolo si emoziona di
fronte a Mosé o a Cristo in persona. Canti ed effetti speciali portano fuori
dalla realtà, come se astronavi ultraterrene invadessero la terra. Le semplici
tonache dei religiosi diventano costumi orientalizzanti, ricamati d’oro e d’argento,
sontuosi e regali. Le chiese di pietre irregolari diventano templi di
perfezione architettonica la cui vastità intimidisce, ornati da sculture,
bassorilievi, affreschi; e ancora oro e argento ovunque. Gli oggetti di scena
sono… d’oro e d’argento.
Grandi
architetti come Brunelleschi progettano gli ingegni, macchine che
consentono di far volare gli attori; oppure li fanno scomparire o danno
l’impressione che siano avvolti dalle fiamme.
Insomma,
quello che non andava bene per i pagani ora va più che bene per i cristiani. I
preti vedono con soddisfazione accorrere le masse entusiaste. Prima lo
spettacolo e poi… tutti alla messa. Ora la finzione non è più un’offesa alla
verità divina, ma la sua celebrazione. I sacerdoti, le suore, i chierichetti, i
membri delle confraternite, i partecipanti alle processioni… tutti indossano un
costume e tutti recitano il dramma del dio incarnato; gli interni dei templi
sono più che mai set cinematografici di sicura presa sul pubblico; ognuno,
durante i riti, assume un ruolo e interpreta una parte.
Lo
spettacolo si è fatto religioso e la religione è spettacolare.
Dopo
qualche secolo, non c’è parrocchia e oratorio che non abbiano una sala teatrale
e cinematografica. Il teatro e il cinema, se approvati, sono buoni. Tutto il
resto è frutto del demonio. D’altronde, fin dagli inizi, la chiesa non ha
teatralizzato i riti sulla falsariga delle cerimonie pagane? Gli spettacoli
presentati intorno agli altari sono la copia di quelli che avvenivano intorno
alle are; solo che nella Roma imperiale chierichetti e chierichette erano poco
vestiti.
Eccoci
dunque all’attore santo di Grotowski? No, non di questa santità si tratta.
Grotowski è chiaro, il suo attore non ha niente a che vedere con la religione.
Il suo attore inizia la carriera donandosi tutto al pubblico, in una forma di
martirio, più che di santità. Egli contrappone l’autenticità sofferta della
propria finzione all’ipocrisia della verità pubblica. E poi abbandona gli spettacoli
e santifica sé stesso cercando le vie per una perfezione ancora da definire.
L’attore
cristiano recita per la gloria di Dio, e per la salvezza della propria anima,
più che per una santità individuale. E poco gli importa del pubblico dei
fedeli.
Un
attore ritualizzato, più che santo.
La
tardiva (mille anni!) apertura della chiesa verso l’arte teatrale precede di
poco la grande stagione dell’umanesimo. Vengono riscoperti e messi in scena i
capolavori dell’antichità, per il momento a beneficio degli ambienti accademici
e signorili. Dapprima l’interpretazione è affidata a un recitator, ma
presto le singole parti sono assegnate ad attori diversi. Il teatro è di nuovo
vivo. Le traduzioni della Poetica di Aristotele e dei dialoghi di
Platone riavviano il dibattito sulla recitazione. Le opere di Cicerone,
Quintiliano e Orazio trovano immediata consonanza con lo stile cortigiano e il
Castiglione stesso (1478-1529) identifica nella grazia e nella leggiadria le
doti primarie dell’attore. Bei modi, bei gesti, voce misurata e disinvoltura. L’attore
di corte disprezza lo stile comico, che giudica di espressività eccessivamente plebea.
Ma è in questo stile popolare che si sviluppa l’attore più promettente.
L’antica
eredità pagana non è del tutto perduta e le compagnie itineranti che lavorano
nelle piazze o nei cortili dei palazzi strutturano una manualistica di
movimenti, azioni, gesti e smorfie il cui obiettivo è ottenere il consenso del
pubblico. Il corpo è di nuovo il padrone indiscusso della scena; perlomeno nel
teatro popolare. Il teatro non appartiene solo alla cerchia nobiliare del
signore, ma fa parte degli interessi della nuova società borghese. Nascono
circoli di gentiluomini che scrivono testi; come Angelo Beolco detto il
Ruzante, agiato e acculturato, che mette in scena gli umori del popolo.
