martedì 30 aprile 2013
venerdì 26 aprile 2013
POESIA TRENTANOVE
Passeggiata di
pioggia tediosa ondivaga
intermittente sensazione di freddo,
ma lo sguardo accarezza l’incavo delle foglie
con gocce di diamanti -
i fiori lustrati
è stata la brezza a stendere l’acqua
in un velo che è lente d’ingrandimento? oh
albero gigante lucente
che gocci note musicali din diridin
e laggiù
tra le radici posso rannicchiarmi
guidare al letargo i pensieri
lungo un sentiero
di terra bagnata, che odora?
mercoledì 24 aprile 2013
domenica 21 aprile 2013
MIMO MAX
Massimo Beretta, con l'amico e collaboratore Celso Cabiati, trentacinque anni di clownerie e teatro di figura, allievi di Bustric (http://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Bustric), sono venuti per una lezione di mimo. Punto fisso, bouncing, baricentro, espressività... Due ore intense che hanno entusiasmato i ragazzi di Tecneke. "Death watch" si arricchisce sempre più. Siamo pronti per l'anteprima, siamo quasi pronti per il debutto. Dove? Ci stiamo organizzando. Un progetto ambizioso per l'anno prossimo, "Scene da Caligola di Camus". Sto riducendo il testo per inviare la proposta all'agenzia romana che la sottoporrà ai detentori francesi dei diritti morali. Ci daranno l'autorizzazione? Tra un mese lo sapremo. Un Caligola che rispecchia il proprio nichilismo non nella recitazione lenta e compassata della tragedia, ma nel volto triste di un clown, nella scena spoglia, nel ritmo, nel movimento, nel canto jazzistico, nei costumi da senzatetto...
Se tutto va bene, a ottobre si comincia.sabato 20 aprile 2013
PASSEROTTI 12: IL GIOCO DEL TEATRO
Quando, a
ottobre, abbiamo svolto i primi giochi-esercizi per familiarizzare con il
teatro, oltre all’imbarazzo si manifestava la mancanza di competenze per
quanto riguardava spazio, voce, gestica, immedesimazione, relazione con il
pubblico e improvvisazione. Giovedì, terminata la prova, propongo un gioco
semplice: pescate dagli scatoloni qualche telo, travestitevi e intratteneteci.
Il gruppo esce per fare modo all’interprete di prepararsi in tre minuti.
Rientriamo, ci accomodiamo e l’attore di turno sbuca dal paravento. La prima
tematica è relativa alla cacca. Inevitabile, dopo che l’alunno è stato sorpreso
dalla maestra mentre redigeva un “Libro sulla cacca” (più che altro inerente
alla tecnica) che è stato letto alla classe con grande divertimento. Poi si
passa alla follia: un’alluvione di parole quasi in libertà, nel cui flusso si
perde la logica, all’inseguimento di suggestioni fiabesche e televisive. La
recitazione è sicura, divertita e divertente; l’improvvisazione è fluida e continua.
È teatro che si fa gioco, e gioco che diventa teatro. Come in tutti i giochi,
ci sono regole da rispettare e abilità da acquisire; bisogna esercitare il
controllo delle proprie azioni, conquistare l’”adgredi” (“L’etimologia
della parola stessa ad gredi, significa andare verso... verso gli altri,
verso la vita, verso la realizzazione di sé. È forza vitale e positiva,
promuove il movimento del bambino verso l’autonomia, l’esplorazione”, da pediatiapratica.it).
Solo così il gioco si fa appassionante. E non si vorrebbe smettere mai.
martedì 16 aprile 2013
CORSO DI TEATRO: ARRIVEDERCI
E siamo giunti alla fine. Cinque incontri di teatro nella scuola che ci hanno lasciato il desiderio di continuare l'anno prossimo. Abbiamo visionato video di "Dietro la porta" e "La città dei bambini pirati" per fare osservazioni sul comportamento dei bambini. Osservazioni che dall'ambito teatrale passano a quello psicologico e viceversa. Quindi abbiamo messo in scena, in forma di lettura animata, "Un Natale bestiale". Ho invitato Massimo Beretta, corsista speciale, con una ricca esperienza di mimo, teatro di figura e clownerie, a trasformarsi da allievo in docente. Ha subito portato brio nel gruppo guidando le colleghe in un ingresso divertente e coinvolgente. Spero di vederlo presto come collaboratore di "Tecneke", soprattutto nel progetto dell'anno prossimo, l'allestimento di "Caligola" di Camus. Le due ore sono volate in un soffio e quindi... alla prossima!
