Il riordino della scena non può
tuttavia avvenire se non riflette un processo di riordino e armonizzazione
interiore. Ciò avviene anche nell’interrelazione
dell’uomo con l’ambiente. Non si può verificare un vero rispetto della natura
se l’uomo non accoglie in sé, con devozione e sensibilità, ciò che la natura è
nel suo insieme, non come appare a sguardi offuscati da romanticismo, sentimentalismo
o utilitarismo. La natura è armonia di dissonanze, fratture e imperfezioni, e
così va accettata. Se l’uomo non lascia una visione antropocentrica e non s’inserisce
nel coro universale come una delle innumerevoli voci, il suo tentativo di
riordinare se stesso e l’ambiente in cui vive è destinato alla disarmonia e
alla distruzione.
Il drammaturgo che scrive il
testo, il regista che lo rende visibile e l’attore che gli dà corpo sono di
fronte alla scena silenziosa e spenta, dove si accumulano oggetti, teli,
costumi. Qual è il compito del riordinatore? Quello di un naturalista che di
fronte a un ambiente naturale non ne coglie solo le qualità estetiche e le
suggestioni sensoriali. Egli stabilisce relazioni tra gli elementi che lo
compongono e vede come ogni vita s’intreccia ad altre vite, in una complessità
relazionale di vita e morte che assicura il perpetuarsi della vita. Egli ascolta,
quindi, il cuore che batte al di sotto di tale complessità e ne sintonizza il battito
con il proprio. In modo simile il regista non vede solo un fondale, una sedia,
un telo colorato… ma spazi, forme, itinerari, movimenti… da mettere in
relazione tra di loro.
Quando si fanno le pulizie di casa si può trarre piacere
e soddisfazione da: eliminazione del superfluo, eliminazione di quanto con il
tempo si è svalutato, inserimento di un altro oggetto, spostamento di cose,
riutilizzo di cose in modo nuovo e diverso. Se sposto un oggetto (un quadro,
una statuetta…), cambio un sistema di relazioni. A seconda della parete sulla
quale è appeso, un quadro diventa più o meno visibile, più o meno illuminato,
più o meno significativo. Esso dà un senso nuovo allo spazio in cui è immerso.
Se un boccale diventa portapenne, non cambia solo il modo in cui lo vediamo, ma
tutto ciò che lo circonda (nuovi approcci, nuovi itinerari…). Tornando al
quadro, i nostri automatismi ci inducono ad appenderlo ad altezza d’occhi. Ma
se lo appendiamo a pochi centimetri dal pavimento o dal soffitto, stabiliamo
una relazione nuova con lo spazio parietale e il quadro stesso ci sembra
diverso.
Dopo il catalogo di quanto ha a
disposizione, il regista procede appunto a un nuovo arredo della scena, che
tuttavia non è statico, ma dinamico. Egli mette a confronto il testo con la
scena e stabilisce relazioni tra la parola, gli spazi, gli itinerari, gli
oggetti, gli interpreti, le musiche, attento a non farsi trarre in inganno dal
pensiero convergente che tende a simulare la realtà, a copiarla, invece di
realizzare uno specchio deformante che ne sondi la sostanza sotto le apparenze
e le convenzioni. Motore delle sue scelte è la sintonia tra l’animo aperto alle
scoperte e lo stato catatonico delle cose di scene alle quali dà vita,
evidenziandone le potenzialità espressive. La sua non è quindi una
razionalizzazione (un ordine esteriore e tecnico) degli spazi e dei tempi, ma
una indagine sulle possibili relazioni, dove in ogni relazione ciascuno dei due
elementi acquisisce dall’altro e dona all’altro, per cui l’unità significa due
nuove personalità. Posso parlare di personalità riguardo a un telo? A un cubo
che diventa sedile, tribuna, collina, masso? Sì, proprio di questo si tratta. L’indagine
mira a comprendere la “psicologia” complessa di un oggetto, uno spazio, un
movimento. Tende a eliminarne ogni limitazione espressiva, dandogli la
possibilità di essere ciò che ancora non è stato; e di porsi in relazioni
nuove. Il riordino diventa, quindi, creativo. Vede con occhi nuovi e interviene
nell’ambiente con relazioni nuove, che ne generano altre.
