mercoledì 8 novembre 2017

IL VALORE EDUCATIVO DEL TEATRO

Sono ormai parecchi anni che l’I.C. Verjus di Oleggio mi ha messo a disposizione un’aula per proporre un laboratorio di teatro agli alunni dalla classe Quarta Elementare alla Terza Media. Mi propongo di fare un consuntivo.

Durante i primi anni ci siamo dedicati alla Commedia dell’Arte. Abbiamo messo in scena “L’Arlechin fantasimo”, “L’Arlechin ladro e ladron”,  “L’Arlechin che copa i gati”. La formula ha avuto successo, ma la carica espressiva si è esaurita per diversi motivi: l’impegno eccessivo per le scenografie e i costumi; l’impossibilità (per la mancanza di specialisti, per la durata del laboratorio e per lo spazio ridotto) di fornire ai ragazzi una preparazione attoriale adeguata; la ripetitività. Abbiamo allora portato in scena “L’angelo dei morti”, un’opera di gusto contemporaneo. A questo punto, bisognava fare i conti con l’età degli allievi (cresciuti e in procinto di navigare verso altri interessi) e con la mia mancanza di motivazione. Avevo bisogno di una formula nuova.

Dalla Commedia alla tragedia greca. In quegli anni è cresciuta in me la passione per la Grecia micenea e classica. Mi sono messo a scrivere saggi e un romanzo su Eracle. Ho scritto anche una decina di opere teatrali ispirate alla formula della tragedia. Per due anni le ho mandate al concorso del Cendic (Centro drammaturgia italiana contemporanea) e sono arrivate in finale, quindi sono state apprezzate. Mentre elaboravo la nuova formula, proponevo il laboratorio in una nuova veste, presentando “Cappuccetto Lupo” e “Donne che fanno scena”, un collage di scene da Shakespeare in poi ridotte per i ragazzi. Ma ormai il cambiamento era alle porte. Il timore era che ai ragazzi (così giovani!) non piacesse mettere in scena personaggi mitici al di fuori della loro esperienza; e che il pubblico non gradisse il tragico, abituato alla superficialità e alla giocosità dei media. Ecco quindi “Le Baccanti”, seguite da “La Medea” e ora da “Le donne di Ilio”. È andato tutto bene. I ragazzi sono più che contenti di interpretare eroi, dei e figure tragiche. Il pubblico ha accolto con favore qualcosa di diverso.
Tornando allo scopo di questo breve scritto: a che cosa è servito il teatro ai ragazzi? Vediamo di capirlo.

RELAZIONI CON GLI ALTRI. I due gruppi che gestisco comprendono allievi di età diverse, dai 9 ai 12. Questo costituisce uno stimolo e un’attrattiva. Ho visto ragazzini vittime di bulli o ragazzine solitarie farsi sempre più sicuri, superando l’immagine svalutante di sé che si erano costruiti. Il teatro costringe a scambi di sguardi, a contatti fisici, a stabilire intimità virtuali con i partner, ad affrontare insomma la presenza fisica e psichica dell’altro. Per sostenere tutto questo, è necessario passo dopo passo rinforzare la propria struttura comunicativa, superando timidezza, facile emotività, inibizione.

RELAZIONI CON SÉ STESSI. Il ragazzo poco sa del mondo, meno ancora di sé. Reduce da assidui allenamenti atletici, facendo teatro si rende conto di non avere il controllo del corpo, nonostante i gol effettuati. Risulta goffo e insicuro. E, come gli altri, per quanto sia espansivo e addirittura petulante, fatica a esprimere con le parole emozioni e sentimenti. Scopre di sentirsi inerme di fronte a un pubblico. Si rende conto che non ha mai preso in considerazione l’occupazione sicura dello spazio. Si ritrova una voce piatta e monotona. Si vede impacciato e insicuro. Ma il teatro, dopo avere svelato i punti deboli, attiva immediatamente la terapia. Con emozione, frustrazione e timore di non essere all’altezza, dà una mano a rendere più salde e stabili le strutture dell’Io. L’allievo si confronta con gli altri, si confronta con il pubblico, ma soprattutto con sé stesso. Ci sono quelli ai quali non interessa il cambiamento e la crescita, ma la maggioranza trae sicuramente benefici dall’attività scenica.

RELAZIONI CON LA SCENA. La scena, per l’attore, è il mondo. Niente esiste al di là. Sulla scena nasce e muore la vicenda rappresentata, tutte le parole recitate sono lì. L’attore, per darle un significato, deve operare una sintesi fra presenza fisica e interpretazione. Egli è: sé stesso, la propria dissociazione (l’Io che usa il Sé), un altro da Sé stesso e cioè il personaggio, il ruolo. La complessità dell’arte attoriale obbliga a uscire da sé, per rientrarvi arricchiti da un’esperienza quasi extrasensoriale, dato che si svolge nel mondo dell’immaginazione. Non mi aspetto tanto dai miei allievi. Che cioè sappiano dare corpo all’immaginazione vivendo la scena come se fosse… e agendo come se essi fossero diventati… Ma la dinamica rimane potente e coinvolge il ragazzo in un gioco più alto di quello infantile del “facciamo finta che io sono…”, perché ora è consapevole e coinvolge la tecnica espressiva. La parte più difficile non è in un duello di lance o di spade, immaginando di essere eroi micenei. Ma quella di sentire in sé il dolore per la perdita di qualcuno o la disperazione della madre che vede uccidere il figlio. Tutto è finto, intorno all’attore, ma il teatro lo invita a rendere vere le emozioni. Come si fa a rendere il dolore? la disperazione? l’odio? l’amore?... Come si fa con la voce e con lo sguardo, con la mimica facciale e con il movimento del corpo? Nella vita quotidiana si ride molto, ma spesso le altre emozioni sono una maschera neutra. Il teatro invece le fa parlare.