domenica 14 aprile 2013
"DEATH WATCH" ALL'IMPROVVISO
L’improvvisazione di
cui faceva uso la Commedia dell’Arte non era certo invenzione di intreccio e
allestimento estemporaneo di un’opera teatrale. Essa era prerogativa del teatro
di ruolo, lo stesso ripudiato da Goldoni in cerca di una naturalezza realistica
che non risultasse manierata. L’attor giovane, per esempio, che sosteneva la
parte dell’innamorato, si costruiva un bagaglio tecnico e letterario di
atteggiamenti, pose, gesti, modi di dire, vocalità caratteristica e modi di
pensare dal quale attingeva durante le situazioni previste dal canovaccio.
Il recitar all’improvviso
non era realizzato quindi sul vuoto, ma su una cultura di storie e personaggi
tanto più ricca quanto più l’attore era bravo. L’improvvisazione è poi entrata
a far parte delle “materie” di studio di tante scuole di teatro, ha avuto
periodi di moda, è praticata da teatranti che operano in stile “corporeo o
circense o d’avanspettacolo o di varietà eccetera” (a volte non si capisce quale
sia la contaminazione e molte filodrammatiche mescolano reminiscenze oratoriane
con il cabaret). “Ma tu” mi chiedono, “non lavori con l’improvvisazione?” E
sono pronti a scandalizzarsi se il mio teatro è dogmatico, preciso nella
tecnica, registico, una partitura.
A volte quella che
viene definita “improvvisazione” si rivela un intruglio caotico, dovuto alla
carenza di preparazione e di idee. Con questo, non si nega la validità di una
tecnica che può arricchire in modo unico uno spettacolo. “Death watch” è
pronto, manca solo qualche rifinitura. Ben poco è nato dall’improvvisazione. Un’improvvisazione
stabilita dal regista per brevi quadri, quando dubbi o vuoti creativi spingevano
ad attivare l’intraprendenza degli interpreti (li chiamo “agonisti”) intorno a
idee vaghe.
Alla prima prova
generale, mi sono reso conto di alcuni interventi spontanei causati anche dalla
fatica di una concentrazione forte (ritmo sostenuto, interazioni continue, parola
agita e non solo recitata). Si trattava solo di esclamazioni o di gesti e movimenti
sfuggiti al controllo. Ma avevano un’importanza enorme. Segnalavano il momento
opportuno per avviare un percorso di improvvisazione. Eccola qua, l’improvvisazione.
Non a monte, ma a valle. Non per inventarsi uno spettacolo, ma per dagli la
profondità individualizzata. Per dare una spinta all’attore-interprete verso la
dimensione di attore-performante o attore-sacro o attore-officiante delle
avanguardie di inizio secolo XX; per consentire all’agonista di fare propri il
testo estraneo e anche la regia estranea, pitturando con la propria individualità
e personalità una messa in scena finora imposta.
Con la prossima prova,
quindi, concedo maggiore libertà all’agonista, con le seguenti raccomandazioni:
fa’ ciò che ti mette a tuo agio, esprimi con parole e gesti ciò che il testo ha
mosso dentro di te, opera variazioni sulla messa in scena acquisita senza però stravolgerla,
proponi ritmi, azioni-reazioni, tutto quello che ti viene in mente durante la
recitazione; ma senza fermare la rappresentazione; agisci nel suo flusso, all’istante.
All’improvviso. Sfruttando il bagaglio di conoscenze che il lavoro di
allestimento (di memorizzazione, vocalità, movimento e gestica) ti ha fatto
acquisire. Sfruttalo per “improvvisare” le tue reazioni personali e spontanee.
La settimana prossima vi
sveliamo che cosa abbiamo tratto da questa improvvisazione post-opera.
venerdì 12 aprile 2013
I PASSEROTTI AL FRANCO AGOSTINO TEATRO FESTIVAL
La prima esperienza con il pubblico dei Passerotti. La parte iniziale e quella finale dello spettacolo (che dura quasi un'ora). Con Andrea Boraso, Giovanni Canone, Amanda Picone, Giada Campesan, Giada Magnaghi, Lorenzo Bedale, Luca Caramori, Miche Aldera.
