domenica 17 gennaio 2010

DON GIOVANNI

C’è il teatro del “salotto buono”, allestito con poltrone in legno dorato dalle curvature barocche, sullo sfondo di tendaggi in damasco, con un tavolino intarsiato fitto di orpelli che gli intenditori chiamano “chicche” e a cui il regista si riferisce in termini criptici, come se ogni piccolo orrore esibito fosse un pilastro mitologico o la chiave per una simbologia di sabbia. I mobili del salotto buono sono ricoperti di cellofan, così non si rovinano e possono essere tramandati di generazione in generazione, un tormento storico che sfida i millenni. Chi osserva ne riceve un’impressione di fredda artificiosità, la stessa tanto lodata dai critici mercenari. Il tessuto sembra sintetico, il legno sembra plastica, i corpi sembrano manichini e poi si scopre che questa mancanza di calore non è un’apparenza, ma un valore. Tutto dev’essere finto affinché la comunicazione risulti accettabile per gli ospiti paganti. Essi osservano e vedono che tutto è buono, e si chiedono quanto è costato.

Nel salotto buono gli ospiti sono sempre tanti. Vestono con decoro, dicono cose identiche, evitano con ossessione il silenzio, non guardano nessuno negli occhi, amano applaudire tutto ciò che si dice e si fa, dato che il salotto buono è una garanzia di ripetizione maniacale: a loro non piacciono le novità vere, amano le novità vecchie di secoli.

Questo è il teatro dei geni. Siano essi attori o registi, la loro vita è epocale, il loro tocco divino, il loro io monumentale. Come il loro salotto. Vi rappresentano opere con masse in movimento, scenografie imperiali nello stile di Padre Pio o dei templi o degli stadi calcistici o delle residenze dei tiranni. Gli ospiti del salotto buono amano i santi, i tiranni, i megalomani e i geni, e quindi decretano il successo di rappresentazioni/confezioni di lusso.

C’è, per fortuna, un altro teatro. Non ha un nome, basta chiamarlo “teatro”. Non si svolge in nessun tipo di salotto, ma in un luogo appartato, che non tutti riescono a trovare, intrappolati come sono nel traffico del “salotto buono”. Ci si arriva per viuzze solitarie e la gente, si sa, preferisce le superstrade. Si tratta di un luogo senza confini, dove tutto può succedere. Vi si incontrano persone libere.

“Don Giovanni” di Mozart messo in scena da Stefano De Luca.

Un incontro felice, si usa dire. Di più. Una sintonia di persone a cavallo dei secoli. Non appena si apre il sipario, s’intuisce già che la musica non sarà solo ascoltata, ma anche vista. La scenografia di Leila Fteita è costituita da tre sipari, tre tende di tessuto leggero e trasparente, che scandiscono in profondità lo spazio, consentendo agli interpreti di plasmare i diversi ambienti con tocchi lievi e rapidi. Sono velature della realtà, sono i suoi mascheramenti, sono suggestioni luminose che disegnano in controluce personaggi su diversi piani temporali o spaziali, rendendo vivaci eppure mai confuse le scene d’insieme.

Le tale si gonfiano, ondeggiano, scorrono ora a destra ora a sinistra, vengono strette da lacci, salgono e scendono, si aprono per rivelare e si chiudono in un abbraccio onirico su Leporello, amaro comico della Commedia dell’Arte; anzi, della commedia; di quella commedia che ha inizio all’interno delle tribù e arriva a noi passando per la Grecia, Roma, il Medioevo, il Rinascimento…

Le geometrie musicali incontrano queste forme morbide e mutevoli e, grazie anche all’uso sensibile ed efficace delle luci curate da Claudio De Pace, si vedono musica e canto muoversi all’unisono con gli elementi della scenografia (teli, un tavolo, candelabri, lumini) tra gli interventi discreti dei servi e delle contadine. I cantanti vivono le proprie vicende non in un palazzo di fondali dipinti, ma nello spazio magico che ritroviamo anche nei nostri sogni.

È tutto così nitido, così coerente, così puro che non si assiste a mente fredda con l’atteggiamento del critico, ma si partecipa con l’appassionata concentrazione del bambino che ascolta una storia di prodigi. Non ci sono gli effettacci del “salotto buono”, ma un utilizzo sapiente e misurato della tecnologia. Quando si va alla ricerca dell’opera d’arte, il primo gradino è l’essenzialità. Si sale sul piano dello svestimento, e ci si butta alle spalle tutto ciò che è superfluo. Ci si libera dei preconcetti, delle idee (troppo) condivise, dell’ipocrisia, delle mezze misure, dell’asservimento agli assolutismi religiosi e politici. Così, vergini di cuore, ci si inoltra nel territorio dove si nasconde la bellezza. Si va alla sua ricerca, ma con umiltà.

Il più piccolo dei fiori cela un’armonia che toglie il fiato. Noi cerchiamo di rinnovarla con le parole, le note, i colori… ma per avvicinarci al respiro ineffabile dell’universo vivente non dobbiamo farci grandi interpreti, ma timidi cultori di incantesimi.

Grazie, Stefano.

Nessun commento: