Sono ormai parecchi anni che l’I.C. Verjus di Oleggio mi ha messo
a disposizione un’aula per proporre un laboratorio di teatro agli alunni dalla
classe Quarta Elementare alla Terza Media. Mi propongo di fare un consuntivo.
Durante i primi anni ci siamo dedicati alla Commedia dell’Arte.
Abbiamo messo in scena “L’Arlechin fantasimo”, “L’Arlechin ladro e ladron”, “L’Arlechin che copa i gati”. La formula ha
avuto successo, ma la carica espressiva si è esaurita per diversi motivi: l’impegno
eccessivo per le scenografie e i costumi; l’impossibilità (per la mancanza di specialisti,
per la durata del laboratorio e per lo spazio ridotto) di fornire ai ragazzi
una preparazione attoriale adeguata; la ripetitività. Abbiamo allora portato in
scena “L’angelo dei morti”, un’opera di gusto contemporaneo. A questo punto,
bisognava fare i conti con l’età degli allievi (cresciuti e in procinto di
navigare verso altri interessi) e con la mia mancanza di motivazione. Avevo
bisogno di una formula nuova.
Dalla Commedia alla tragedia greca. In quegli anni è cresciuta in
me la passione per la Grecia micenea e classica. Mi sono messo a scrivere saggi
e un romanzo su Eracle. Ho scritto anche una decina di opere teatrali ispirate
alla formula della tragedia. Per due anni le ho mandate al concorso del Cendic
(Centro drammaturgia italiana contemporanea) e sono arrivate in finale, quindi
sono state apprezzate. Mentre elaboravo la nuova formula, proponevo il
laboratorio in una nuova veste, presentando “Cappuccetto Lupo” e “Donne che
fanno scena”, un collage di scene da Shakespeare in poi ridotte per i ragazzi.
Ma ormai il cambiamento era alle porte. Il timore era che ai ragazzi (così
giovani!) non piacesse mettere in scena personaggi mitici al di fuori della
loro esperienza; e che il pubblico non gradisse il tragico, abituato
alla superficialità e alla giocosità dei media. Ecco quindi “Le Baccanti”,
seguite da “La Medea” e ora da “Le donne di Ilio”. È andato tutto bene. I
ragazzi sono più che contenti di interpretare eroi, dei e figure tragiche. Il
pubblico ha accolto con favore qualcosa di diverso.
Tornando allo scopo di questo breve scritto: a che cosa è servito
il teatro ai ragazzi? Vediamo di capirlo.
RELAZIONI CON GLI ALTRI. I due gruppi che gestisco comprendono allievi di età diverse, dai 9 ai 12. Questo costituisce uno stimolo e un’attrattiva. Ho visto ragazzini vittime di bulli o ragazzine solitarie farsi sempre più sicuri, superando l’immagine svalutante di sé che si erano costruiti. Il teatro costringe a scambi di sguardi, a contatti fisici, a stabilire intimità virtuali con i partner, ad affrontare insomma la presenza fisica e psichica dell’altro. Per sostenere tutto questo, è necessario passo dopo passo rinforzare la propria struttura comunicativa, superando timidezza, facile emotività, inibizione.
RELAZIONI CON SÉ STESSI. Il ragazzo poco sa del mondo, meno ancora
di sé. Reduce da assidui allenamenti atletici, facendo teatro si rende conto di
non avere il controllo del corpo, nonostante i gol effettuati. Risulta goffo e
insicuro. E, come gli altri, per quanto sia espansivo e addirittura petulante,
fatica a esprimere con le parole emozioni e sentimenti. Scopre di sentirsi
inerme di fronte a un pubblico. Si rende conto che non ha mai preso in
considerazione l’occupazione sicura dello spazio. Si ritrova una voce piatta e
monotona. Si vede impacciato e insicuro. Ma il teatro, dopo avere svelato i
punti deboli, attiva immediatamente la terapia. Con emozione, frustrazione e
timore di non essere all’altezza, dà una mano a rendere più salde e stabili le
strutture dell’Io. L’allievo si confronta con gli altri, si confronta con il
pubblico, ma soprattutto con sé stesso. Ci sono quelli ai quali non interessa
il cambiamento e la crescita, ma la maggioranza trae sicuramente benefici dall’attività
scenica.
RELAZIONI CON LA SCENA. La scena, per l’attore, è il mondo. Niente
esiste al di là. Sulla scena nasce e muore la vicenda rappresentata, tutte le
parole recitate sono lì. L’attore, per darle un significato, deve operare una
sintesi fra presenza fisica e interpretazione. Egli è: sé stesso, la propria
dissociazione (l’Io che usa il Sé), un altro da Sé stesso e cioè il
personaggio, il ruolo. La complessità dell’arte attoriale obbliga a uscire da
sé, per rientrarvi arricchiti da un’esperienza quasi extrasensoriale, dato che
si svolge nel mondo dell’immaginazione. Non mi aspetto tanto dai miei allievi.
Che cioè sappiano dare corpo all’immaginazione vivendo la scena come se fosse…
e agendo come se essi fossero diventati… Ma la dinamica rimane potente e
coinvolge il ragazzo in un gioco più alto di quello infantile del “facciamo
finta che io sono…”, perché ora è consapevole e coinvolge la tecnica
espressiva. La parte più difficile non è in un duello di lance o di spade,
immaginando di essere eroi micenei. Ma quella di sentire in sé il dolore per la
perdita di qualcuno o la disperazione della madre che vede uccidere il figlio.
