L’improvvisazione di
cui faceva uso la Commedia dell’Arte non era certo invenzione di intreccio e
allestimento estemporaneo di un’opera teatrale. Essa era prerogativa del teatro
di ruolo, lo stesso ripudiato da Goldoni in cerca di una naturalezza realistica
che non risultasse manierata. L’attor giovane, per esempio, che sosteneva la
parte dell’innamorato, si costruiva un bagaglio tecnico e letterario di
atteggiamenti, pose, gesti, modi di dire, vocalità caratteristica e modi di
pensare dal quale attingeva durante le situazioni previste dal canovaccio.
Il recitar all’improvviso
non era realizzato quindi sul vuoto, ma su una cultura di storie e personaggi
tanto più ricca quanto più l’attore era bravo. L’improvvisazione è poi entrata
a far parte delle “materie” di studio di tante scuole di teatro, ha avuto
periodi di moda, è praticata da teatranti che operano in stile “corporeo o
circense o d’avanspettacolo o di varietà eccetera” (a volte non si capisce quale
sia la contaminazione e molte filodrammatiche mescolano reminiscenze oratoriane
con il cabaret). “Ma tu” mi chiedono, “non lavori con l’improvvisazione?” E
sono pronti a scandalizzarsi se il mio teatro è dogmatico, preciso nella
tecnica, registico, una partitura.
A volte quella che
viene definita “improvvisazione” si rivela un intruglio caotico, dovuto alla
carenza di preparazione e di idee. Con questo, non si nega la validità di una
tecnica che può arricchire in modo unico uno spettacolo. “Death watch” è
pronto, manca solo qualche rifinitura. Ben poco è nato dall’improvvisazione. Un’improvvisazione
stabilita dal regista per brevi quadri, quando dubbi o vuoti creativi spingevano
ad attivare l’intraprendenza degli interpreti (li chiamo “agonisti”) intorno a
idee vaghe.
Alla prima prova
generale, mi sono reso conto di alcuni interventi spontanei causati anche dalla
fatica di una concentrazione forte (ritmo sostenuto, interazioni continue, parola
agita e non solo recitata). Si trattava solo di esclamazioni o di gesti e movimenti
sfuggiti al controllo. Ma avevano un’importanza enorme. Segnalavano il momento
opportuno per avviare un percorso di improvvisazione. Eccola qua, l’improvvisazione.
Non a monte, ma a valle. Non per inventarsi uno spettacolo, ma per dagli la
profondità individualizzata. Per dare una spinta all’attore-interprete verso la
dimensione di attore-performante o attore-sacro o attore-officiante delle
avanguardie di inizio secolo XX; per consentire all’agonista di fare propri il
testo estraneo e anche la regia estranea, pitturando con la propria individualità
e personalità una messa in scena finora imposta.
Con la prossima prova,
quindi, concedo maggiore libertà all’agonista, con le seguenti raccomandazioni:
fa’ ciò che ti mette a tuo agio, esprimi con parole e gesti ciò che il testo ha
mosso dentro di te, opera variazioni sulla messa in scena acquisita senza però stravolgerla,
proponi ritmi, azioni-reazioni, tutto quello che ti viene in mente durante la
recitazione; ma senza fermare la rappresentazione; agisci nel suo flusso, all’istante.
All’improvviso. Sfruttando il bagaglio di conoscenze che il lavoro di
allestimento (di memorizzazione, vocalità, movimento e gestica) ti ha fatto
acquisire. Sfruttalo per “improvvisare” le tue reazioni personali e spontanee.
La settimana prossima vi
sveliamo che cosa abbiamo tratto da questa improvvisazione post-opera.
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