Ancora,
quindi, due forme drammatiche: da una parte la declamazione composta riservata
a un’élite, i cui stilemi derivano dall’oratoria antica; dall’altra l’attore di
corpo e azione che si rivolge al pubblico della strada.
In attesa
che si formino i nuovi drammaturghi, questi attori ripescano scene e personaggi
dalla tradizione millenaria che va da Aristofane a Plauto fino ai giullari e
strutturano un repertorio di situazioni da mettere in scena a loro piacimento.
Nasce la commedia all’improvviso, affidata a una professionalità indiscussa che
viene tramandata per generazioni. L’attore ritorna a essere il creativo che sa
cavarsela in ogni frangente, con una memoria drammaturgica straordinaria. Egli
plasma la messinscena e il pubblico a proprio piacimento, specializzandosi in
tipi e caratteri. Recupera i requisiti già condannati dalla chiesa: corporeità,
seduzione, acrobazia, libertà di linguaggio, oscenità, spavalderia,
provocazione…
Inevitabile,
nel clima di Riforma e Controriforma, la nuova offensiva cristiana, con un
paladino del calibro di Carlo Borromeo (1538-1584) che definisce il teatro “scuola
di impudicizia e di libidine”. Anatemi da parte dei protestanti, soprattutto
dei puritani inglesi. Ma i tempi bui appartengono al passato e i gesuiti, per
esempio, organizzano recite nei loro istituti.
Il
teatro sembra ormai inarrestabile. Anzi, è pronto a esplodere dopo avere
accumulato tanta frustrazione. Non subito. Per il momento se ne occupano gli
intellettuali e il punto di vista è ancora quello dei letterati. Ma anche i
percorsi lunghi si fanno un passo dopo l’altro e vanno prendendo forma le
figure del drammaturgo, dell’attore drammatico, del regista e di tutti i
creativi che contribuiscono a una messa in scena. Ci vuole solo qualche secolo.
La
novità è rappresentata da una forma di censura interna.
Attori
di chiara fama se la prendono con i buffoni e gli intrattenitori di strada,
auspicando un codice etico che assicuri dignità e decoro alla professione.
Nel
sedicesimo secolo vengono pubblicati i primi trattati sulla recitazione. Poche
le novità, dato che i riferimenti d’obbligo sono Aristotele e Orazio, Cicerone
e Quintiliano. Il decoro è ancora il primo dei requisiti.
In
fin di secolo, nel 1598, il letterato Angelo Ingegneri affronta la questione
della scrittura drammaturgica, differenziando il testo teatrale da quello
prosaico o poetico. Egli auspica che l’autore scriva immaginando nei dettagli
la scena e i suoi tempi, in modo da recuperare autenticità e veridicità. Un grande passo, dato che finora un testo era
giudicato meritevole della scena solo in base alle proprie caratteristiche
prettamente letterarie. Ingegneri ritiene necessaria l’aderenza realistica sia
della recitazione sia della scenografia, per quanto il mondo rappresentato
debba risultare non come è nella realtà, ma come dovrebbe essere idealmente.
Insomma, la natura va corretta. Ancora il decoro. Il realismo di bassa lega è
legato agli attori di strada e dell’improvviso, a quelli professionisti,
insomma, che più che di “trattati” teorici si intendono di efficacia espressiva
e impatto sul pubblico.
Anche
loro, tuttavia, si sentono in grado di scrivere sul teatro e ci pensano, tra i
primi, Pier Maria Cecchini (1563-1645) della compagnia degli Accesi; e Flaminio
Scala (1552-1624), capocomico
della compagnia dei Confidenti. Egli caratterizza la commedia non per la prevalenza
del testo, ma del gesto, del movimento e dell’esibizione dell’attore. Una
rivoluzione, per il tempo, che però non si concretizza, dato che le sue
osservazioni vengono ignorate.
La
casta dei letterati ha la meglio sulla congrega dei teatranti che vengono più
apprezzati all’estero che in Italia, come è consuetudine del nostro paese
codino e miope.
Sono
gli anni di Shakespeare, di Molière e della Comédie Française, tutti posti
sotto la protezione della corona. E tutti assediati da moralisti, religiosi e
oppositori politici. Il teatro non ha mai avuto vita facile e la tradizione va
sempre salvaguardata. Gli attori sono esclusi dai sacramenti e lo stesso
Molière viene sì seppellito in terra consacrata, ma di notte e tra mille
difficoltà, grazie a una dispensa speciale dell’arcivescovo, su pressioni della
corte.
