Aquilino
“Eracle” di Euripide.
Commento in occasione di una lettura pubblica drammatizzata.
Il
prologo in Eschilo era spesso affidato al coro. Esso serve a fornire allo
spettatore le informazioni necessarie per orientarsi nella vicenda. Quasi
sempre si espongono cronache remote e miti, dato che il presente è sempre
figlio del passato. Con Sofocle e con Euripide il prologo è affidato a un
personaggio, il cui monologo iniziale diviene poi dialogo. In questo caso
Anfitrione espone la sua lunga rhesis (discorso, spesso
resoconto, tipico del messaggero) e dopo poche battute con Megara, la moglie di
Eracle, cede la scena al coro dei vecchi tebani.
Si
presenta al pubblico come “Anfitrione di Argo, che condivise il letto nuziale
con Zeus”. Mentre lui è in guerra, Zeus assume le sue sembianze e inganna
Alcmena, la moglie, con una dettagliata cronaca delle battaglie. Sosta nella
sua camera tre giorni e tre notti e dall’amplesso nasce Eracle. L’informazione fornita
da Anfitrione precede una genealogia di tutto rispetto: è figlio di Alceo, a
sua volte figlio di Perseo generato da Zeus. Non a caso Euripide mette in
rilievo l’episodio, motivo di vanto per un mortale. Fa parte dell’ironia
tragica: ti vanti di essere con-padre di un semidio, ma quella che credi una
benedizione sarà invece la rovina della tua casa. Inoltre, Perseo è l’uccisore della
Gorgone Medusa. Nella tragedia, Euripide scrive che Eracle e i figli hanno uno
sguardo da Gorgone. I mostri che Eracle e i suoi antenati hanno ucciso dimorano
negli uccisori.
Esiliato
da Argo per avere ucciso in un incidente il cognato Elettrione, Anfitrione si è
rifugiato a Tebe, la terribile città dalle sette torri con sette porte, i cui
fondatori sono gli Sparti, i cinque guerrieri nati dai denti del drago di Ares
seminati da Cadmo. In loro onore, Cadmea si chiama la rocca di Tebe e Spartiati
o Cadmei gli abitanti. Ares lancia una maledizione contro Cadmo e i suoi
discendenti. Tebe è la città di Eracle e a Tebe nasce anche Dioniso, il dio
delle baccanti. Quando il re Penteo ne vieta il culto, lo fa uccidere dalla
madre Agave, invasata come lo sarà Eracle. A Tebe si svolge la vicenda di
Edipo, come Eracle assassino innocente, anche lui ospitato dal re di Atene
Teseo. Tebe assiste alla battaglia tra i due figli di Edipo, Polinice ed
Eteocle. E alle vicissitudini di Andromaca che sfida il potere di Creonte pur
di seppellire il fratello Polinice.
Eracle,
nella versione di Euripide (che stravolge il succedersi degli avvenimenti,
anticipando le fatiche e posticipando la morte di Anfitrione), rimane a vivere
ad Argo e stringe un accordo con il re Euristeo: libererà la sua terra dai
mostri e in cambio Anfitrione potrà tornare in patria.
Egli
è quindi partito per compiere dodici imprese, o fatiche: leone di Nemea, Idra
di Lerna, cerva di Cerinea, cinghiale di Erimanto, stalle di Augia, uccelli del
lago Stinfalo, toro di Creta, cavalle di Diomede, regina delle Amazzoni, buoi
di Gerione, giardino delle Esperidi, Cerbero. Si noti che le Amazzoni sono
nell’elenco dei più pericolosi mostri dell’antichità. Eracle ha appena portato
Cerbero a Euristeo (che ogni volta che l’eroe si ripresenta ad Argo si fa
calare in un bunker, al sicuro dai mostri) ed è in viaggio per Tebe, ma i suoi
familiari non lo sanno e temono che sia morto.
Il
re di Tebe era Creonte, padre di Megara. Lico l’ha ucciso approfittando
dell’assenza di Eracle e diventa il tiranno della città. Egli intende uccidere
tutti i familiari dell’eroe, per evitare che possano in seguito vendicarsi.
Anfitrione
è stato incaricato da Eracle di proteggere la moglie e i figli e svolge l’incarico
con dedizione e con coraggio.
Si
tratta di una figura minore, in una tragedia che vede come unico protagonista
Eracle, presente anche nell’assenza, dato che tutto gira intorno a lui. Lico
non farebbe una strage se i bambini non fossero figli suoi; e la sua ambizione
è comunque di distruggere nello spirito e nella fama un eroe che invidia.
Inoltre, i discorsi di Anfitrione e Megara sono tutti legati all’assenza
dell’eroe e a un suo prodigioso ritorno. Il coro ne ricorda le imprese. Sul
finale, al protagonista si affianca Teseo, un deus ex machina non
divino. Tocca a lui mettere un coperchio sulla pentola in ebollizione e tranciare
la catena di avvenimenti inspiegabili che tiene avvinto Eracle a uno stato di
scoramento.
Anfitrione
è il fil rouge che lega Megara e i bambini alla speranza, per poi
consegnarli alla pietà del rito funebre, e fronteggia Lico e gli dei, e assiste
al massacro, e poi sostiene il figlio, e solo alla fine dice: a me chi pensa?
