Teatro Civico di Oleggio, giovedì 4 maggio 2017. LA MEDEA, testo e regia di Aquilino. Con Luca Andrico, Ariel Apollo, Lucrezia Balbo, Viola Beghelli, Lucia Cavazza, Valentin Ciocoi, Francesco Divisoli, Matteo Fanchini, Giulio Gallarate, Raffaele Giannantonio, Alice Iorio, Giorgia Picaro, Angelica Roman, Francesco Schirò. Foto di Laura De Paoli.
venerdì 10 novembre 2017
mercoledì 8 novembre 2017
IL VALORE EDUCATIVO DEL TEATRO
Sono ormai parecchi anni che l’I.C. Verjus di Oleggio mi ha messo
a disposizione un’aula per proporre un laboratorio di teatro agli alunni dalla
classe Quarta Elementare alla Terza Media. Mi propongo di fare un consuntivo.
Durante i primi anni ci siamo dedicati alla Commedia dell’Arte.
Abbiamo messo in scena “L’Arlechin fantasimo”, “L’Arlechin ladro e ladron”, “L’Arlechin che copa i gati”. La formula ha
avuto successo, ma la carica espressiva si è esaurita per diversi motivi: l’impegno
eccessivo per le scenografie e i costumi; l’impossibilità (per la mancanza di specialisti,
per la durata del laboratorio e per lo spazio ridotto) di fornire ai ragazzi
una preparazione attoriale adeguata; la ripetitività. Abbiamo allora portato in
scena “L’angelo dei morti”, un’opera di gusto contemporaneo. A questo punto,
bisognava fare i conti con l’età degli allievi (cresciuti e in procinto di
navigare verso altri interessi) e con la mia mancanza di motivazione. Avevo
bisogno di una formula nuova.
Dalla Commedia alla tragedia greca. In quegli anni è cresciuta in
me la passione per la Grecia micenea e classica. Mi sono messo a scrivere saggi
e un romanzo su Eracle. Ho scritto anche una decina di opere teatrali ispirate
alla formula della tragedia. Per due anni le ho mandate al concorso del Cendic
(Centro drammaturgia italiana contemporanea) e sono arrivate in finale, quindi
sono state apprezzate. Mentre elaboravo la nuova formula, proponevo il
laboratorio in una nuova veste, presentando “Cappuccetto Lupo” e “Donne che
fanno scena”, un collage di scene da Shakespeare in poi ridotte per i ragazzi.
Ma ormai il cambiamento era alle porte. Il timore era che ai ragazzi (così
giovani!) non piacesse mettere in scena personaggi mitici al di fuori della
loro esperienza; e che il pubblico non gradisse il tragico, abituato
alla superficialità e alla giocosità dei media. Ecco quindi “Le Baccanti”,
seguite da “La Medea” e ora da “Le donne di Ilio”. È andato tutto bene. I
ragazzi sono più che contenti di interpretare eroi, dei e figure tragiche. Il
pubblico ha accolto con favore qualcosa di diverso.
Tornando allo scopo di questo breve scritto: a che cosa è servito
il teatro ai ragazzi? Vediamo di capirlo.
RELAZIONI CON GLI ALTRI. I due gruppi che gestisco comprendono allievi di età diverse, dai 9 ai 12. Questo costituisce uno stimolo e un’attrattiva. Ho visto ragazzini vittime di bulli o ragazzine solitarie farsi sempre più sicuri, superando l’immagine svalutante di sé che si erano costruiti. Il teatro costringe a scambi di sguardi, a contatti fisici, a stabilire intimità virtuali con i partner, ad affrontare insomma la presenza fisica e psichica dell’altro. Per sostenere tutto questo, è necessario passo dopo passo rinforzare la propria struttura comunicativa, superando timidezza, facile emotività, inibizione.