Si
scrivono trattati censori furibondi e alla fine del ‘600 la stessa facoltà di
teologia della Sorbonne ribadisce la condanna del teatro. Per evitare guai, non
resta che rinnegare la dimensione dell’istrione e accettare la corrispondenza
dell’arte attoriale con quella dell’oratore. Insomma, di nuovo il decoro. I
benpensanti bloccano la trattatistica sull’arte della recitazione; ma ci sono per
fortuna eccezioni come l’opera di François d’Aubignac che sottolinea ancora una
volta la diversità assoluta del teatro dalla letteratura e soprattutto dalla
retorica.
Nemmeno
lui, purtroppo, riesce a incidere sulle convinzioni culturali del tempo.
Sulla
fine del secolo XVII vengono pubblicati numerosi trattati che definiscono sì
l’attorialità come appendice dell’oratoria, ma ne riconoscono anche una
misteriosa originalità e diversità. L’actio oratoria è quindi
insufficiente a spiegare quello che avviene sul palcoscenico.
Nuove
intuizioni portano linfa al dibattito, come quella espressa da Charles Gildon
nel 1710. Egli osserva che il pubblico è incantato da qualsiasi azione avvenga
sulla scena, anche espressa male da un attore dilettante; mentre è annoiato da
una lunga declamazione senza azione.
Inoltre,
l’efficacia di un attore, a differenza dell’oratore, sta nella sua
partecipazione alla situazione anche quando non ha la battuta; egli sa rimanere
nella parte ed esprimersi in silenzio e nell’immobilità mediante lo sguardo.
Stiamo
entrando in una nuova fase che pone le fondamenta per affrontare le questioni
fondamentali: il teatro è più che declamazione, richiede un uso sapiente del
corpo; l’attore non presenta solo un personaggio, ma lo vive; la sua
partecipazione è profonda e verosimile; il pubblico non assiste passivamente,
ma compartecipa emotivamente.
Ma
perché la fisicità rappresenta un cruccio tanto grave e tanto persistente per i
religiosi e i cosiddetti benpensanti?
Verrebbe
da parlare di una censura totale del corpo di cui si ha un terrore cieco, ma
sarebbe una risposta incompleta. Vero che i religiosi lo celano del tutto con
abiti senza colori (ma indossano l’iride durante le funzioni pubbliche, al
momento dello spettacolo, quando rosso, giallo, azzurro, viola, verde…
ricordano le vivide colorazioni dei templi greci), ma è anche vero che l’arte
sacra è zeppa di nudità; e che i religiosi hanno sempre propugnato una lecita
corporeità in determinati settori.
La
chiesa vede di buon occhio lo sport. La pratica dello sport, si ritiene, aiuta
a controllare la libidine (quanti casi di cronaca li contraddicono!). La gestione
del corpo, alla quale si arriva con un allenamento militaresco, non è libera,
ma risponde a regole precise e codificate, elaborate per portare l’atleta alla
vittoria. Il credente deve vivere una vita possibilmente agiata, deve essere
competitivo, deve risultare vittorioso, deve distinguersi dalla massa… e così
facendo dimostra il favore divino.
La
chiesa, inoltre, ha sempre benedetto la vita militare. Anche in questo caso
l’addestramento serve per plasmare il corpo e per guidarlo verso l’obiettivo:
la distruzione del nemico o la morte. L’atleta e il militare non sono mai
lasciati soli, sono come animali d’allevamento e di compagnia, vengono spiati,
pilotati, supportati, educati nel corpo e nello spirito. Entrambi perseguono
obiettivi individuali (la gloria), ma lo scopo ultimo è difendere Dio e la patria.
Entrambi
portano benefici alla società.
Il
corpo di un atleta è seminudo, ma va bene. Il corpo di un militare è rivestito
di violenza, ma va bene. Tutto è previsto, tutto è organizzato in vista di un
bene superiore, tutto è sotto controllo.
Chi
controlla invece l’attore? Chi lo convince a non parlare male dei valori
correnti, degli uomini di potere, degli ecclesiastici? Per che cosa è allenato
il suo corpo se non per dare al pubblico un piacere effimero e spesso immorale?