Perché tanta morte se la sente addosso e il pensiero di seppellire i nipoti e
la nuora e di rimanere solo nella città travolta dalla guerra civile lo
annienta. Con sollievo sente promettere da Eracle che manderà a prenderlo per
portarlo ad Atene.
Una
figura minore, ma l’unica che vive la tragedia in modo equilibrato. Megara è
presa da un fanatismo funebre che costringe i figli a interpretare con decoro
l’ultima scena della loro vita. Eracle, dopo la breve scena iniziale in cui si
mostra padre affettuoso, non fa che uccidere, prima il tiranno e poi i
familiari. Quando esce da una forma di “entusiasmo” che non gli provoca un
contatto creativo con la divinità, ma lo rende indemoniato e furioso, perde la
spavalderia dell’eroe e barcolla tra la figura tragica e quella comica, come
già nell’ “Alcesti”. Appare distrutto, più che dal dolore, dalla perdita
dell’onore, della timè. Vuole quindi suicidarsi, ma ci ripensa;
abbandonare le armi, ma le riprende; e il suo pensiero va alla ricompensa non
ancora riscossa per la cattura di Cerbero; e probabilmente ai beni e agli onori
che lo attendono ad Atene.
Anfitrione
si ritrova fuori dal sistema, bandito da Argo, coinvolto nella lotta civile a
Tebe, emarginato insieme agli altri vecchi, ridotto a fare da becchino, solo
con il proprio dolore. Eracle, invece, sceglie di mantenere il proprio ruolo di
aristocratico eroe e va ad Atene a riscuotere il premio della propria fama.
L’odio di Era, tuttavia, lo segue e lo annienta. Sposa Deianira, ha altri figli, ma non scampa a
una morte orribile.
L’umanizzazione
dell’eroe giunge così al suo estremo, con la sua dissoluzione sul rogo. Ma
dobbiamo rivolgerci a Sofocle per conoscere la fine di Eracle, raccontata nella
tragedia “Trachinie”.
L’impotenza
e la solitudine di Anfitrione, questo “eroe in ombra”, sono le medesime dei
vecchi del coro (“Vecchio, fa’ da scorta a un altro vecchio”). Essi cantano:
“La vecchiaia è un peso, sempre, che mi schiaccia”.
Eppure
fa o dice più cose sensate Anfitrione che Eracle, la cui unica opzione rimane la
violenza.
Nel
finale deittico del monologo sottolinea la propria condizione di esule perenne.
Cacciato da Argo, è stato cacciato anche dalla casa di Tebe. E anticipa quello
che in seguito sviluppa in modo più ampio: nella sventura, gli amici si
eclissano.
Ci
si offre un quadro significativo: raccolta attorno all’altare, cercando nella
religione l’estremo rifugio, la parte più debole e maltrattata dell’umanità: un
vecchio, una donna, tre bambini. Sono le vittime predestinate dei conflitti
sociali e delle guerre.
Anfitrione
è preciso e oggettivo nel presentare al pubblico la situazione. Ma Euripide è
un artista e il registro dal narrativo vira di colpo al patetico. Se il vecchio
mostra fierezza e combattività (“Mi piace vivere e amo la speranza”), sua nuora
si è già arresa. Non vede via d’uscita e concentra le proprie energie nel
tranquillizzare i figli, per condurli verso una buona morte. È una figura
acquerellata, l’opposto della sanguigna Medea, un’Alcesti che si rassegna a un
destino visto come ineluttabile che comunque la santifica. Euripide non sembra
prendersi molta cura della sua arrendevolezza e la tratteggia senza passione.
Ora
che a tutti è chiaro che cosa sta succedendo e con quali stati d’animo i
personaggi vivono la vicenda, il coro può fare il proprio ingresso danzato e
cantato. È la parodo. Il termine significa “la via vicina” e si riferisce al
duplice corridoio sui lati della scena. Indica anche l’ingresso del coro.
Il
coro dei vecchi è lo specchio della precarietà della situazione umana,
evidenziata dalla situazione. Com’è la loro vita? Segnata dagli incubi, dalla
paura di non farcela, dai ricordi tristi delle glorie del passato,
dall’amarezza di avere dato tanto e di trovarsi ora nel bisogno. Che cosa li
soccorre? Solo la solidarietà. Eschilo avrebbe predicato la fede in Zeus, ma il
laico Euripide invita gli uomini a contare solo su se stessi. L’invito alla
fratellanza umana assume un colore politico, quando l’autore rimprovera la
Grecia di perdere preziosi alleati, uccidendo i figli di Eracle. Sembra un
riferimento alla guerra del Peloponneso, devastante e insensata. La solidarietà
tra gli anziani anticipa quella tra Teseo ed Eracle nel finale. Gli uomini, se
vogliono superare i momenti difficili, non devono aspettare l’aiuto del cielo,
ma soccorrersi a vicenda.
Abbiamo
ascoltato il racconto equilibrato delle sventure, elaborato su registri
diversi: la fierezza, l’irremovibilità, la solidarietà, la remissività, la
nostalgia, l’indignazione… Ai toni patetici si contrappone la prepotenza del
tiranno. Lico è lucido, risoluto, cinico. L’emblema del conquistatore che va
dritto all’obiettivo, indifferente al costo in vite umane.