Tutto è finto, intorno all’attore, ma il teatro lo invita a rendere vere le
emozioni. Come si fa a rendere il dolore? la disperazione? l’odio? l’amore?...
Come si fa con la voce e con lo sguardo, con la mimica facciale e con il
movimento del corpo? Nella vita quotidiana si ride molto, ma spesso le altre
emozioni sono una maschera neutra. Il teatro invece le fa parlare.
RELAZIONI CON IL TESTO. Non ho voluto ridurre il testo delle
tragedie a uso di ragazzi illetterati (ho visto pubblicazioni con riduzioni di
Euripide in slang teen-comedy che ho giudicato oltraggiose, non solo per
Euripide ma anche per i ragazzi). I ragazzi sono intelligenti e quello che non
capiscono se lo fanno spiegare. Non voglio trattarli da bambini limitati. Il
primo scoglio è quindi la comprensione, ma lo si supera in fretta: lessico,
riferimenti storici e mitologici… Poi viene il rapporto
denotazione-connotazione. Una frase sembra semplice, ma può nascondere
significati più profondi da indagare. Quindi l’intenzionalità: quali sono i
reali sentimenti del personaggio? E così via. Vengono poi le implicazioni
ritmiche. Inserisco molte parti corali in metrica e rima o anche a verso
libero. Parti traumatiche, quando propongo di cantarle. Finora sono pochissimi
quelli che osano cantare senza musica e senza melodia, inventandosele. E la declamazione
ritmica, scandita? Sono restii, non fa parte della loro cultura. In seguito,
però, ci prendono gusto.
RELAZIONI CON IL CORPO. Ahi ahi. Come ho già detto, non basta una disciplina
sportiva o un’esperienza nel campo della danza per fare l’attore. Una brava
ballerina può incontrare difficoltà a muoversi con scioltezza sulla scena. E un
calciatore è come un elefante in una scatola. Lavoro bene con i bambini, ma con
l’adolescenza il corpo è un conflitto continuo. Il corpo libero sul
palcoscenico è un corpo esibito in tutta la sua fragilità. Ne emergono i limiti
funzionali ed estetici e l’adolescente è restio ad affrontare il pubblico. Stia
tranquillo, il teatro gli insegna come fare. Il proprio corpo in vetrina deve
non solo affrontare gli sguardi del pubblico, ma sostenere il rapporto con
altri corpi. Quante volte mi sono sentito dire: io non lo guardo, io non lo
tocco. Ora i miei allievi osano fissarsi negli occhi con l’intensità voluta, ma
per molti di loro c’è voluto un percorso. Ora affrontano coreografie di corpi
in movimento, ma hanno dovuto accettare la novità di un corpo scomposto e superare
il timore di coinvolgimenti fraintesi. Il teatro spinge verso l’innocenza dei
rapporti e quindi verso una comunicazione più libera e più facile.
RELAZIONI CON IL REGISTA. Lavorare con i ragazzi mi costringe a
ricoprire più ruoli: drammaturgo, regista, scenografo, costumista… Chiamo
magari un esperto. Quest’anno una coreografa, ma solo per tre interventi. I
laboratori sono gratuiti, ai genitori chiedo una quota per le spese. A pochi
interessa lavorare con i ragazzi, se non c’è scopo di lucro. Chi fa teatro
amatoriale lo fa per esibirsi o per divertirsi con i coetanei. Quindi di solito
mi ritrovo da solo. Ma che cosa rappresento io per gli allievi? Mi danno del
tu, mi chiamano per nome, ma ogni tanto rispunta un prof. Il perché è
presto detto. Sono loro amico, ma non nel senso di amicone. Il nostro rapporto,
d’altronde, si limita all’incontro settimanale. Io sono anche l’autorità e
questo deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che il teatro è impegno,
serietà, responsabilità, puntualità, ordine, correttezza… Non è facile ottenere
tutto questo da ragazzini che vogliono, anche, divertirsi. Non è facile
preservare la loro spontaneità e richiedere al contempo disciplina assoluta.
Non voglio un laboratorio con manichini ambiziosi che obbediscono a bacchetta
pur di primeggiare. Il nostro è un laboratorio alla buona, in cui ci si riesce
anche a divertire (in chiusura, giochi sempre a sfondo teatrale ed esibizioni).
Si lavora sodo. I ragazzi imparano a collaborare e a impegnarsi non solo per sé
ma anche per gli altri. Hanno imparato che il teatro non è fare gli stupidi su
un palcoscenico, ma è una fatica dura che, per noi, ripaga solo per un’unica
serata.
Ma non è tanto l’esito della rappresentazione (sempre di
successo), quando l’itinerario attraverso la memorizzazione (da farsi in
estate), il superamento degli ostacoli emotivi e dei limiti individuali, lo
stabilirsi di relazioni nuove con gli altri e con l’ambiente, la scoperta delle
proprie potenzialità, l’attivazione dell’immaginazione, il ricorso a nuove
abilità fisiche e foniche, l’approfondimento di temi importanti e adulti,
la misura di sé nella cooperazione, il miglioramento del carattere… E tutto questo
e altro ancora è teatro.
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