Ma, soprattutto, che cosa costruisce, dentro di sé, l’attore? Forse una fede
solida? Un ferreo senso patriottico? No, egli dentro di sé è un anarchico che
si illude di godere di una libertà di espressione scandalosa. Egli sfugge al
controllo, esce dai limiti, valica i confini stabiliti con fatica durante
secoli di repressione e indottrinamento.
Il
suo è quindi un corpo malvagio.
A
meno che non sia guidato dalla voce di un suggeritore.
Già a
metà Settecento l’attenzione posta nella definizione del personaggio (ricordiamo
anche lo scavo emotivo di Grimarest, 1659-1713, nel Traité du recitatif)
cambia la dizione, non più cantilenante come nell’oratoria e nella declamazione
tragica, ma imitatrice del reale, pur nella ricerca di un’espressività che non
sia quella quotidiana, ma prettamente teatrale.
L’aspetto
più importante dell’evoluzione drammatica riguarda tuttavia la nuova
gestualità.
L’attore
deve apparire spontaneo, non artefatto e falso; e deve agire in coerenza con il
personaggio che interpreta. Sono solo gli inizi, perché siamo ancora lontani da
una messa in scena realistica: si recita ancora in versi e i costumi, in teoria
ispirati dal tempo e dal luogo della fabula, sono in realtà rielaborazioni
teatrali di sartorie che si affidano ancora molto alla creatività fantasiosa.
Rinasce
il questo periodo la contrapposizione tra emozionalisti e antiemozionalisti,
una diatriba che arriverà fino al Novecento e che probabilmente non sarà mai
risolta. La tecnica della recitazione, avente come scopo il potenziamento della
sensibilità dell’interprete, si occupa soprattutto di eliminare gli intralci
emotivi, caratteriali e ideologici che lo ostacolano.
Luigi
Riccoboni, detto Lelio, attore e capocomico, pubblica nel 1728 Dell’arte
rappresentativa. A questo punto fra recitazione e oratoria è posto un divisorio
definitivo. Anzitutto, Riccoboni riconcilia autori e artisti della commedia
dell’arte, affermando che l’improvvisazione abbinata a un testo valido fornisce
la migliore base per una rappresentazione di qualità. Poi opera la distinzione
tra finto e falso. L’attore opera nella finzione, assumendo un
carattere, e per questo è finto; ma non deve essere falso, poiché deve credere
in ciò che fa e sentire per quanto possibile nel proprio animo emozioni e
sentimenti rappresentati, sempre attento alla coerenza tra personaggio e
situazione.
Basta,
quindi, con i codici espressivi precotti tipici dell’actio,
dell’oratoria, e del teatro che vi si ispira; e viva la freschezza della
materia prima.
Ancora
una volta i precursori non vengono ascoltati da tutti.
Un
gesuita, Franz Lang, aggiorna il codice espressivo dell’oratoria, facendo
corrispondere a ogni emozione e a ogni sentimento gesti e movimenti codificati.
La battaglia continua.
Ma
ormai le nuove idee si diffondono.
Tra
il 1735 e il 1753 Aaron Hill pubblica alcuni saggi esponendo concetti che
sembrano appartenere più al futuro che al suo presente: l’attore deve
dimenticare sé stesso e il pubblico e non deve recitare, ma diventare davvero
il personaggio. Come fare? Grazie all’immaginazione plastica. Per esprimere
fisicamente una passione è sufficiente riviverla con una forte immaginazione. E
questo, scrive, è un processo naturale. Ne consegue che l’analisi del testo,
l’identificazione delle passioni e la conoscenza profonda dell’animo del
personaggio sono attività essenziali che precedono la recitazione.
Anche
Pierre Remond de Saint-Albine ripropone la teoria emozionalista, ribadendo che
la metamorfosi dell’attore nel personaggio non riguarda solo i tratti
esteriori, ma soprattutto l’intero mondo interiore. E anche lui assegna
un’importanza fondamentale al lavoro dell’attore sul testo; l’attore che
traduce le parole in azione non solo chiarisce, ma anche migliora il testo
letterario.
Manca
più di un secolo, prima che a dare unità e coerenza alle diverse dinamiche del
palcoscenico intervenga il regista; per il momento è il capocomico a dare
qualche indicazione.
