Uno dei principali dibattiti, e forse il
più stimolante, alla sorgente del teatro di tutti i tempi, riguarda l’attore. Su
che cosa deve basarsi il suo mestiere? Su doti come naturalezza, spontaneità,
realismo, immedesimazione? Oppure su tecnica, finzione, simbolismo? La
questione è stata ripresa nel Settecento da Denis Diderot nel suo famoso “Paradosso
sull’attore”, con il quale smaschera gli attori che a ogni replica “scompaiono”
nel personaggio e suggerisce una interpretazione mentale preparatoria della
performance. Un dato è certo: il pubblico preferisce il teatro realistico, nel
quale gli attori sono i personaggi. Oggi,
viviamo ancora dell’eredità del teatro borghese ottocentesco, tutto fondato sul
Grande Attore, nonostante gli assalti portati da: Dada, Futurismo, Simbolismo, Teatro
Epico, Biomeccanica, Supermarionetta eccetera. Il loro apporto, tuttavia, non è
stato certo inutile e continua a fornire idee e a stimolare la ricerca.
Questo dibattito vede contrapposti due
grandi teorici russi, Stanislavskij e Mejerchol’d. Il primo enfatizza il
realismo con un sistema fondato su Reviviscenza e Personificazione che negli
Stati Uniti si trasforma nel Metodo di Strasberg. Nel suo Actor’s Studio passano
Paul Newman, Marlon Brando, James Dean, Jane Fonda, Dustin Hoffman, Al Pacino,
Jack Nicholson, Robert De Niro… mostrando quanto il sistema sia più adatto al
cinema che al teatro (quale attore può reggere la tecnica della
personificazione per una o due ore? Il cinema è invece parcellizzato in scene e
l’attore, tra un ciak e l’altro, ha modo di concentrarsi sul ruolo).
Mejerchol’d (allievo di Stanislavskij) contro
il naturalismo intende riportare sulla scena la sorpresa e l’artificio, il
gioco e il colore, la dimensione del circo e della Commedia dell’Arte, insomma
l’immaginazione con i suoi simboli e la sua libertà espressiva, sottolineando
la teatralità e rifiutando la copia realistica della vita quotidiana.
Negli ultimi anni, però, Stanislavskij rivede
le proprie convinzioni e in parte sconfessa il sistema. Ora vede la recitazione
non più come movimento dall’interno (la ricerca di un binario parallelo, di
memoria emotiva, a quello del personaggio) verso l’esterno, e cioè verso l’adeguamento
del corpo alla ricostruzione interiore. Ma come un movimento dall’esterno all’interno.
Privilegia, quindi, il corpo come gestica, movimento e voce. Se l’attore
comincia a muoversi, a gesticolare, a parlare come suppone che possa fare il
personaggio, l’anima del personaggio gli si offre nella sua verità.
Questo è il metodo di lavoro che ho
seguito con i bambini di “Dietro la porta”.
Come si fa a parlare a un bambino di
ruolo, personaggio, identificazione? Se pensiamo al gioco “facciamo finta che
io sono…”, ci rendiamo conto che il bambino più che essere agisce. Egli è ciò
che fa il personaggio, non ciò che è.
Se quindi un bambino deve esprimere un
carattere e assumere un’identità diversa dalla propria, la strada per l’interpretazione
parte dal corpo. La propedeutica è il movimento nello spazio, la relazione con
lo spazio e con i partner, addirittura la relazione con sé stesso, dato che il
bambino ci si presenta spesso frazionato (ma questo vale anche per l’adulto). Mente
e corpo separati, abilità settoriali, scarsa coscienza di sé nell’unità,
difficoltà motoria…
La musica è essenziale per avviare un
percorso di presa di contatto e di padronanza di sé come corpo e voce. Aiutano
anche le filastrocche, dato che introducono alla scansione e aiutano, nella
coralità, a sentirsi più sicuri nei primi approcci con un uso della voce
inconsueto e controllato.
Altri stimoli, visivi o sonori, possono
facilitare prestazioni corporee che all’inizio risultano ostiche, manifestandosi
come disarmonia, scarso senso di orientamento, insicurezza, scarsa fiducia
nelle potenzialità fisiche.
È un percorso che conduce dapprima a familiarizzare
con spazio, oggetti e persone; poi ad affrontare sé stessi per vincere le
resistenze emotive; infine a delineare i primi elementi identificanti (a
livello di bambini di nove anni) di un “personaggio”.
Dall’esterno, quindi, e cioè dal
movimento, dalla gestica e dall’espressività vocale all’interno, e cioè nel
mondo delle emozioni, dei sentimenti, della memoria e della visione del mondo.
Tra il corpo e l’interiorità si
stabilisce un fluire energetico circolare, per cui l’arricchimento è reciproco.
Un teatro, infine, che non si ferma alla
sfera del divertimento. Non propone un consumo (come avviene con certa
televisione e certo cinema e anche certa letteratura) improduttivo, ma una
partecipazione coinvolgente che attiva e riattiva, e (ri)costruisce non solo un
personaggio, ma lo stesso attore che lo interpreta.
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