Euripide
ce lo presenta disumanizzato, un robot programmato nei cui circuiti la pietà
non ha significato. Non è forse l’altra faccia di Eracle? Ambedue hanno compiti
da svolgere e li conseguono con la massima efficienza, facendo ricorso alla
violenza. Violenza e guerra sono pane quotidiano nella società micenea, ma
Euripide afferma che è tempo di staccarsi dalle origini. Tempo di revisionare
la mitologia e la qualità dei rapporti tra gli uomini, tra gli uomini e gli dei
e tra le comunità e gli stati. Violenti, sia Lico sia Eracle trovano una morte
violenta.
La
forza di Lico è comunque venata di debolezza, dato che non può fare a meno di
manifestare invidia e paura per Eracle, che in un modo goffo tenta di sminuire.
Il confronto con lui è inevitabile. Scontro animalesco tra due maschi
dominanti. Lico lo attacca nel punto debole dei maschi: la virilità. Non è un
uomo, afferma, chi combatte con l’arco e non con la lancia. Comincia, qui, il
gioco di disintegrazione del semidio. Ma è proprio vero che abbia ucciso tutti
quei mostri? Erano davvero mostri? Le sue imprese si sono svolte lontano,
impossibile verificarne l’autenticità. Non saranno anche queste “invenzioni dei
poeti” come dirà più avanti Euripide? E non è un vigliacco, chi scaglia la
freccia tenendosi nascosto?
Euripide
tesse le lodi della falange greca, la phalanx di opliti costituita da un muro
di scudi, ma le sue parole suonano sinistre e ricordano la carne da macello di
tutte le epoche.
Nel
primo episodio, Lico è sbrigativo e terrificante nelle sue esagerazioni.
Euripide gli fa mandare soldati sull’Elicona e sul Parnaso, lontani decine di
chilometri, per riportarne tronchi da ammassare intorno all’altare di Zeus. Una
sparata improbabile al di fuori di ogni logica di corrispondenza spaziale e
temporale. Una pira gigantesca per bruciare vivi i nemici. L’ansia di
distruzione del tiranno megalomane.
Ai
suoi piani smisurati di puro orrore si oppongono i gemiti misurati e le
maledizioni impotenti di Anfitrione e dei vecchi, qui fusi in un medesimo stato
d’animo: pietà per le piccole vittime, sdegno per la loro sorte, riprovazione
per la mancanza di soccorsi. Tutti sfidano il tiranno, ma nessuno è in grado di
fare una concreta opposizione. Non fa quindi parte anche Lico di ananke, la
necessità che governa la vita, il Fato contro il quale è impossibile
ribellarsi? Com’era inarrestabile Eracle nella distruzione dei mostri, così lo
è il tiranno nel sottomettere e nel trucidare. D’altronde, i familiari di
Eracle sono i suoi mostri, gli incubi di una possibile vendetta futura che egli
deve eliminare.
Megara,
sottomessa alla necessità, chiede una grazia: che non vengano uccisi dal fuoco,
ma dalla spada. E che possano rientrare nel palazzo per indossare gli abiti
funebri.
Ecco
Ananke, evocata da Megara. La sua adesione allo stato di necessità
dell’umanità, per cui si deve accettare il destino come si presenta, suona come
un rimprovero ad Anfitrione e al coro di vecchi. Sono stupidi, se non si
arrendono al destino, contro il quale nemmeno gli dei possono fare qualcosa. Ma
insinua anche il dubbio che il suocero abbia paura, quando dice: Abbi il
coraggio di morire insieme a noi. Megara analizza freddamente la situazione e
anche qui riscontriamo la duplice anima di Euripide, poetica e filosofica. I
suoi personaggi esprimono emozioni, ma anche interrogano, indagano, cercano
risposte. Megara esamina tre possibili vie di salvezza: il ritorno di Eracle, il
pentimento di Lico, l’esilio. Nega la praticabilità di tutte e tre le vie. La
più concreta è l’esilio, ma la morte è meglio di una sopravvivenza misera. Non
si ribella, non cerca vane speranze, ma si adopra per salvare il salvabile. Se
devono morire, che avvenga in modo dignitoso. Sembra avere un animo freddo,
rispetto a quello più turbolento di Anfitrione. Le sue preoccupazioni sono
formali: morire non arsi vivi, ma sgozzati come vittime sacrificali, e
agghindati con le vesti nere. Anfitrione si arrende. Non impreca più, non si
rifugia nella speranza. Fa però una strana richiesta, che vengano uccisi per
primi lui e Megara, per evitare lo strazio di assistere alla fine dei bambini.
Non pensa che per loro è sorte peggiore vedere prima uccidere madre e nonno e
capire che cosa li aspetta. Forse la dinamica è coerente con i valori sociali
del tempo: prima gli uomini, poi le donne, ultimi i bambini, i più
sacrificabili.
Anfitrione
non regge a fare la parte del rassegnato e il suo ultimo grido è un’accusa
lucida e disperata. Com’è possibile, dice, che l’uomo sia migliore degli dei?