Ogni
attore è regista di sé stesso e questa attivazione senza limiti lo sta portando
a occupare la scena, ma solo nel caso che egli sappia diventare il “grande
attore” in grado di entusiasmare il pubblico. Il suo protagonismo assoluto sarà
presto bilanciato dalla figura del regista, anche lui proteso a dare dell’opera
una versione personale e originale. Per spegnere gli incendi provocati dalle
scintille che scaturiscono tra i due, il regista si avvierà nel Novecento a
prevalere sull’attore, in nome della coerenza e dell’unità della messa in
scena. Ma anche questo conflitto non è certo risolto. Vi sono ampi spazi per
l’attore che intende dirigere sé stesso, mentre l’autorità registica viene svuotata
dalla creazione collettiva dell’allestimento. Tutto questo, nel secolo
Diciottesimo, è ancora da venire, ma il vivace dibattito presenta già le
aperture per un grande sviluppo del teatro.
L’emozionalismo
pone molti problemi.
Non
tutti hanno fatto esperienza di particolari emozioni e sentimenti. Come può un
attore che non si è mai innamorato interpretare una scena d’amore? Come può un
attore onesto identificarsi in un personaggio malvagio? La risposta per il
momento è solo parziale: dove non arriva la sensibilità attoriale, interviene
la tecnica. Ma quale tecnica? Ancora non la si conosce.
Gli
antiemozionalisti contrattaccano.
La
prima critica appartiene al figlio di Riccoboni, Antoine-François (1707-1772,
L’art du théâtre). Recitare vivendo sul momento le
emozioni del personaggio porta a un sovraccarico nell’animo dell’interprete,
che perde il controllo su quello che sta facendo. Solo l’esprit, la
conoscenza, la comprensione razionale della situazione consente all’attore di
padroneggiare l’arte, applicando la tecnica specifica. L’opera di Riccoboni
junior è infatti anche un manuale pratico, ricco di consigli ed esercizi (es. i
mille modi di dire buongiorno). L’adesione emotiva non si concilia con la tecnica,
e risulta anzi di ostacolo per una recitazione sicura e fluida.
Ma il
più famoso degli antiemozionalisti è Denis Diderot (Paradosso sull’attore,
1784), senza dimenticare Lessing. Auspica un nuovo genere, la tragedia
borghese, non sapendo che entro pochi anni sarebbe dilagata in tutti i teatri
europei. È drastico: l’attore non deve provare davvero le passioni che
rappresenta; va a discapito della sua efficacia. L’attore imita il personaggio
come lo vede nella propria immaginazione, ma deve mantenere il controllo
assoluto sulle proprie emozioni. Terribile è il ritratto che fa dell’attore in
pubblico, dove dovrebbe distinguersi come uomo se davvero fosse dotato di una
sensibilità tanto eccezionale da vivere a ogni replica emozioni diverse e
intense. L’attore è un uomo di scarse qualità e, se consideriamo che dalla sua non
ha più nemmeno la mania descritta da Platone, di lui non avanza niente
che lo renda eccezionale.
“In
società, quando non fanno i buffoni, li trovo cortesi, caustici e freddi, un
po’ esibizionisti, dissipati e dissipatori, interessati, più divertiti dei
nostri difetti che colpiti dai nostri mali; sempre imperturbabili di fronte a
un caso penoso o al racconto di un triste avvenimento; isolati, vagabondi, agli
ordini dei potenti; scarsa moralità, niente amici, quasi nessuno di quei santi e
dolci legami che ci accomunano nelle pene e nei piaceri a un altro essere. Ho
visto spesso un attore ridere fuori di scena, ma non mi ricordo di averne mai
visto uno piangere. Di quella sensibilità che si attribuiscono e che viene loro
attribuita, che uso fanno? La lasciano forse sulla scena, quando ne escono, per
riprenderla quando vi rientrano?”
Gli
attori non portano in sé la grandezza dei personaggi che interpretano: “Non
hanno nessun carattere perché, recitandoli tutti, perdono quello specifico che
la natura ha dato loro, e diventano falsi”.
Ma il
pubblico fatica a distinguere tra loro e i personaggi: “Voi li vedete grandi
sulla scena perché, secondo voi, hanno un animo sensibile; quanto a me, li vedo
infimi e meschini in società, proprio perché quella sensibilità non ce
l’hanno”.
E
ancora: “… una vanità che rasenta l’insofferenza e una gelosia che riempie il
loro ambiente di liti e di odi”.
L’attore
sta emergendo a fatica da secoli di oscurantismo che subito viene messo di
nuovo alla berlina. Gli si attribuiscono le peggiori qualità come se ne fosse
l’unico detentore, omettendo di citare altri artisti, i politici, molti
professionisti, commercianti, impiegati carrieristi… Ma sugli altri i giudizi
sono solo razionali, mentre quelli sull’attore sono condizionati
dall’affettività. L’attore attira su di sé (calamita emotiva) amore e odio, a
seconda dell’occasione, in virtù anche del fraintendimento tra l’individuo e il
personaggio. In lui si giudica anche il personaggio, come il personaggio a
volte viene giudicato anche in base all’attore che lo interpreta. Questa
confusione di ruoli, per cui molti non distinguono chi hanno di fronte, se una
persona reale o una immaginaria, stimola il livello irrazionale producendo
giudizi estremi e irrealistici.
Qualcosa,
e spesso più che qualcosa, l’attore deve pagare a sé stesso per il carosello di
immedesimazioni a cui si sottopone; ma deve farlo anche con la gente; nella
vita sociale non può avere un comportamento più finto di quello che ha sulla
scena e l’esuberanza come forma di sollievo e distacco dai fantasmi drammatici
viene fraintesa; soprattutto, non gli si perdona di non somigliare alle grandi
figure che interpreta; egli è solo un uomo, non un eroe tragico o un buffone
rassicurante.
Del
1758 è la delirante lettera di J.J. Rousseau a D’Alembert (Lettera a
d’Alembert sugli spettacoli). “Noi crediamo che il teatro sia un punto di
riunione, in realtà è il posto in cui ciascuno si isola; vi si va per
dimenticare i propri amici, i propri conviventi, i propri parenti; per
interessarsi a delle favole, per piangere le sventure dei morti o per ridere a
spese dei vivi (…) In che cosa consiste il talento dell’attore? Nell’arte di
travestirsi, di assumere un carattere diverso dal proprio, di apparire
differenti da come si è, di appassionarsi a sangue freddo, di dire cose diverse
da quelle che si pensano con la stessa naturalezza che si avrebbe se le si
pensasse realmente, di dimenticare infine la propria condizione a forza di
assumere quella degli altri. Che cos’è il mestiere dell’attore? Un mestiere a
causa del quale ci si offre pubblicamente per denaro, ci si sottomette
all’ignominia e agli affronti di chi peraltro ha acquistato il diritto di
farli, si mette in vendita la propria persona. Scongiuro qualunque uomo onesto
di dire se non sente nell’intimo del suo cuore che in questo commercio di sé
stessi vi è qualcosa di servile e di basso (…) Queste fanciulle audaci, prive
di qualsiasi educazione se non quella fornita dalla civetteria e da una serie
di parti amorose, assai poco vestite, continuamente circondate da una gioventù
ardente e temeraria, in mezzo alle dolci voci dell’amore e del piacere,
resisteranno alla loro età, al loro cuore, agli oggetti che le circondano, ai
discorsi di cui sono le interlocutrici, alle sempre diverse occasioni, all’oro
cui sono praticamente già vendute? (…) Proibire all’attore di essere un
vizioso, equivale a proibire a un uomo di essere ammalato”.
Di
fine secolo è L’art du comédien (1782), di Touron (o Tournon) de la
Chapelle. Il personaggio si presenta come una persona reale all’immaginazione
dell’attore, che per impersonarlo deve mettersi nelle sue situazioni e farsi le
domande: che cosa farei, io? come la penserei, se fossi lui? Per imitarne al
meglio la personalità, l’attore ripesca dalla propria esperienza situazioni,
emozioni e sentimenti simili, e li rivive per sentirsi il più possibile
coerente con quelli della scena. Ecco la tecnica esposta in tre punti: la ricostruzione
del personaggio e della situazione; la traduzione in immagini interiori forti e
dettagliate; la partecipazione emotiva.
Passo
passo ci avviciniamo sempre più alla rivoluzione stanislavskiana. I principi
generali ci sono, manca del tutto il famoso metodo. Intanto, si sottolinea che
sempre più a fare il teatro non è tanto il drammaturgo, quanto l’attore. La
sacralità del testo (dal ditirambo all’inno alla tragedia greca) sta diventando
sacralità dell’attore; egli si martirizza di fronte al pubblico donando tutto
sé stesso in un atto gratuito teso a ricreare sulla scena l’autenticità che la
vita sociale ha fatto perdere. L’attore diviene portatore o perlomeno
propugnatore di verità, come gli antichi testi del teatro di Dioniso.