PASSEROTTI 11
Uno dei principali dibattiti, e forse il
più stimolante, alla sorgente del teatro di tutti i tempi, riguarda l’attore. Su
che cosa deve basarsi il suo mestiere? Su doti come naturalezza, spontaneità,
realismo, immedesimazione? Oppure su tecnica, finzione, simbolismo? La
questione è stata ripresa nel Settecento da Denis Diderot nel suo famoso “Paradosso
sull’attore”, con il quale smaschera gli attori che a ogni replica “scompaiono”
nel personaggio e suggerisce una interpretazione mentale preparatoria della
performance. Un dato è certo: il pubblico preferisce il teatro realistico, nel
quale gli attori sono i personaggi. Oggi,
viviamo ancora dell’eredità del teatro borghese ottocentesco, tutto fondato sul
Grande Attore, nonostante gli assalti portati da: Dada, Futurismo, Simbolismo, Teatro
Epico, Biomeccanica, Supermarionetta eccetera. Il loro apporto, tuttavia, non è
stato certo inutile e continua a fornire idee e a stimolare la ricerca.
Questo dibattito vede contrapposti due
grandi teorici russi, Stanislavskij e Mejerchol’d. Il primo enfatizza il
realismo con un sistema fondato su Reviviscenza e Personificazione che negli
Stati Uniti si trasforma nel Metodo di Strasberg. Nel suo Actor’s Studio passano
Paul Newman, Marlon Brando, James Dean, Jane Fonda, Dustin Hoffman, Al Pacino,
Jack Nicholson, Robert De Niro… mostrando quanto il sistema sia più adatto al
cinema che al teatro (quale attore può reggere la tecnica della
personificazione per una o due ore? Il cinema è invece parcellizzato in scene e
l’attore, tra un ciak e l’altro, ha modo di concentrarsi sul ruolo).
Mejerchol’d (allievo di Stanislavskij) contro
il naturalismo intende riportare sulla scena la sorpresa e l’artificio, il
gioco e il colore, la dimensione del circo e della Commedia dell’Arte, insomma
l’immaginazione con i suoi simboli e la sua libertà espressiva, sottolineando
la teatralità e rifiutando la copia realistica della vita quotidiana.
Negli ultimi anni, però, Stanislavskij rivede
le proprie convinzioni e in parte sconfessa il sistema. Ora vede la recitazione
non più come movimento dall’interno (la ricerca di un binario parallelo, di
memoria emotiva, a quello del personaggio) verso l’esterno, e cioè verso l’adeguamento
del corpo alla ricostruzione interiore. Ma come un movimento dall’esterno all’interno.
Privilegia, quindi, il corpo come gestica, movimento e voce. Se l’attore
comincia a muoversi, a gesticolare, a parlare come suppone che possa fare il
personaggio, l’anima del personaggio gli si offre nella sua verità.
Questo è il metodo di lavoro che ho
seguito con i bambini di “Dietro la porta”.
Come si fa a parlare a un bambino di
ruolo, personaggio, identificazione? Se pensiamo al gioco “facciamo finta che
io sono…”, ci rendiamo conto che il bambino più che essere agisce. Egli è ciò
che fa il personaggio, non ciò che è.
Se quindi un bambino deve esprimere un
carattere e assumere un’identità diversa dalla propria, la strada per l’interpretazione
parte dal corpo. La propedeutica è il movimento nello spazio, la relazione con
lo spazio e con i partner, addirittura la relazione con sé stesso, dato che il
bambino ci si presenta spesso frazionato (ma questo vale anche per l’adulto). Mente
e corpo separati, abilità settoriali, scarsa coscienza di sé nell’unità,
difficoltà motoria…
La musica è essenziale per avviare un
percorso di presa di contatto e di padronanza di sé come corpo e voce. Aiutano
anche le filastrocche, dato che introducono alla scansione e aiutano, nella
coralità, a sentirsi più sicuri nei primi approcci con un uso della voce
inconsueto e controllato.
Altri stimoli, visivi o sonori, possono
facilitare prestazioni corporee che all’inizio risultano ostiche, manifestandosi
come disarmonia, scarso senso di orientamento, insicurezza, scarsa fiducia
nelle potenzialità fisiche.