RELAZIONI CON SÉ STESSI. Il ragazzo poco sa del mondo, meno ancora
di sé. Reduce da assidui allenamenti atletici, facendo teatro si rende conto di
non avere il controllo del corpo, nonostante i gol effettuati. Risulta goffo e
insicuro. E, come gli altri, per quanto sia espansivo e addirittura petulante,
fatica a esprimere con le parole emozioni e sentimenti. Scopre di sentirsi
inerme di fronte a un pubblico. Si rende conto che non ha mai preso in
considerazione l’occupazione sicura dello spazio. Si ritrova una voce piatta e
monotona. Si vede impacciato e insicuro. Ma il teatro, dopo avere svelato i
punti deboli, attiva immediatamente la terapia. Con emozione, frustrazione e
timore di non essere all’altezza, dà una mano a rendere più salde e stabili le
strutture dell’Io. L’allievo si confronta con gli altri, si confronta con il
pubblico, ma soprattutto con sé stesso. Ci sono quelli ai quali non interessa
il cambiamento e la crescita, ma la maggioranza trae sicuramente benefici dall’attività
scenica.
RELAZIONI CON LA SCENA. La scena, per l’attore, è il mondo. Niente
esiste al di là. Sulla scena nasce e muore la vicenda rappresentata, tutte le
parole recitate sono lì. L’attore, per darle un significato, deve operare una
sintesi fra presenza fisica e interpretazione. Egli è: sé stesso, la propria
dissociazione (l’Io che usa il Sé), un altro da Sé stesso e cioè il
personaggio, il ruolo. La complessità dell’arte attoriale obbliga a uscire da
sé, per rientrarvi arricchiti da un’esperienza quasi extrasensoriale, dato che
si svolge nel mondo dell’immaginazione. Non mi aspetto tanto dai miei allievi.
Che cioè sappiano dare corpo all’immaginazione vivendo la scena come se fosse…
e agendo come se essi fossero diventati… Ma la dinamica rimane potente e
coinvolge il ragazzo in un gioco più alto di quello infantile del “facciamo
finta che io sono…”, perché ora è consapevole e coinvolge la tecnica
espressiva. La parte più difficile non è in un duello di lance o di spade,
immaginando di essere eroi micenei. Ma quella di sentire in sé il dolore per la
perdita di qualcuno o la disperazione della madre che vede uccidere il figlio.
Tutto è finto, intorno all’attore, ma il teatro lo invita a rendere vere le
emozioni. Come si fa a rendere il dolore? la disperazione? l’odio? l’amore?...
Come si fa con la voce e con lo sguardo, con la mimica facciale e con il
movimento del corpo? Nella vita quotidiana si ride molto, ma spesso le altre
emozioni sono una maschera neutra. Il teatro invece le fa parlare.
RELAZIONI CON IL TESTO. Non ho voluto ridurre il testo delle
tragedie a uso di ragazzi illetterati (ho visto pubblicazioni con riduzioni di
Euripide in slang teen-comedy che ho giudicato oltraggiose, non solo per
Euripide ma anche per i ragazzi). I ragazzi sono intelligenti e quello che non
capiscono se lo fanno spiegare. Non voglio trattarli da bambini limitati. Il
primo scoglio è quindi la comprensione, ma lo si supera in fretta: lessico,
riferimenti storici e mitologici… Poi viene il rapporto
denotazione-connotazione. Una frase sembra semplice, ma può nascondere
significati più profondi da indagare. Quindi l’intenzionalità: quali sono i
reali sentimenti del personaggio? E così via. Vengono poi le implicazioni
ritmiche. Inserisco molte parti corali in metrica e rima o anche a verso
libero. Parti traumatiche, quando propongo di cantarle. Finora sono pochissimi
quelli che osano cantare senza musica e senza melodia, inventandosele. E la declamazione
ritmica, scandita? Sono restii, non fa parte della loro cultura. In seguito,
però, ci prendono gusto.
RELAZIONI CON IL CORPO. Ahi ahi. Come ho già detto, non basta una disciplina
sportiva o un’esperienza nel campo della danza per fare l’attore. Una brava
ballerina può incontrare difficoltà a muoversi con scioltezza sulla scena. E un
calciatore è come un elefante in una scatola. Lavoro bene con i bambini, ma con
l’adolescenza il corpo è un conflitto continuo. Il corpo libero sul
palcoscenico è un corpo esibito in tutta la sua fragilità. Ne emergono i limiti
funzionali ed estetici e l’adolescente è restio ad affrontare il pubblico. Stia
tranquillo, il teatro gli insegna come fare. Il proprio corpo in vetrina deve
non solo affrontare gli sguardi del pubblico, ma sostenere il rapporto con
altri corpi. Quante volte mi sono sentito dire: io non lo guardo, io non lo
tocco. Ora i miei allievi osano fissarsi negli occhi con l’intensità voluta, ma
per molti di loro c’è voluto un percorso. Ora affrontano coreografie di corpi
in movimento, ma hanno dovuto accettare la novità di un corpo scomposto e superare
il timore di coinvolgimenti fraintesi. Il teatro spinge verso l’innocenza dei
rapporti e quindi verso una comunicazione più libera e più facile.
RELAZIONI CON IL REGISTA. Lavorare con i ragazzi mi costringe a
ricoprire più ruoli: drammaturgo, regista, scenografo, costumista… Chiamo
magari un esperto. Quest’anno una coreografa, ma solo per tre interventi. I
laboratori sono gratuiti, ai genitori chiedo una quota per le spese. A pochi
interessa lavorare con i ragazzi, se non c’è scopo di lucro. Chi fa teatro
amatoriale lo fa per esibirsi o per divertirsi con i coetanei. Quindi di solito
mi ritrovo da solo. Ma che cosa rappresento io per gli allievi? Mi danno del
tu, mi chiamano per nome, ma ogni tanto rispunta un prof. Il perché è
presto detto. Sono loro amico, ma non nel senso di amicone. Il nostro rapporto,
d’altronde, si limita all’incontro settimanale. Io sono anche l’autorità e
questo deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che il teatro è impegno,
serietà, responsabilità, puntualità, ordine, correttezza… Non è facile ottenere
tutto questo da ragazzini che vogliono, anche, divertirsi. Non è facile
preservare la loro spontaneità e richiedere al contempo disciplina assoluta.
Non voglio un laboratorio con manichini ambiziosi che obbediscono a bacchetta
pur di primeggiare. Il nostro è un laboratorio alla buona, in cui ci si riesce
anche a divertire (in chiusura, giochi sempre a sfondo teatrale ed esibizioni).
Si lavora sodo. I ragazzi imparano a collaborare e a impegnarsi non solo per sé
ma anche per gli altri. Hanno imparato che il teatro non è fare gli stupidi su
un palcoscenico, ma è una fatica dura che, per noi, ripaga solo per un’unica
serata.
Ma non è tanto l’esito della rappresentazione (sempre di
successo), quando l’itinerario attraverso la memorizzazione (da farsi in
estate), il superamento degli ostacoli emotivi e dei limiti individuali, lo
stabilirsi di relazioni nuove con gli altri e con l’ambiente, la scoperta delle
proprie potenzialità, l’attivazione dell’immaginazione, il ricorso a nuove
abilità fisiche e foniche, l’approfondimento di temi importanti e adulti,
la misura di sé nella cooperazione, il miglioramento del carattere… E tutto questo
e altro ancora è teatro.
lunedì 6 novembre 2017
LA SCRITTURA È UN'ALTRA VITA
Quando domandate a uno scrittore,
soprattutto se debuttante o fortunosamente baciato dalla fortuna fin dalla sua
prima pubblicazione: “Che cos’è la scrittura per te?”… facile che vi risponda: “È
la mia vita.” E i più facondi aggiungono: è tutto, senza scrivere non potrei
vivere, la vita non avrebbe senso. E altre amenità simili.
Alla stessa domanda quanti danno
la medesima risposta? Prendiamo in considerazione solo quelli animati da una
forte passione. La lista è lunga: l’imprenditore, l’insegnante, l’infermiera,
il politico, il pittore, la ballerina, il cantante… Potete fare le vostre
aggiunte.
La scrittura, come senso della
vita, non si differenzia dall’erigere palazzi o dal presenziare a riunioni di
partito o dal partecipare a festival canori.
Ognuno di questi protagonisti
cerca con affanno una distinzione che confermi la sua scelta “di vita”. Proprio
come andare alla ricerca di un blasone. Nella vita di tutti i giorni scrivere non
contempla solo un’inventiva esasperata e aristocratica, ma anche una documentazione
prosastica, un logorio mentale da travet, una commercializzazione della
genialità mediante contatti a volte conflittuali con le case editrici, incontri
con i lettori a volte frustranti, stesura di sinossi e presentazioni da
bandella, rancori con il fisco… La scrittura è costruita non solo con la
digitazione alla tastiera, ma con una serie di attività che richiedono
pazienza, sopportazione, costanza… in netta contrapposizione con la purezza
dell’atto creativo.
Se la scrittura si identificasse
davvero con la vita, quanti momenti “plebei” presenterebbe!
Quando gli scrittori si confessano
al pubblico ristretto delle presentazioni in biblioteca, raccontano di sé cose
accattivanti e tacciono le miserie che farebbero della letteratura un emporio
di cose fuori moda.
Molti nascondono l’ambizione,
offrendo di sé un’immagine sofferta di missionari della parola. Altri la
manifestano in modo sfacciato, perché l’ambizione è il viagra delle persone con
attributi e senso di responsabilità verso sé stessi.
Se l’editore adotta una strategia on
demand (stampa solo su ordinazione), oppure richiede l’acquisto di una
cinquantina di copie, è meglio non farlo sapere. Se il testo (in origine
piuttosto acciaccato), è stato risanato dall’intervento massiccio di un editor,
non lo si dice. Se il libro è frutto di un’intesa redazionale che insegue la
moda del momento, lo si taccia.
La pubblicazione dà per certa l’assunzione
dello status di scrittore. Come chi spiaccica colori su una tela si
autodefinisce pittore. Come chi viene sbattuto su un palcoscenico per mancanza
di altre opzioni si sente subito attore.
L’apprendimento di un’arte
appartiene al passato. Ora si è quello che si vuole diventare. E alla risposta:
che cos’è per te…? il soggetto risponde spavaldo: la mia vita!
C’è un altro tipo di scrittore.
Quello vero.
Sì, sì, anche per lui la scrittura
è tutta la vita… per quanto nella vita ci siano altre cose desiderabili, forse.
In realtà, se la scrittura fosse la sua vita, dovrebbe mettere in conto l’ambizione
sfrenata, la frequentazione dei salotti letterari, la partecipazione ai premi
letterari, la frenesia di una apparizione televisiva, e infine il delirio di un
best-seller.
Ma per questo scrittore l’arte
della prosa e della poesia non è vita, è non vita.
Si rende conto che i medesimi
processi politici e sociali che hanno portato alla divisione in classi, all’inquinamento,
alla guerra, alla sottomissione delle masse… sono presenti nell’ambiente
artistico.
D’altronde, il comportamento umano
non cambia nemmeno di fronte a un quadro di Leonardo. È sempre predatorio e opportunista.
Oltre che bugiardo.
Questo scrittore scrive per insoddisfazione.
È deluso dalla vita, ne cerca un’altra. Non può fare l’astronauta e andarsene
su Marte. Non può entrare in chiesa in cerca di consolazione, non crede in dio.