Zeus è stato disonesto e ora si mostra cinico e irriconoscente. Io invece sono
qui, pronto a morire insieme a coloro che proteggo. Zeus non capisce, è lontano
da noi, oppure è ingiusto. E così crolla tutto il sistema olimpico. Siamo
lontanissimi dalle esortazioni di Eschilo a rivolgersi sempre e comunque a
Zeus.
Giungiamo
al primo stasimo. Il coro esprime un threnos, un lamento funebre che è anche
celebrazione dell’eroe ormai dato per morto. Il canto è lungo in modo
inconsueto, dato che rievoca una per una tutte le dodici fatiche di Eracle.
Àilinos, il grido con cui si apre, è il nome di un figlio di Apollo morto
sbranato dai cani. In sua memoria, Apollo ha istituito un culto e “ailinos” è
diventata un’invocazione.
Nel
secondo episodio, Megara commemora la grandezza della propria famiglia. Eracle
aveva promesso ai figli di renderli re di Argo, di Tebe e di Ecalia. È significativo
che Euripide abbia posto in elenco
proprio Ecalia, la città conquistata da Eracle per vendicarsi di un torto e
soprattutto per prendersi la ragazza di cui si è invaghito. Il re di Ecalia,
Eurito, promette di dare in sposa la figlia Iole a chi lo batte nel tiro con
l’arco, nel quale si ritiene invincibile grazie all’arco ricevuto da Apollo.
Eracle, che pure è stato suo allievo, lo batte, ma Eurito gli nega Iole, avendo
saputo che l’eroe ha ucciso la moglie Megara e i propri figli. Eracle se ne va
meditando vendetta. Dapprima uccide il figlio di Eurito, Ifito, suo ospite,
buttandolo giù dalle mura di Corinto. Poi, quando ha già sposato Deianira,
assalta Ecalia con un esercito, la distrugge, ne uccide gli abitanti e si porta
via Iole come concubina. È la gelosia di Deianira, in un onesto tentativo di
recuperare l’amore del marito donandogli una tunica impregnata del sangue del
centauro Nesso, a far morire Eracle in modo atroce.
Ecco,
quindi, l’eredità che Eracle lascia ai figli: rapacità, tradimento,
distruzione, violenza. Megara celebra l’eccellenza aristocratica del mito, ma
inconsapevolmente ne porta alla luce la sostanza fatta di maschilismo e
sopraffazione.
Più
dimesso è il tono di Anfitrione. Non celebra, ma compiange il comune destino
umano, di soggiacere al tempo e alle sue devastazioni. Il suo invito edonistico
al carpe diem è amaro, perché si presenta come una disfatta.
Arriva
Eracle, come un’apparizione divina. Evocato da Megara, che si sarebbe
accontentata di un’ombra o di un sogno, egli si concede nella realtà, vivo. Un
passaggio quasi da commedia. L’invocazione disperata e subito dopo, meraviglia
del soprannaturale, il miracolo. Quasi comica è anche la sollecitazione della
madre: svelti, bambini, correte ad aggrapparvi a lui, non lasciatelo scappare via!
D’altronde, Eracle è uno che torna solo per ripartire. Euripide sembra dirci
che il confine tra la tragedia e la commedia, il patetico e il comico, il
drammatico e il ridicolo è labile. Il colpo di scena è tipico delle commedie
cosiddette di tiche, la fortuna: agnizioni, ribaltamenti, inatteso lieto fine.
La
scena che si presenta all’eroe è scioccante. Viene dall’Ade e si ritrova
davanti i familiari in abiti funebri, simili ai morti che ha incontrato giù
all’inferno. Lo stupore è dato anche dal fatto che scorge la moglie fuori casa,
in mezzo agli uomini: situazione inappropriata per una donna sposata. Megara
compie poi un’altra infrazione, di cui si scusa: invece di lasciar parlare
l’uomo, Anfitrione, prende l’iniziativa ed espone lei i fatti, giustificandosi
con il detto che la donna è più emotiva dell’uomo e che si trova in uno stato
d’animo di agitazione e paura.
La
sticomitia tra lei ed Eracle mette del tutto in ombra Anfitrione: la vecchiaia
deve soccombere anche all’esuberanza femminile.
Megara
torna nell’ombra e non replica più ai successivi propositi di vendetta di
Eracle, come se tanta virulenza non facesse che aumentare la sua angoscia. Con
l’amarezza, e l’astio, di essere rimasta senza amici, si chiude la sua parte
nella tragedia. Che cosa rimane di Megara? Ci si presenta nel dialogo iniziale
con Anfitrione informandoci che i figli chiedono del padre, come se sulla madre
sapessero di non potere fare affidamento. Infatti, Megara non ha certo l’animo
dell’eroina. Non si oppone a Lico e non tenta vie estreme, tipo il suicidio. Si
rassegna, e nessuna eroina lo farebbe. Nel dialogo successivo implora Lico di
dare loro una morte formalmente onorevole, abbigliati secondo l’uso e sgozzati,
e non urlanti nelle fiamme, cosa che farebbe ridere i nemici. Ricorda poi a
quali onori erano destinati i figli, futuri re di Argo, Tebe ed Ecalia (senza
interrogarsi sull’effettiva realizzabilità di un progetto così folle),
valorizzando i figli per il ruolo più che per se stessi.