È un percorso che conduce dapprima a familiarizzare
con spazio, oggetti e persone; poi ad affrontare sé stessi per vincere le
resistenze emotive; infine a delineare i primi elementi identificanti (a
livello di bambini di nove anni) di un “personaggio”.
Dall’esterno, quindi, e cioè dal
movimento, dalla gestica e dall’espressività vocale all’interno, e cioè nel
mondo delle emozioni, dei sentimenti, della memoria e della visione del mondo.
Tra il corpo e l’interiorità si
stabilisce un fluire energetico circolare, per cui l’arricchimento è reciproco.
Un teatro, infine, che non si ferma alla
sfera del divertimento. Non propone un consumo (come avviene con certa
televisione e certo cinema e anche certa letteratura) improduttivo, ma una
partecipazione coinvolgente che attiva e riattiva, e (ri)costruisce non solo un
personaggio, ma lo stesso attore che lo interpreta.
UN TEATRO SENZA PUBBLICO
Esplicita di una precisa mentalità è
l’indagine commissionata dal Ministero per i beni e le attività Culturali, Ufficio
Studi e Osservatorio dello Spettacolo, alla Fondazione Rosselli nel 2004,
pubblicata da Electa Mondadori, intitolata “Il pubblico del teatro in Italia. Il
quadro attuale e gli scenari futuri”, a cura di Fabiana Sciarelli e Walter
Tortorella.
Scrive Michele Trimarchi in “Dalla
maschera al byte: c’è futuro per il teatro?”:
“Le
modalità di realizzazione dello spettacolo dal vivo sono state spesso, e
deliberatamente, modificate in virtù dell’esigenza di far incontrare il
prodotto teatrale e le aspettative percettive degli spettatori. (…) Il prodotto
teatrale ha bisogno di ulteriori adeguamenti? La tecnologia, le percezioni, i
processi cognitivi e gli stili di vita richiedono che il prodotto teatrale
cambi veste per mantenere fertile e ricca la propria sostanza estetica e
culturale?” Le risposte saranno: sì e sì. Il perché
è presto detto: “Non è il teatro a essere
incompreso; esso è spesso arroccato su una tradizione asserita ma posticcia, e
rifiuta di considerare – al contrario di quanto ha fatto più volte in passato –
i mutamenti della temperie sociale e culturale. (…) La rabbia del teatro è semplicemente
derivante dai numeri: la televisione fronteggia grandi masse di spettatori, il
teatro fa enormi sforzi per riempire le sale, milioni contro migliaia di
individui. Da qui l’arroccamento e la consolazione: il teatro è colto, dunque
per pochi; la televisione è volgare e attira gli ignoranti. La realtà
suggerisce una semplice osservazione. Gli spettatori teatrali sono al tempo
stesso spettatori televisivi. (…) La televisione è diventata, per una scelta
comoda e di retroguardia, l’incubo del teatro, il quale le invidia l’audience,
i mezzi finanziarî, i compensi professionali, l’attenzione della stampa.”
Un teatro, quindi, arrabbiato e
invidioso, frustrato e incapace di cambiare le sorti del proprio fallimento.
“In
questo senso, il teatro dovrebbe utilmente considerare sé stesso come un
comparto produttivo industriale piuttosto che come un settore rientrante nel
campo culturale.”
Un teatro che sforna prodotti in base a
ricerche di mercato sui desideri della popolazione che comunque potrebbe
rispondere ancora: no, grazie, abbiamo già la televisione, il cinema, il calcio
e facebook.
Luisa Romano e Walter Tortorella in “Il
teatro: un attore e uno spettatore”.
“Lo
spettatore non è solo l’elemento fondamentale della rappresentazione teatrale,
ma è legato in maniera indissolubile alla nascita stessa del teatro: “questo
tipo di arte esiste dal momento in cui lo spettatore si separa dall’attore”
(Schechner).”
C’è, quindi, una fase antecedente, in
cui ci sono solo “attori”, uomini-personaggio in azione, che assorbono nel
gruppo eventuali spettatori.
“La
ritrosia, da parte dei produttori di teatro, a prestare attenzione ai gusti del
pubblico, in particolare, ovviamente, di quella fetta della popolazione che
potremmo definire di pubblico potenziale, è stata spesso giustificata dal
rifiuto di voler seguire le direzioni imposte dal mercato e amplificate dai
media, tendenti ad appiattire e omologare gusti, senso critico e capacità di
giudizio.