Non può accontentarsi dei premi, li danno a cani e porci. Non gli interessa
diventare famoso, si troverebbe in cattiva compagnia. Non vuole nemmeno
diventare molto ricco, i soldi sono un peso. E la fama eterna? Sì, quella ha un
certo senso, perché rappresenta comunque una fuga dalla realtà. Ama pensare che
i propri lettori non siano qui e ora, ma altrove e nel futuro.
Se la vita attuale non dà
soddisfazioni, perché non immaginarne un’altra?
Ecco che cosa fa questo scrittore.
Non fugge da sé stesso. La nuova vita è solo una modalità virtuale di manovrare
persone e fatti, di manipolare i luoghi e il tempo, di inventare l’impossibile,
di specchiarsi nell’irrazionale, di diventare un dio che racconta la propria
creazione.
Tutto qui il senso della sua scrittura.
Giocare a fare dio non è scevro da
pericoli.
Pagina dopo pagina, la vita perde
sempre più le sue attrattive. Si avvia verso un autunno privo di colori, e un
inverno di suicidi.
La scrittura è l’unico rifugio di
un’anima malata. Sempre più incapace di relazioni. Che non comprende il fascino
del viaggio, perché ogni luogo è nella mente. Non apprezza un’opera d’arte se
non quella che ha eletto a alter-ego. Non valuta più di tanto la sensibilità altrui,
perché trabocca della propria. Addirittura, prova fastidio se il discorso
naviga verso le isole delle sue opere presenti e future: sono isole di un altro
oceano, che non risulta sul mappamondo.
Non gli interessano gli interventi
critici e nemmeno gli apprezzamenti e tantomeno le stroncature: l’unico
giudizio valido è il suo.
Ma non dà nemmeno giudizi. Scrive
e prima ancora di finire un’opera rimescola nella mente e nel cuore gli
ingredienti per la prossima.
Il suo compito non è soffermarsi
su un mondo che ha creato, ma produrne altri, senza sosta. In questo caso sì
che si può dire che ogni pagina è un respiro e che la scrittura è la sua vita.
Ma non questa. Un’altra.
Nella quale nemmeno i lettori
possono entrare.
venerdì 3 novembre 2017
LABORATORIO DI SCRITTURA IN QUINTA ELEMENTARE: RODARI
Il progetto di "Il Mangialibri" prevede che mi rechi nelle scuole per laboratori di scrittura sia di prosa sia di poesia, a scelta dei docenti. Nelle due Quinte della scuola Rodari di OIeggio, con la maestra Elisabetta Rampazzo, affrontiamo la prosa.
Propongo la stesura di un incipit e come faccio spesso porto io qualche esempio. Parlo quindi del punto di vista, della questione del narratore. Leggo i tre esempi di incipit di una storia semplice: il/la protagonista vede atterrare un Ufo. Poi espongo la problematica del livello di scrittura: cronaca giornalistica, esposizione documentaristica, narrazione oggettiva, drammatica... Il livello più profondo e complesso è quello che ricorre a tutta la potenzialità della lingua, saccheggiando quindi anche le risorse della forma poetica. Invito i ragazzi a scegliere a seconda della propria competenza linguistica: un incipit più facile di una storia di avventura o uno più difficile di un doloroso episodio di bullismo?
Li assisto durante l'elaborazione, convertendo in patrimonio comune le osservazioni al singolo. Leggo poi gli scritti continuando con le osservazioni, che di solito vertono su:
- coerenza dei tempi verbali
- punteggiatura, soprattutto l'uso del punto
- verifica logica del succedersi degli avvenimenti (le procedure)
- ottimizzazione ed efficacia del discorso diretto
- la partecipazione emotiva
- la credibilità da parte del lettore
- il "respiro" del periodo
- quale tempo verbale scegliere (l'immediatezza del presente)
- d eufonica, accenti e apostrofi, maiuscole, l'uso della acca... eccetera.
Il tempo è poco, ma è sufficiente per indurli a riflettere su elementi importanti. E i ragazzi lavorano con attenzione, interesse e intensità.
Ecco i miei incipit che servono da guida.