Infine,
quando giunge Eracle, la sua è una lamentazione quasi isterica, tanto da rubare
la scena ad Anfitrione. Enumera le disgrazie delegando al marito ogni
iniziativa. A questo punto, non ha più niente da dire. Come se pensasse: il mio
dovere l’ho fatto, ora tocca a lui.
L’ira
di Eracle è delirante, ricorda quella di Achille e di Aiace. È la rabbia
incontrollata di un bambino. Giunge addirittura a rinnegare le imprese
compiute, in nome di questa più alta: salvare i propri figli. Si può anche
sottolineare l’esternazione affettuosa del padre, ma Eracle gestisce i figli
come investimento per il futuro, dato che a loro spetterà di tenere alto
l’onore della famiglia. Moglie e figli sono una sua proprietà. L’atteggiamento
è simile a quello di tanti mariti-padri padroni, che per “amore” giungono a fare
una strage familiare.
Anfitrione
esce dall’ombra e frena l’impulsivo genero. Espone addirittura un’analisi della
situazione politica, addebitando la colpa del disordine sociale di cui si è
approfittato Lico agli spiantati che si fanno credere ricchi e che fanno di
tutto per conseguire l’agiatezza di cui hanno un disperato bisogno. Una
questione di immagine pubblica e di società disgregata molto attuale. Il
consiglio di Anfitrione appare cinico e vile: un agguato per uccidere Lico. Ma
l’alternativa è la guerra civile o un Eracle scatenato per le vie della città,
quindi una mente razionale la definirebbe un’opzione sensata. La tirata finale
sull’amore per i figli appare retorica.
In
una breve sticomitia, Eracle racconta la cattura di Cerbero. È l’occasione per
introdurre Teseo, protagonista della parte finale. Egli e il suo amico Piritoo
hanno rapito Elena sorteggiata in moglie per Teseo, rimasto vedovo dopo il
suicidio di Fedra. Anche Piritoo vuole una moglie e scendono insieme nel
Tartaro per rapire Persefone. Ade, però, li immobilizza su due troni di pietra.
Eracle riesce a liberare Teseo, ma non Piritoo.
Nel
secondo stasimo, Il coro ritorna sul tema della giovinezza, suggerito dalla
esuberanza di Eracle contrapposta all’impotenza senile. La sua voce è anche
quella del sessantenne Euripide. Lo stile è quello sofistico, riflette il gusto
di ragionare intorno all’utopia. L’esito è amaro: la ricchezza è il tratto
distintivo più riconosciuto; e infatti l’aretè aveva tra i suoi requisiti
proprio la ricchezza. Euripide si sta confrontando, lui artista, con il mondo
fatto più di beni materiali che di poesia.
Eccolo
quindi portare un esempio alternativo di vita, quando è governata dalle Cariti
e dalle Muse, sotto il segno di Bromio, Dioniso. L’accenno a Dioniso è
importante. La follia omicida di Eracle ricorda quella di Agave nelle
“Baccanti”. E si può riscontrare, come suggeriscono le numerose citazioni, un
senso binario dell’esistenza, regolata da due forze contrapposte, quelle di
Apollo (ordine, disciplina, armonia, pensiero…) e di Dioniso (caos, anarchia,
ritmo sfrenato, intuizione…), in una prefigurazione nietzschiana.
I
vecchi del coro si paragonano ancora al cigno, bianco come le loro barbe, sacro
ad Apollo: il suo canto più bello lo intona in punto di morte. Anche qui
Euripide esprime se stesso, nella misantropia che gli ha alienato le simpatie
di un popolo che della socialità faceva il basamento della propria identità.
Poco più di un decennio dopo, se ne va a morire in Macedonia, dove esprime con
le “Baccanti” il turbamento di fronte a un mondo irrazionale e imprevedibile,
nel quale la violenza è un tragico abbaglio; mentre le istituzioni che
dovrebbero renderlo pacifico e sereno si dimostrano incapaci di regolare gli
istinti di morte dei suoi abitanti. E gli dei non danno alcun conforto.
Il
terzo episodio è breve. Sulla morte di Lico non ci sono altre parole da
sprecare. L’attenzione di Euripide è concentrata su altre dinamiche. Per le
modalità espressive, è stata rimarcata una simmetria con l’Elettra. Ma il
dialogo tra Anfitrione e Lico ricorda molto quello tra Dioniso e Penteo, quando
il dio convince il re a rendersi vittima di se stesso, scegliendo di recarsi
sul monte a spiare le baccanti. Il severo e apollineo Anfitrione come Dioniso,
dunque, disposto a mentire pur di eliminare il tiranno senza ulteriori
spargimenti di sangue.
Nel
terzo stasimo, il coro riprende il concetto di Anfitrione, sul giusto piacere
di un atto di giustizia. Enfatizza il concetto per dare a intendere che il
disordine causato da Lico sta per avere fine. Eracle riprende il proprio posto
nel mondo dei vivi e continua l’opera di distruzione dei mostri. I familiari
sono salvi, il tiranno eliminato. Insomma, un lieto fine. Il coro rimprovera
chi non crede nel potere degli dei di riportare la giustizia tra gli uomini. Ma
il lieto fine è solo un’illusione. Come lo sono gli dei consolatori e garanti
di giustizia.