La
questione, a ben guardare, invece, appare molto meno manichea di come viene
prospettata da tali prese di posizione non esenti da un certo snobismo; se è
vero, infatti, che obbedire ciecamente alle leggi del mercato può portare ad un
abbassamento della qualità dell’offerta, è anche vero che una delle
caratteristiche che definiscono tale qualità è proprio la capacità
comunicativa, la capacità di catturare le emozioni non solo di coloro che sono
avvezzi al linguaggio teatrale e artistico in genere, attraverso una profondità
artistica che si traduce in semplicità espressiva. In questo senso il pubblico
può addirittura considerarsi come parametro per valutare la qualità di
un’opera.”
Un teatro ottuso e snob, che dovrebbe
invece aprirsi con “semplicità espressiva” ai gusti dei potenziali spettatori,
gli unici che possono esprimere giudizi sulla qualità dell’opera. In pratica,
un teatro che si prostituisce per avere il plauso della massa.
“È
sbagliato pensare il lavoro dell’artista come qualcosa che termina sul
palcoscenico a prescindere da come si venderanno i biglietti, se si considera
che il teatro è essenzialmente dialogo, spazio di comunicazione, un’arte,
insomma, squisitamente sociale. L’essenza del teatro sta proprio nel fenomeno
del contagio, della suggestione, del “giudizio condiviso”, che non può
verificarsi in individui isolati, ma nell’ “essere” pubblico.
L’allontanamento
del pubblico dal teatro è lampante se confrontato con il consumo di altre forme
di intrattenimento, come il cinema e la televisione.”
Un teatro la cui anima non è l’artista,
ma il botteghino. Un teatro che deve prosternarsi di fronte a televisione e
cinema (non d’autore).
“Si
è sempre affermato con insistenza che il cinema prima, e la televisione poi,
hanno sottratto pubblico al teatro; se questo è in parte vero, bisogna però
precisare che, ancor più che sottrarre pubblico, televisione e cinema hanno
“trasformato” tale pubblico, hanno creato una nuova estetica mediatica di massa
in contrapposizione con l’estetica teatrale.”
Il teatro deve quindi adeguarsi ai
desideri più superficiali del pubblico, alle necessità dell’industria dello
spettacolo, alle richieste censorie dei politici, alle basse aspettative di
cultura delle masse, alle mode, al consumo più volgare e ignorante.
Il teatro deve formare la massa degli
spettatori dalla quale è condizionato, in un circolo vizioso che ha già dato i
suoi frutti nella televisione, nel cinema e nella letteratura. La produzione
legata alle ricerche di mercato (volte a identificare il target numericamente più
pingue a prescindere dalla qualità dei desideri e quindi dalla qualità del
prodotto ipotizzabile) ci ha servito su vassoi d’oro la volgarità dei reality,
la violenza dei dibattiti, lo splatter del cinema, i cinepanettoni, i libri
analfabeti, la letteratura illetterata… e vorrebbe che nelle sale teatrali
imperversassero drammi salottieri, musical e varietà di cattivo gusto.
Un dato: il 30% è andato a teatro almeno
una volta, il 30% non è mai andato a teatro nella propria vita.
Se questo è il prezzo per riempire le
sale, meglio tenersi stretto il 30% e mantenere un’identità dignitosa e
artistica, ignorando i successi televisivi e cinematografici, ignorando
soprattutto il successo, che è diventato una macchina schiacciasassi che livella
ogni tentativo di emergere dalla letamaia di soldi e potere.
Ma davvero il teatro ha bisogno del
pubblico per esistere? Sì e no. C’è una forma di teatro partecipativa nella
quale chi si riunisce non lo fa per dividersi tra attori e spettatori, ma per
prendere parte a un “agone” parlato-recitato e gestualizzato-agito durante il
quale gli attori-agonisti raccontano una storia che viene rivissuta a livello
espositivo e ritmico insieme, narrativo e suggestivo.
Ma questo teatro che recupera una purezza
mitica del raccontare ed essere raccontato, dell’esporre ed essere esposto, del
trasdurre l’energia muscolare in energia verbale e viceversa, e perciò di fare
circolare la storia come visione dinamica… non è argomento di questa pagina sul
pubblico. Lo si troverà più avanti e forse avrà il nome di Teatro Tutto.
Non faccio a meno del pubblico, l’esibizione
(l’agone), è comunque una forma di spettacolo-gara che richiede dei testimoni.
Posso però fare a meno della relazione attore-pubblico. Non in senso
naturalista, per cui la quarta parete mi assicura uno spaccato sulla realtà,
quasi una fotocopia della vita di tutti i giorni, che il pubblico contempla con
vivo piacere, come se fosse davanti a uno specchio nel quale si riflettono la
sua stessa vita e quelle degli altri. Anche perché la quarta parete non elimina
le convenzioni teatrali di finzione, dato che la gestualità e i movimenti degli
attori sono comunque strutturati in funzione della presenza del pubblico oltre
la linea di ribalta.
Chi ha infranto la quarta parete ha
fatto di tutto per stabilire con il pubblico una relazione diretta. Ha cercato
il coinvolgimento critico (Brecht), il coinvolgimento emotivo o spirituale (Living,
Fabbri), quello ludico (mimi, commedie, cabaret), o polemico (Dada, Futurismo).
Il pubblico ha sempre condizionato in
modo importante la drammaturgia.
Ma vale la pena di subordinare l’arte a una
platea che spesso: non vuole essere coinvolta se non a livello epidermico (teatro
da crociera), non vuole essere turbata, attende disperatamente la battuta che
faccia ridere, non vuole pensare, non vuole cambiare, non vuole novità, non
vuole stranezze.
La presenza di un pubblico “medio”
costituisce un grosso problema per l’attore: l’ansia della sua entità numerica
(fare “merda” per ingraziarsi il pubblico), l’ansia per la riuscita dello spettacolo
(quasi un’umiliazione auspicare che il pubblico capisca e gradisca), l’ansia
per i rumori di sala (troppo silenzio, troppo brusio), l’ansia per l’applauso
fuori posto o per l’applauso mancante, l’ansia per chi si alza e se ne va, l’ansia
per le recensioni del giorno dopo…
Il pubblico è un bestione che riempie la
sala con un corpaccione invadente e sornione, di intelligenza spesso bassa, di
ferocità invece alta, di umore variabile, di carattere spinoso, dai gusti
prostituibili, dai giudizi insensati, dalla cultura carente, dalla sensibilità
psicotica, dalla personalità labile.
Via, via il pubblico dalla testa. Via il
pubblico dagli occhi. Via il pubblico dal cuore degli attori. Liberiamo gli
attori dalla sua presenza condizionante. Gli attori non si rivolgano più a un
pubblico ridotto e trascurabile, ma a un pubblico incommensurabile, quale è
quello potenziale, quello virtuale, quello universale. Si rivolgano a un
pubblico costituito da spettatori di tutte le epoche, scaturiti dal passato e
dal futuro, provenienti da tutto il pianeta, e anche da altri pianeti. Recitino
per chi non è presente, per chi potrebbe condividere e apprezzare ed è
impossibilito a partecipare alla serata. Evochino fantasmi al posto dei corpi
seduti in poltrona e facciano accomodare i fantasmi tutto intorno, in un
abbraccio di attenzione comprensiva.
Di un pubblico che non applaude si
riempiano le sale, invisibile e discreto, acuto e profondo, che dia forza e
amore all’attore.
Quando impartisco le prime istruzioni ai
ragazzi di Tecneke per ignorare il pubblico, e anzi toglierselo proprio dalla
mente, cancellarlo dalla platea… percepisco la loro perplessità. Hanno battute
con le quali si rivolgono direttamente al pubblico, in apparenza. Come fare?
Dove dirigere lo sguardo? Li invito a considerare un pubblico circolare; non ha
importanza che, al termine di una coreografia si trovino con le spalle alla “platea”:
devono rivolgersi a un’altra ipotetica platea sul lato opposto. Proviamo. L’effetto,
per chi guarda, è buono. Gli osservatori concordano che è molto suggestivo
vedere gli attori disposti non più in riga sul proscenio, ma sparsi in
posizioni che rompono lo schema di relazione attore-spettatore, il volto
rivolto in qualsiasi direzione, gli occhi liberi di non cercare quel punto “sopra
le teste” per dare l’impressione a tutti gli spettatori di una comunicazione
diretta.