TRE PUNTI DI VISTA
Giulio non aveva sonno. Se ne
stava alla finestra della propria camera e osservava il cielo. Era stata una
giornata intensa ed emozionante. Con la classe era andato a Torino a visitare
il Mufant, il Museo del Fantastico e della Fantascienza. Non era grande, ma
c’erano delle cose… Le sale più interessanti erano quelle di Star Wars e Star
Trek. Contenevano modellini, manichini con i costumi originali, disegni e
gadget di tutti i tipi. Quante cose avrebbe voluto portarsi a casa! Il piacere
del ricordo fu interrotto da una strana scia luminosa nel cielo. Una stella
cadente? Così luminosa? Ma… dove andava a cadere? Nel campo proprio dietro casa
sua? E se invece di una stella fosse stata…? Emozionato e anche spaventato
corse fuori, senza nemmeno pensare di svegliare i genitori.
Troppo stanco per dormire. Sono
ancora eccitato! Me ne sto qui alla finestra a guardare il cielo. Star Wars e Star Trek! Mel
museo c’erano cose spettacolari. Si chiama Mufant, è a Torino. Ci siamo andati
in pullman, abbiamo cantato e fatto un po’ gli stupidi. Continuo a pensare ai
modellini, ai costumi… ehi, quello che cos’è? Una stella cadente? O un
satellite artificiale in avaria? Sta precipitando proprio qui dietro! Magari è
un meteorite d’oro! Sveglio la mamma e il papà? Se non è niente me ne dicono di
tutti i colori. Prima vado a vedere.
Sto precipitando sul pianeta
sconosciuto. Ci sarà vita? Ho lasciato appena in tempo la navicella di
esplorazione. Appena espulsa la mia capsula, è esplosa. Appena atterro lancio
un segnale radio. Se la capsula non si disintegra. Se non mi disintegro
anch’io. Sto captando qualcosa. Una forma di vita pensante. Attiverò il
traduttore linguistico. Per ora ricevo solo le immagini mentali. Astronavi,
tute spaziali… L’essere si è accorto di me. Lo sento spaventato ed emozionato
allo stesso tempo. Spero che non sia pericoloso. Spero che sia pacifico. Non
vorrei doverlo disintegrare.
TRE
STILI DI SCRITTURA: classico, drammatico, poetico
Quando ripenso a quello
che mi è successo, mi sento molto triste. Anzitutto, perché ho l’impressione di
essere stato abbandonato da tutti. Nessuno mi ha difeso. Poi, perché mi sembra
che nessuno mi capisca. Non soffro per l’occhio nero, ma per l’umiliazione. Mi
sono sentito una nullità. Trattato come se non fossi una persona, ma una cosa
da prendere a calci. Infine, ora diffido di tutti. Anche se non vogliono farmi
del male, penso che agli altri di me non importa proprio nulla. Sono solo e ho
paura. Non voglio più andare a scuola. Non voglio nemmeno uscire di casa.
In tre, circondato. Non
dimenticherò mai le loro facce. Come certi incubi che ritornano. Musi, non
facce. Musi cattivi. Prima le parole. È capitato anche a me di provare rabbia o
odio e di insultare, ma… Loro usano parole che nessuno dovrebbe usare. Mai. Me
le scaricano addosso come se mi ricoprissero di spazzatura. Poi gli spintoni,
le sberle, i pugni, i calci… E intorno a me… ridevano. O scappavano per non
andarci di mezzo. Mi hanno abbandonato. Ora ho vergogna. Penso che tutti
parlano di me. Dicono: si è lasciato picchiare. No, grido alla mamma, a scuola
non ci torno! Non esco nemmeno di casa. Loro sono là che mi aspettano. E io… ho
paura.
Di colpo buio. Solo le
ombre. Ma ombre di che cosa? Di parole dure. E io dicevo: devo andare… per
favore… Voci di pietra. Spinto qua, spinto là… Ho pensato: mi viene la nausea,
adesso vomito. E poi la prima pietra mi ha colpito. Una parola o un pugno?