I
vecchi hanno celebrato Eracle, la giustizia divina, la bellezza e la prosperità
di Tebe. L’episodio dell’uccisione di Lico ha le caratteristiche di un finale.
Ma, con un forte contrasto drammaturgico, la vicenda tragica prosegue nel modo
più inatteso e sconvolgente. Sul tetto della casa appaiono due figure divine
inquietanti. Euripide, dopo un falso finale, introduce un secondo prologo, per
consentire a Iride di orientare gli spettatori. La vicenda della follia di
Eracle porta a un massacro ed è un secondo finale, caratterizzato dallo
sconforto impotente dell’eroe. Ma a quel punto, come un deus ex machina,
compare Teseo che conduce verso il terzo finale definitivo.
Siamo
al quarto episodio. Iride è la personificazione dell’arcobaleno, ma è sorella
delle Arpie e il suo compito di messaggera è di portare solo messaggi funesti.
Lissa è la dea della rabbia e del furore cieco, ha un aspetto terribile, con
serpenti al posto dei capelli. Si presentano in disaccordo: Lissa commemora le
imprese di Eracle e invita gli dei a non infierire su di lui. Ma il dissidio è
di breve durata e Lissa si conforma subito alla volontà di Era. Euripide ci
dice: anche se sanno di fare una cosa ingiusta, gli dei la fanno, guidati da capricci
o cattivi sentimenti.
La
furia che si impadronisce di Eracle è un demone taurino. Come è stato osservato
(Antonietta Provenza, Eracle e l’odio di Era. L’immagine del toro nell’Eracle
di Euripide), “La perdita dei tratti umani di Eracle, culminante nell’immagine
del toro, è conseguente nel dramma ad una follia che si presenta come
sovvertimento dannoso dell’enthousiasmos dionisiaco a opera di Lissa, il demone
che incarna la follia stessa come sconvolgimento rabbioso dalle conseguenze
incontrollabili.”
L’associazione
Dioniso-toro è ampiamente attestata nella letteratura greca. Ma il toro è anche
l’animale più pregiato per i sacrifici, di solito riservato a Zeus.
Eracle-Dioniso-Zeus esprime il peccato di hybris, che come al solito nasconde
l’assurdo della condizione umana. Lo stesso Zeus ha generato il supereroe e
l’ha benedetto nella sua funzione civilizzatrice di uccisore di mostri. Ma la
sua fama lo innalza a livello olimpico, facendone un altro mostro che, pur
essendo umano, assume caratteristiche simili a quelle degli dei. Il toro divino
va quindi sacrificato. Eracle mantiene ancora il ruolo di giustiziere, ma in
questo caso uccide se stesso nei propri affetti. Egli sacrifica agli dei moglie
e figli, annienta la propria vita. Come Edipo, può dire: “Per la legge sono
innocente, dato che non ero consapevole di quello che facevo”. E il coro può
ripetere: “Egli è un uomo perbene”.
Gli
dei giudicano gli uomini secondo l’hamartia, ossia gli errori inconsapevoli o i
giudizi errati che portano a conseguenze tragiche. Qual è l’hamartia di Eracle?
Solo di essersi elevato al di sopra dell’uomo, oppure di avere accettato il
proprio destino di sterminatore senza alcuna valutazione etica? Non ha mai
avuto dubbi, sulla propria missione di eliminatore di mostri. Non si è mai
fatto scrupolo di usare la violenza in modo eccessivo, uccidendo innocenti e
distruggendo città. Forse è questo il debito che ha con gli uomini e con gli
dei. Violenza chiama violenza. Occorre un sacrificio di decontaminazione. Un
sacrificio totale: la punizione di sé con l’uccisione non di mostri, ma di una
donna e di bambini, la sua donna e i suoi bambini. Tanto ha tolto agli altri,
tanto toglie a se stesso.
Nel
quarto stasimo, il coro sottolinea l’associazione tra la furia di Eracle e
l’invasamento delle baccanti. In questo caso, però, mancano la musica e il
vino, sostituiti dal fracasso e dal sangue. Manca, soprattutto, la colpa da
attribuire a Eracle, come nel caso di Penteo che ha proibito il culto di
Dioniso. L’unica colpa che gli si addebita è di essere figlio di Zeus. Era
vuole impedire che dei e uomini si uniscano per generare una nuova razza di
semidei, una minaccia per l’Olimpo. Tra l’uomo e il dio si deve mantenere una
distanza insuperabile.
Alle
esclamazioni di orrore del coro segue la rhesis del messaggero (quinto
episodio), che fa una cronaca cruda di quanto è successo lontano dagli sguardi
degli spettatori. Un terremoto fa crollare i muri, Anfitrione urla tentando
un’impossibile opposizione, appare la dea Atena che finalmente ferma il folle.
I sintomi di Eracle sono impressionanti. Euripide è ben documentato, conosce la
dottrina di Ippocrate, allievo di Protagora e dei sofisti: rigidità, schiuma alla
bocca, occhi iniettati di sangue, riso isterico, allucinazioni… la rabbia,
l’epilessia, la follia.
Dove
avviene la strage? Proprio intorno a un altro altare di Zeus: uno all’esterno
per dare inizio alla vicenda e uno in casa per darle conclusione. Zeus, l’Olimpo,
è testimone dall’inizio alla fine e a lui si appellano invano le vittime.