A
definire che cosa sia il personaggio e come lo si debba meglio interpretare
provvede anche Goethe raccontando dell’attore Meister che non riesce a mettere
a fuoco Amleto. Si dà da fare quindi per ricostruire, a modo suo, l’intera
storia del personaggio, a partire dall’infanzia, arricchendo e completando il
quadro fornito da Shakespeare. L’obiettivo è di creare, nell’immaginazione, una
persona reale. La ricerca dell’assoluto tuttavia relativizza, perché l’Amleto
scovato nella propria mente e nella propria sensibilità da Meister sarà solo il
suo Amleto, uno degli infiniti possibili.
Tutto
questo porta, nell’Ottocento, non solo al Grande Attore, ma anche al Grande
Personaggio. Ce ne parla Tommaso Salvini (1829-1915), reputato il più completo
attore tragico del tempo.
Ecco
il finale di una lettera di Salvini sulla propria interpretazione di Corrado nella
Morte Civile (da Sul teatro e la recitazione. Scritti inediti e rari,
a cura di Donatella Orecchia, Acting Archives Review 2014).
“No.
No, con gli emendamenti da me praticati nel dramma, e consentiti dall’autore,
Corrado più non «scaturisce né si presenta un tipo psicologico bellamente
intuito di delinquente per passione, e il corollario spontaneo e indefinibile
del preordinato suicidio» sparisce del tutto. È un delinquente infelice, al
quale non dobbiamo aggravare una nuova colpa, quella cioè di togliersi la vita.
Dopo ciò io seguirò a morire di crepacuore, di paralisi cardiaca o di aneurisma,
come meglio vi aggrada chiamarla, certo di non destare nel pubblico alcun
disgusto, né violare affatto il tema della composizione. Così facendo credo
d’essere logico e accostarmi assai più a quel verismo artistico che i giovani
attori tentano inutilmente raggiungere con una slavata dizione, con delle forme
eccentriche, e con barocche e esagerate interpretazioni”.
Come
già scritto, l’attore invade il campo dell’autore e completa-cambia-mette a
fuoco secondo la propria logica e la propria sensibilità (quello che sarà
l’analisi del testo) il comportamento del personaggio; in questo caso Salvini,
uomo di valori, rifiuta la soluzione del suicidio e opta per una morte
naturale. Perfino l’autore, Giacometti, gli si arrende e nel camerino gli dice:
“Muori come ti pare”.
Ma
com’erano questi Grandi Attori di fine Ottocento? Leggiamo dal Discorso in
commemorazione della Ristori (Adelaide Ristori, 1822-1906, non solo grande
interprete europea, ma incaricata di missioni all’estero da Cavour, ammirata da
Mazzini e Garibaldi, benefattrice, imprenditrice…):
“Essa
fingeva quel vero, adatto al carattere che rappresentava; quel vero che ti
tocca e persuade; quel vero che si sente e s’imprime; quel vero, infine, a 18
carati, non quello falso, fittizio, e manierato, di cui oggi si vantano molti
comici moderni. La loro modernità consiste nel defraudare il pubblico di molte
parole del poeta: nel voltare le spalle troppo spesso all’uditorio: nell’interporre
fra un personaggio e l’altro che ragionano insieme, un pianoforte, o la
spalliera di un divano, o finalmente nel precipitare le parole in modo da
sembrare dei burattoli; mentre la prima qualità di un artista drammatico è
quella di avere la pronunzia chiara, esatta, scolpita: e questa qualità formava
uno dei più gran pregi di Adelaide Ristori. Ella riproduceva i caratteri di una
società trascorsa, e se nel rappresentare la Regina Elisabetta, o la Maria
Antonietta era necessariamente obbligata a vestire i costumi di quel tempo,
doveva pur ancor, necessariamente, di quei caratteri riprodurre la forma del
porgere,
dell’incedere e dell’esprimere, per essere nel vero. Ben mi rammento averla
udita in un Dramma francese di poco valore, intitolato: La Contessa
d’Altenberg: ebbene Essa mi fece piangere come un fanciullo: e il far piangere
un Artista, abituato alle finzioni della scena, è il culmine di una potenza
veristica. Sebbene i componimenti di allora non avessero la forma moderna di
