Quando domandate a uno scrittore,
soprattutto se debuttante o fortunosamente baciato dalla fortuna fin dalla sua
prima pubblicazione: “Che cos’è la scrittura per te?”… facile che vi risponda: “È
la mia vita.” E i più facondi aggiungono: è tutto, senza scrivere non potrei
vivere, la vita non avrebbe senso. E altre amenità simili.
Alla stessa domanda quanti danno
la medesima risposta? Prendiamo in considerazione solo quelli animati da una
forte passione. La lista è lunga: l’imprenditore, l’insegnante, l’infermiera,
il politico, il pittore, la ballerina, il cantante… Potete fare le vostre
aggiunte.
La scrittura, come senso della
vita, non si differenzia dall’erigere palazzi o dal presenziare a riunioni di
partito o dal partecipare a festival canori.
Ognuno di questi protagonisti
cerca con affanno una distinzione che confermi la sua scelta “di vita”. Proprio
come andare alla ricerca di un blasone. Nella vita di tutti i giorni scrivere non
contempla solo un’inventiva esasperata e aristocratica, ma anche una documentazione
prosastica, un logorio mentale da travet, una commercializzazione della
genialità mediante contatti a volte conflittuali con le case editrici, incontri
con i lettori a volte frustranti, stesura di sinossi e presentazioni da
bandella, rancori con il fisco… La scrittura è costruita non solo con la
digitazione alla tastiera, ma con una serie di attività che richiedono
pazienza, sopportazione, costanza… in netta contrapposizione con la purezza
dell’atto creativo.
Se la scrittura si identificasse
davvero con la vita, quanti momenti “plebei” presenterebbe!
Quando gli scrittori si confessano
al pubblico ristretto delle presentazioni in biblioteca, raccontano di sé cose
accattivanti e tacciono le miserie che farebbero della letteratura un emporio
di cose fuori moda.
Molti nascondono l’ambizione,
offrendo di sé un’immagine sofferta di missionari della parola. Altri la
manifestano in modo sfacciato, perché l’ambizione è il viagra delle persone con
attributi e senso di responsabilità verso sé stessi.
Se l’editore adotta una strategia on
demand (stampa solo su ordinazione), oppure richiede l’acquisto di una
cinquantina di copie, è meglio non farlo sapere. Se il testo (in origine
piuttosto acciaccato), è stato risanato dall’intervento massiccio di un editor,
non lo si dice. Se il libro è frutto di un’intesa redazionale che insegue la
moda del momento, lo si taccia.
La pubblicazione dà per certa l’assunzione
dello status di scrittore. Come chi spiaccica colori su una tela si
autodefinisce pittore. Come chi viene sbattuto su un palcoscenico per mancanza
di altre opzioni si sente subito attore.
L’apprendimento di un’arte
appartiene al passato. Ora si è quello che si vuole diventare. E alla risposta:
che cos’è per te…? il soggetto risponde spavaldo: la mia vita!
C’è un altro tipo di scrittore.
Quello vero.
Sì, sì, anche per lui la scrittura
è tutta la vita… per quanto nella vita ci siano altre cose desiderabili, forse.
In realtà, se la scrittura fosse la sua vita, dovrebbe mettere in conto l’ambizione
sfrenata, la frequentazione dei salotti letterari, la partecipazione ai premi
letterari, la frenesia di una apparizione televisiva, e infine il delirio di un
best-seller.
Ma per questo scrittore l’arte
della prosa e della poesia non è vita, è non vita.
Si rende conto che i medesimi
processi politici e sociali che hanno portato alla divisione in classi, all’inquinamento,
alla guerra, alla sottomissione delle masse… sono presenti nell’ambiente
artistico.
D’altronde, il comportamento umano
non cambia nemmeno di fronte a un quadro di Leonardo. È sempre predatorio e opportunista.
Oltre che bugiardo.
Questo scrittore scrive per insoddisfazione.
È deluso dalla vita, ne cerca un’altra. Non può fare l’astronauta e andarsene
su Marte. Non può entrare in chiesa in cerca di consolazione, non crede in dio.
Non può accontentarsi dei premi, li danno a cani e porci. Non gli interessa
diventare famoso, si troverebbe in cattiva compagnia. Non vuole nemmeno
diventare molto ricco, i soldi sono un peso. E la fama eterna? Sì, quella ha un
certo senso, perché rappresenta comunque una fuga dalla realtà. Ama pensare che
i propri lettori non siano qui e ora, ma altrove e nel futuro.
Se la vita attuale non dà
soddisfazioni, perché non immaginarne un’altra?
Ecco che cosa fa questo scrittore.
Non fugge da sé stesso. La nuova vita è solo una modalità virtuale di manovrare
persone e fatti, di manipolare i luoghi e il tempo, di inventare l’impossibile,
di specchiarsi nell’irrazionale, di diventare un dio che racconta la propria
creazione.
Tutto qui il senso della sua scrittura.
Giocare a fare dio non è scevro da
pericoli.
Pagina dopo pagina, la vita perde
sempre più le sue attrattive. Si avvia verso un autunno privo di colori, e un
inverno di suicidi.
La scrittura è l’unico rifugio di
un’anima malata. Sempre più incapace di relazioni. Che non comprende il fascino
del viaggio, perché ogni luogo è nella mente. Non apprezza un’opera d’arte se
non quella che ha eletto a alter-ego. Non valuta più di tanto la sensibilità altrui,
perché trabocca della propria. Addirittura, prova fastidio se il discorso
naviga verso le isole delle sue opere presenti e future: sono isole di un altro
oceano, che non risulta sul mappamondo.
Non gli interessano gli interventi
critici e nemmeno gli apprezzamenti e tantomeno le stroncature: l’unico
giudizio valido è il suo.
Ma non dà nemmeno giudizi. Scrive
e prima ancora di finire un’opera rimescola nella mente e nel cuore gli
ingredienti per la prossima.
Il suo compito non è soffermarsi
su un mondo che ha creato, ma produrne altri, senza sosta. In questo caso sì
che si può dire che ogni pagina è un respiro e che la scrittura è la sua vita.
Ma non questa. Un’altra.
Nella quale nemmeno i lettori
possono entrare.
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