Eracle si sta lavando le mani per purificarsi dell’uccisione di Lico (come ci
si purifica dopo un sacrificio cruento), ma per lui non esiste purificazione
divina, e riprende a uccidere. Come Aiace, è preda di allucinazioni, convinto
di trovarsi nella reggia di Euristeo.
Quinto
stasimo. Mediante l’ekkyklema, la piattaforma mobile, i cadaveri vengono
mostrati al pubblico e ai vecchi del coro. Ma si può anche immaginare che la
parete frontale crolli (venga rimossa) in seguito al terremoto, rivelando
l’interno. Domina il silenzio. Quello dei morti, quello di Eracle tramortito,
quello che invoca Anfitrione, come se non ci fosse più niente da dire. A lui
non rimane che piangere, sia per le vittime sia per il figlio che dorme “un
sonno dannato”. È a lui che è riservata la pietà più profonda e straziante. Al
coro non rimane che ribadire l’assoluta incapacità dell’essere umano di dare un
senso ai casi della vita. Si rivolge al secondo padre di Eracle, quello divino,
e l’invocazione suona come un rimprovero.
Esodo.
Al risveglio, Eracle paragona se stesso a una nave ormeggiata scampata a una
tempesta. Poco prima, trascinando i figli nella casa dell’orrore, aveva parlato
di un rimorchiatore. Si tratta, insomma, di un naufragio. Tocca sempre ad
Anfitrione affrontare la realtà con coraggio e realismo. Nonostante sia stato
testimone dell’eccidio, non maledice Eracle (“O figlio, sei mio figlio anche
nella sventura!”) e parola dopo parola, con la cautela necessaria per capire se
Eracle sia davvero rinsavito, affronta insieme a lui la terribile verità.
“Tutto per te è sventura”, gli dice. Il ritorno dell’eroe salvifico si è
trasformato in un episodio di guerra di sterminio.
Eracle
non indugia in lamentazioni che non rientrano nel suo carattere. Pensa ad
agire, che è nella sua natura. L’unica azione possibile gli appare quella del
suicidio. Ma non fa in tempo a esporre la sua fin troppo dialettica
determinazione (mi butto dalla rupe? mi conficco una spada nel fegato? mi do
fuoco?) che arriva Teseo a vanificare i suoi piani.
Sembra
che il dolore per il lutto e il senso di colpa vengano affrontati, più che con
un’azione semplice e immediata, con un tergiversare che però assicura la
sopravvivenza. Fresco di mattanza, Eracle è impuro. Nessuno deve posare lo
sguardo su di lui, pena la contaminazione, che era causata da vista, udito,
tatto. Si accovaccia e nasconde la testa sotto il mantello, spinto anche dalla
vergogna per quello che ha fatto. Un’immagine che stride con quella dell’eroe
trionfatore ritornato dall’inferno!
Teseo
è suo cugino, sia per parte di madre (Alcmena e Etra erano sorelle) sia per
parte di padre (Zeus e Poseidone fratelli) e gli è affezionato, oltre che
riconoscente per averlo portato via dal Tartaro.
Lico
un tiranno odioso, i Tebani dei vili che hanno abbandonato la famiglia di
Eracle, i coristi e Anfitrione troppo vecchi per fare qualcosa, Megara una
rinunciataria… su questo sfondo di impotenza spicca il re di Atene,
glorificazione della polis del quinto secolo.
Teseo
giunge con un esercito (di giovani!) in soccorso di Eracle e si presenta come
l’eroe puro, onesto, forte e compassionevole. È il Teseo delle “Supplici”,
quando all’araldo tebano dice: “Ad Atene non comanda uno solo, libera è la
città: comanda il popolo con i deputati, a turno eletti anno per anno; i ricchi
non hanno privilegi, i poveri uguali diritti.”
A
seguire un duetto in cui Anfitrione canta e Teseo recita: una scena ricca di
pathos.
Quando
Teseo toglie la coperta che nasconde Eracle, scopre un Eracle arrendevole, stupito
perché Teseo non teme la contaminazione. Ma Teseo-Euripide espone una dottrina
nuova che va contro la tradizione, anche questa acquisita con la frequentazione
di Protagora: l’amore e l’amicizia impediscono ogni contaminazione. Teseo
espone un’altra novità: non si deve ricorrere al suicidio per sfuggire al
disonore o all’umiliazione. Il ricorso al suicido è molto più facile in
Sofocle, che rispecchia la cultura dell’onore a tutti i costi. Per completare
un quadro tutto filosofico, Euripide fa esporre a Teseo una critica esplicita
al comportamento degli dei, che infrangono le leggi civili e sono dispotici.
Non vanno presi ad esempio, se non per il fatto che accettano i propri limiti
senza vergogna, come dovrebbero fare gli uomini. Un’altra osservazione riguarda
i reietti della società, i nullatenenti e gli schiavi, o quelli nati
penalizzati a livello fisico o psichico. Loro, afferma Euripide, non soffrono
quanto uno che è fortunato e felice e precipita nella disgrazia. Un
ragionamento piuttosto aristocratico, ma tipico della mentalità antica.
A
questo punto, Teseo si rivela davvero un deus ex machina, dato che ha in
tasca la soluzione.