Tutto questo il regista, con la
sua genialità? No, tutto questo come frutto di presa di coscienza di relazioni
che fin dall’inizio si stabiliscono tra il regista e gli attori, tra gli attori
e la scena, tra lo spazio e il tempo. Sono relazioni confuse, come abbiamo
scritto. All’inizio è il caos. Per districarsi nel caos il regista deve
ricorrere a una visione d’insieme che non è automatica, frutto di esperienza o
di talento, ma conquistata passo dopo passo seguendo il filo delle interazioni
spazio-temporali, operando per semplificazione, divergenza, connessione,
sincronia, discordanza e così via. Si cerca, insomma, di mettere in moto un
meccanismo fitto di ingranaggi con l’obiettivo di dare vita a un’unità
espressiva. Ecco quindi che puntare solo sulla recitazione degli attori o sull’estetica
della scena o sulla verosimiglianza o sul messaggio politico o sulla reazione
del pubblico o sulla ricerca della verità storica o sulla rivoluzione
energetica o sul gradimento massmediale o sul razionalismo… costituisce un
limite a un teatro che non ha limiti.
Quando qualcosa funziona, quando qualcosa
prende vita, quando osserviamo la natura, un essere vivente, una relazione tra
viventi… qualcosa risuona dentro di noi, qualcosa che assomiglia al kalos
kai agathos degli antichi greci. L’accordo che si stabilisce tra il nostro
animo e la visione-esperienza è bello e buono, e quindi è giusto. Se il teatro
tende anzitutto a questo, a un’armonia universale rivissuta sulla scena,
qualunque tipo di teatro può essere realizzato. Un teatro che parta dal
riordino della scena e dalla sintonia tra attori e scena può lanciare messaggi
all’umanità, può comunicare esperienze, può divertire, può commuovere, può vincere
premi, può fare cassetta, può piacere anche ai profani. Soprattutto, evita di
annoiare. Quanto teatro inutile e noioso! Quanto teatro narcisista, addirittura
egotico! Il teatro dell’uno-solo è sterile, va abolito anche se osannato dalla
critica e dal pubblico.
Scrive Monica Centanni in “Verso
Atene. Sul finale ateniese di 11 (12) tragedie”, in DIONISO, rivista di studi
sul teatro antico (2012, II): “Vero è che il mito ha una sua valenza aoristica:
per dirla ancora con Aristotele, comunque la poesia, che dal mito trae spunto,
struttura, anima, tratta di fatti che non sono avvenuti una volta
soltanto, ma avvengono sempre, e in questo sta la maggiore serietà e
profondità della scrittura poetica, e la più ampia frequenza, la più efficace
presa ermeneutica, del mito rispetto al registro della storia (Aristotele,
Poetica 1451 a 36-1451 b 5). Ma questo rende paradossalmente i mythoi - che
Platone aveva definito come le fiabe che le balie e le mamme raccontano ai
bambini che il filosofo-governante deve censurare - più seri rispetto ai
fatti meramente accaduti che sono narrabili come historía. Rispetto ai fatti
accaduti una volta soltanto anche la materia mitica contempla storie che si
danno per accadute in un passato più o meno prossimo o remoto, ma sono storie
che non essendo state mai registrate in una forma fissa e in un libro sacro,
sono versatili, disponibili fin dalle origini a declinazioni varie e diverse.”
Nemmeno la natura ha un libro
sacro, ma è disponibile fin dalle origini a declinazioni varie e diverse,
come il teatro. In questa potenzialità senza limiti sta la sua vitalità, non
nella serie di definizioni che si sono succedute nella storia. Il teatro nasce
dal mito e nel mito ha la sua fonte. Come il mito, esso presenta storie
astoriche, la cui vitalità consiste non nel rispecchiare questo presente, ma
tutti i presenti. Il teatro non è cronaca, dato che la cronaca è sempre
disordinata e rinuncia alle relazioni ampie essendo frutto di un unico punto di
vista. Il teatro va dentro e sopra e sotto e a lato della cronaca, rendendola
paradigma universale nel quale gli elementi sono vitalizzati e riordinati in un
sistema biologico, di vita. Il riordino interessa ogni parte e aspetto
della scena, e del testo e del suo significato, andando a investire il caos di
atteggiamenti e ideologie nella mente del curatore. Egli si pone non di fronte
al mondo, ma nel mondo, e cerca una sintonia, un’armonia con le cose viventi
che gli consenta di esprimerle.