Noto anche un certo sollievo, dopo la
perplessità. Il problema del pubblico, ripete, condiziona sia il professionista
sia il dilettante. Per quanto, è pur sempre una relazione emotiva e
intellettuale con sconosciuti, non tutti gradevoli, dai quali a volte non si ha
un ritorno gentile e rispettoso perlomeno del lavoro svolto. Sconosciuti che
giudicano, e che facilmente nascondono il giudizio negativo sotto formule di
cortesia ipocrite, rispettose dei più consolidati codici sociali.
Via il pubblico, via.
La scena di Tecneke non ha solo quattro
pareti, ha anche un pavimento e un soffitto. È una scatola chiusa, nella quale
il pubblico non può entrare. L’unico ruolo che gli è lasciato è quello di spia.
Può applaudire o fischiare, gli attori non sentono nulla. Gli attori recitano
per un pubblico più vasto. Se lo creano nella mente. In conclusione, recitano
per sé stessi. Sono attori e pubblico condensati in un gesto autoespressivo che
celebra la forma più alta di comunicazione, quella con il mondo.
sabato 6 aprile 2013
POESIA TRENTOTTO
(Ciliegio di Nanchino)
Allora esco in giardino, guardo le piante
quella da lontano e l’altra da vicino
fino a sfiorarla, l’ape nel polline
non parlo con loro, controllo
i danni del gelo, i germogli; né loro
parlano con me. Così vorrei
le persone, un silenzio
lungo quanto la vita, assorte
in una crescita lenta che sopporta
i mali dell’inverno, l’offesa del vento e della
grandine, la siccità e il marciume: che fossero
belle come i fiori vorrei,
non ciarliere; ci pensano gli uccelli
a spargere parole misteriose, le più significanti.
venerdì 5 aprile 2013
LA CITTÀ DEI BAMBINI PIRATI
“La città dei bambini
pirati” si avvia verso il debutto mercoledì 15 maggio al Teatro Comunale di
Oleggio. Anche il titanico sforzo di Gianna Cannaos, insegnante della Primaria dell' I.C. Verjus di Oleggio, per realizzare le
scenografie con tecniche non pittoriche (incollaggio di carta) si avvia a conclusione. A darle una mano nella riproduzione della piazza di De Chirico
sono intervenuti lo scenografo Antonio Di Bari (del quale ricordiamo il laboratorio
di ceramica a Ghemme (http://taaf.altervista.org/)
e
Marina Betti. Alla realizzazione dei pannelli a colori vivaci della città vista dai bambini hanno contribuito anche gli alunni di più classi con bozzetti e partecipazione attiva nel laboratorio d'arte.
La “recita” è di tipo
mimetico-rappresentativo, ma non solo. Agli alunni-attori sono state richieste doti
di interpretazione sia come immedesimazione per esprimere sentimenti ed emozioni; sia come coordinazione motoria e sintonia di gruppo. Lo spettacolo non si basa
quindi solo sul “parlato”, ma anche su schemi di movimento e su espressività mimica.
Il tutto, naturalmente,
dosato e finalizzato alla riuscita nel suo insieme. Con un totale di poco più
di quaranta ore di prove, non si riesce
a dare una formazione completa a ognuno (in questo caso un gruppo di sedici);
ma è possibile fornire gli strumenti per sostenere il palcoscenico e il
rapporto con il pubblico. Più che svolgere esercizi preparatori, per i quali
non c’è tempo, si lavora in itinere, fondendo le prove con le scoperte dello
spazio, del corpo nello spazio, del corpo in relazione con altri corpi, della
voce, del rispetto dei tempi, dell’efficacia di una sintesi personale di
movimento-voce-gestualità.
Interpretazione di un
personaggio, quindi, insieme a partecipazione corale e coreografica, sullo
spunto di filastrocche e canzoni. Sul palcoscenico non c’è mai un bambino
impettito che snocciola a memoria parole che forse non ha nemmeno capito, ma un
bambino in azione, che gioca e si diverte, credendo in quello che fa, memore di…
facciamo che io sono e tu sei. Un
bambino che nel movimento e nella gestualità ritrova i giochi di strada (ma
sopravvivono ancora?), basati su formule e rituali. E anche un bambino che fa
tesoro della propria cultura, compresa quella televisiva, musicale e
cinematografica, diventando coprotagonista di una regia ludica.
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