Di
fronte a lui Eracle inscena un vero e proprio processo. Non condanna se stesso
per quello che ha fatto, ormai del tutto convinto che è solo opera di Era, ma
presenta la giuria inesorabile della comunità. È la gente a condannarlo,
impedendogli di accedere ai templi e di partecipare alle riunioni pubbliche:
gli viene negata la socialità. Anche lui fa parte dei mostri che ha combattuto
e deve lasciare i luoghi civili per rifugiarsi in quelli selvaggi. Senza alcuna
remora, si autocelebra come il più grande eroe della Grecia e si autoassolve da
ogni colpa.
Eracle-Euripide,
contraddicendo Teseo, pronuncia una difesa degli dei che richiederebbe di
essere approfondita, esposta così com’è in pochi versi. Gli dei non sono così
infami come raccontano vecchie storie, i miti. Sono invenzioni dei poeti,
poiché gli dei non hanno bisogno di nulla. Si fa strada una concezione nuova
dell’universo olimpico, riveduto in chiave sofistica e soprattutto influenzata
dal pensiero dell’empio Anassagora, che sostituiva gli dei con il Nous.
Euripide, insomma, intende fare piazza pulita di tutte le superstizioni e le
invenzioni letterarie e recuperare un senso di divinità puro e alto.
Eracle
continua a operare cambiamenti repentini di atteggiamento. Non cambia però
l’alta opinione che ha di sé, tanto da considerare unica e smisurata la propria
disgrazia, sminuendo così i doni generosi che gli fa Teseo. Non bastano
ricchezze e onori e nemmeno santificazioni per consolarlo. Comunque, accetta
tutto. E cambia idea sul suicidio, pensando che è un atto da vigliacco, e non
sopporterebbe di essere ricordato così. La sua sembra una fine misera: ho
pianto… devo assoggettarmi al destino… vado in esilio… Ma si tratta di un
esilio dorato. Lascia moglie e figli incaricando Anfitrione di provvedere ai
riti funebri, ma per l’ennesima volta celebra se stesso come autore di
“magnifiche imprese”, e rimarca che lui ai figli aveva approntato un futuro di
gloria, lasciando loro una “splendida eredità”. Insomma, lui è stato un padre
perfetto.
L’addio
alle vittime è declamatorio, ma poco interiorizzato. Sembra la recita di un
dolore, più che il dolore in sé. L’addio ai familiari è presto sostituito da un
frettoloso addio alle armi. Dovrebbero ispirargli orrore, ma le armi sono ormai
una propaggine del proprio corpo, sono una parte di sé inscindibile. Il
pretesto è che ha ancora dei nemici e che ha il dovere di difendersi e di non
soccombere, sempre per via della vergogna, della timè da difendere a tutti i
costi.
Infine,
chiede a Teseo di accompagnarlo ad Argo per riscuotere il compenso della
cattura di Cerbero. Strana conclusione di una lamentazione! Eracle, in
conclusione, sembra avere più a cuore sé come grande eroe, sé come padre
amorevole, sé come vittima del destino, sé come mercante di morte. Saluta il
popolo di Tebe, invitandolo a onorare i morti e anche lui vivo, ugualmente
disgraziato. Anche qui una nota stonata: i morti sono morti e lui continua la
propria vita tra gli onori.
Dopo
tanti sfoghi, tante commemorazioni e autoesaltazioni, dopo le rosee e inattese
prospettive per il futuro, Eracle è svuotato. Sembra colpito da una paralisi.
Deve appoggiarsi a Teseo. Si ripulisce dal sangue, ma l’atto di purificazione
non basta a ridargli la forza di avviarsi con l’amico. Esita, vuole dare un
ultimo saluto ai figli e al padre. Irrita Teseo che lo vede trasformato da eroe
in uomo comune. Ecco, proprio un uomo comune diventa Eracle. E invano Teseo lo
provoca dandogli della femminuccia. Raccomanda di nuovo al padre la sepoltura e
gli promette che tornerà a prenderlo per portarlo ad Atene. Eracle e il vecchio
padre, i due sopravvissuti. Ora Eracle condivide non più le promesse per il
futuro e la vigoria del rapporto coniugale, ma la depressione di un vecchio che
ha perso tutto: il proprio paese, la propria casa, i propri familiari.
Dall’Olimpo e dall’empireo degli eroi siamo scesi a livello degli uomini
mortali e gravidi di disgrazie. Eracle avrà terre e santuari, come promesso da
Teseo, ma il suo animo è umano e “Stolto, chi preferisce la ricchezza o la
forza ai buoni amici.”
Tutta
l’opera viene riposizionata secondo questa prospettiva: i conti non si fanno
con gli dei, ma con gli uomini. L’eroe semidio è un uomo, con tutte le sue
debolezze. Incentrato su di sé e capace di compiere crimini. Anche Omero ci
presenta Ettore come buon padre di famiglia e in preda al terrore davanti ad
Achille.
Solo
in una comunità democratica e affettiva si può trovare sollievo e soccorso
nelle traversie quotidiane. Amicizia e buona società, ecco la ricetta di
Euripide. Non per niente le ultime battute sono fra tre personaggi, struttura
rara in Euripide, quasi un simposio.
Nella
traduzione di Angelo Tonelli.