quelli d’oggidì, vi era però maggiore sentimento, maggiore sospensione nell’intreccio
scenico, maggiore castigatezza nel dialogo, e maggiore moralità. Allora i
componimenti miravano ad esaltare l’anima, e toccare il cuore, mentre oggi si
cerca a preferenza di molestare i nervi. Le impressioni che l’uditorio riceveva
allora erano durature, mentre ora sono fugaci. In allora gli autori parlavano
alla mente e all’anima, ora parlano ai sensi. Ben si comprende che escludo
coloro esenti da simile taccia; ma pur troppo la maggioranza degli autori
italiani e stranieri tende ad un verismo talmente licenzioso che confina con
l’inverosimile e con l’oscenità. Ho sentito sulla scena esaltare la poligamia;
ho veduto intimi contatti, scusabili soltanto in privato; come pure proteggere
il misfatto e giustificare il delitto, con l’attenuante della forza
invincibile. Ma mio Dio! Lasciamo ai manicomi,
agli
spedali, ai Gabinetti anatomici e agli ergastoli la cura di rimediare e correggere
le anomalie della mente e le sozzure del corpo. Purché sia nuovo, tutto si
accetta e si crede ammesso, ma fortunatamente non tutto è applaudito. Fortuna
volle che Adelaide Ristori vivesse in tempo in cui il
teatro
era scuola d’istruzione e di moralità”.
L’attore
vate moralizzatore.
L’attore
votato al bene comune della polis. Solo che ora la polis si dedica allo
sfruttamento di donne e bambini dell’era industriale, al colonialismo e alle
guerre, peggio che Atene prima che avviasse con le sue stesse mani la
decadenza. Attori vittoriani, attenti ancora al decoro. Sì alle emozioni, ma
solo a quelle che esaltano l’animo ai valori patriottici, religiosi, familiari.
Ma com’era la Ristori?
“I
pregi della nostra Ristori non si limitavano ad avere un talento superiore, una
prestazione artistica, unica anziché rara, lampi di genio ammirabili, ma era
dotata pur anco di una bellezza raffaellesca, di un nobile contegno, di un
conversare squisito, e ancora d'una volontà ferrea, d’una tenace persistenza, e
di nervi d’acciaio. Ben la vid’io, dopo una recita della Regina Elisabetta,
affaccendarsi a riporre gelosamente bene condizionati i suoi cinque costumi
entro ai bauli, e disfarne e prepararne altri per la seconda rappresentazione.
La cameriera di Lei nulla doveva toccare, di nulla ingerire; essa sola, dopo
una improba fatica, grondante di sudore, doveva compiere quel molesto servigio.
Con uguale forza, con la stessa energia Ella aveva il potere di rappresentare
in recite successive la Medea, la Giuditta, l’Elisabetta Regina d’Inghilterra,
e durante gl’intervalli di un atto all’altro Ella riceveva nel suo gabinetto
letterati, artisti, autori, e la schiera infinita de’ suoi entusiastici
ammiratori, e con tutti teneva una garbata e geniale conversazione”.
Mi
sembra di sentire Diderot che borbotta imbronciato: ricevere tra un atto e
l’altro? e l’emozionalismo? e l’immedesimazione?
L’interprete,
afferma Salvini, non deve solo sentire con i sentimenti del personaggio, ma
anche pensare con il suo cervello. La partecipazione emotiva non significa
affatto perdita di controllo, dato che è preceduta da un lavoro intenso di
elaborazione testuale, comprensione di fatti e caratteri e analisi profonda di
sé stessi. Fissa quattro principi: il compito fondamentale della recitazione è
rendere vivo un personaggio come individuo; nell’interpretazione è coinvolta
l’intera personalità dell’attore, emozioni e pensiero; ogni caratterizzazione
esteriore si rifà a un’interiorità unica e individuale; il processo
interpretativo è unico e infinito, partendo dalla prima lettura, procedendo con
la comprensione e l’approfondimento, le strategie, le prove, le repliche, senza
che questo sviluppo unitario abbia mai fine, essendo sempre perfezionabile.
Siamo
così pronti per le esperienze eterogenee, rivoluzionarie, estreme,
straordinarie e utopistiche del Novecento.
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