RELAZIONI CON IL TESTO. Non ho voluto ridurre il testo delle tragedie a uso di ragazzi illetterati (ho visto pubblicazioni con riduzioni di Euripide in slang teen-comedy che ho giudicato oltraggiose, non solo per Euripide ma anche per i ragazzi). I ragazzi sono intelligenti e quello che non capiscono se lo fanno spiegare. Non voglio trattarli da bambini limitati. Il primo scoglio è quindi la comprensione, ma lo si supera in fretta: lessico, riferimenti storici e mitologici… Poi viene il rapporto denotazione-connotazione. Una frase sembra semplice, ma può nascondere significati più profondi da indagare. Quindi l’intenzionalità: quali sono i reali sentimenti del personaggio? E così via. Vengono poi le implicazioni ritmiche. Inserisco molte parti corali in metrica e rima o anche a verso libero. Parti traumatiche, quando propongo di cantarle. Finora sono pochissimi quelli che osano cantare senza musica e senza melodia, inventandosele. E la declamazione ritmica, scandita? Sono restii, non fa parte della loro cultura. In seguito, però, ci prendono gusto.

RELAZIONI CON IL CORPO. Ahi ahi. Come ho già detto, non basta una disciplina sportiva o un’esperienza nel campo della danza per fare l’attore. Una brava ballerina può incontrare difficoltà a muoversi con scioltezza sulla scena. E un calciatore è come un elefante in una scatola. Lavoro bene con i bambini, ma con l’adolescenza il corpo è un conflitto continuo. Il corpo libero sul palcoscenico è un corpo esibito in tutta la sua fragilità. Ne emergono i limiti funzionali ed estetici e l’adolescente è restio ad affrontare il pubblico. Stia tranquillo, il teatro gli insegna come fare. Il proprio corpo in vetrina deve non solo affrontare gli sguardi del pubblico, ma sostenere il rapporto con altri corpi. Quante volte mi sono sentito dire: io non lo guardo, io non lo tocco. Ora i miei allievi osano fissarsi negli occhi con l’intensità voluta, ma per molti di loro c’è voluto un percorso. Ora affrontano coreografie di corpi in movimento, ma hanno dovuto accettare la novità di un corpo scomposto e superare il timore di coinvolgimenti fraintesi. Il teatro spinge verso l’innocenza dei rapporti e quindi verso una comunicazione più libera e più facile.

RELAZIONI CON IL REGISTA. Lavorare con i ragazzi mi costringe a ricoprire più ruoli: drammaturgo, regista, scenografo, costumista… Chiamo magari un esperto. Quest’anno una coreografa, ma solo per tre interventi. I laboratori sono gratuiti, ai genitori chiedo una quota per le spese. A pochi interessa lavorare con i ragazzi, se non c’è scopo di lucro. Chi fa teatro amatoriale lo fa per esibirsi o per divertirsi con i coetanei. Quindi di solito mi ritrovo da solo. Ma che cosa rappresento io per gli allievi? Mi danno del tu, mi chiamano per nome, ma ogni tanto rispunta un prof. Il perché è presto detto. Sono loro amico, ma non nel senso di amicone. Il nostro rapporto, d’altronde, si limita all’incontro settimanale. Io sono anche l’autorità e questo deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che il teatro è impegno, serietà, responsabilità, puntualità, ordine, correttezza… Non è facile ottenere tutto questo da ragazzini che vogliono, anche, divertirsi. Non è facile preservare la loro spontaneità e richiedere al contempo disciplina assoluta. Non voglio un laboratorio con manichini ambiziosi che obbediscono a bacchetta pur di primeggiare. Il nostro è un laboratorio alla buona, in cui ci si riesce anche a divertire (in chiusura, giochi sempre a sfondo teatrale ed esibizioni). Si lavora sodo. I ragazzi imparano a collaborare e a impegnarsi non solo per sé ma anche per gli altri. Hanno imparato che il teatro non è fare gli stupidi su un palcoscenico, ma è una fatica dura che, per noi, ripaga solo per un’unica serata.

Ma non è tanto l’esito della rappresentazione (sempre di successo), quando l’itinerario attraverso la memorizzazione (da farsi in estate), il superamento degli ostacoli emotivi e dei limiti individuali, lo stabilirsi di relazioni nuove con gli altri e con l’ambiente, la scoperta delle proprie potenzialità, l’attivazione dell’immaginazione, il ricorso a nuove abilità fisiche e foniche, l’approfondimento di temi importanti e adulti, la misura di sé nella cooperazione, il miglioramento del carattere… E tutto questo e altro ancora è teatro.



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