Male, qui, sul petto. Mi sono piegato. Sono caduto? No, no, volevo scappare.
Ah, dove? Cado sulle ginocchia. Ci sono cocci di vetro, per terra. Ci metto
sopra le mani. Grido. Male dentro, un chiodo mi trafigge la lingua. Gemo. Supplico?
Non so niente. Non capisco niente. Mi raggomitolo. E loro picchiano.
Ecco alcune righe dei loro elaborati.
Sono
molto preoccupata per il mio bambino Giulio. Ha un occhio nero. Giulio dice che
è stato un alieno. Secondo me ha giocato troppo con il pupazzo di Alien ed è
caduto giù dal letto.
(Thomas)
Prima
le parole. Graffianti come artigli affilati, gli orsi aspettano il momento
giusto per attaccare. Dopodiché affondano i denti nella mia carne. I miei
compagni… I miei compagni scappano come volpi tra le sterpaglie. Sono solo.
(Viola)
Un
bambino di nome Andrea felice come tutti gli altri. Una sera stava andando in
bagno. A un certo punto vide una persona tutta vestita di nero. Era un ladro.
(Daniel)
Continuo
a pensare a quei momenti. Tutti mi prendono in giro. Mi sento escluso. Nessuno
mi aiuta. Mi sento debole. Non mi fido più di nessuno. Andiamo tutti da Andrea
a prenderlo in giro! Ehi, tu! Sei un imbecille!
(Samuele)
Corse
alla finestra con gli occhi appannati e vide qualcosa di rosso, rosso fuoco.
Corse fuori. “Ehi!” urlò. C’era un alieno. Era coperto da un mantello, sembrava
carino e coccoloso. “Ti terrò qui, ti proteggerò, sei solo un cucciolo!”
(Vanessa)
Un
giorno come tutti gli altri. Era sera. Vidi alla finestra un uomo che mi
fissava. Era vicino a casa mia. Ero terrorizzato. Aveva gli occhi inquietanti.
(Matteo)
Era
una notte piena di felicità, per Luigi. Stava scrivendo sul diario la giornata
che aveva trascorso al museo Mufant. Ma a un certo punto sentì un rumore. Corse
alla finestra, vide un arcobaleno invaso da una polvere nera.
(Lorenzo)
Cinque
ragazzi bulli ritornarono dopo la mensa e gridarono: “Ehi, idiota, vieni qua.”
Marco fu picchiato, spinto e maltrattato.
(Vanessa)
Oggi
siamo andati a Milano per il mio compleanno. Siamo stati al museo dei
dinosauri. A un certo punto ho visto una cosa che si muoveva in mezzo alla
stanza. Uno scheletro di T-rex!
(Valentina)
Mi
sento a terra. Calciato come un pallone. Trafitto da una spada. Loro ridono e
gli altri scappano. Nessuno mi aiuta. Pugni uguali a sassi. Manate come
frustate. Il pavimento fatto di chiodi mi trafigge.
(Nicolò)
Oamai
la celula si sta per disinestare. E il tratutore si sta per scaicare… Che
sfortuna la capsula di esplorazione e esplosa appena lo inviata.
(Rocco)
Era
un giorno di scuola come tutti gli altri. Il bullismo era tornato, lui era
tornato. Perché me? Io non faccio niente di male nella vita: studio, prendo bei
voti… ma niente!
(Alessandra)
Oggi
io e la mia classe siamo andati al Mufant. È stato fantastico! E mentre stavamo
tornando a scuola, dal finestrino dell’autobus ho visto qualcosa di infuocato
cadere dal cielo. Forse… un Ufo!
(Alberto)
Nicolò
era ancora sveglio. Era felice di essere andato al Museo Egizio. Tutte quelle
sale sui faraoni, sulle piramidi, sulle costruzioni…
(Mattia)
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