Quando incomincio un laboratorio
o una messa in scena, con un nuovo gruppo e un nuovo testo, i primi passi sono
quelli esitanti di un neonato che gattona sul pavimento. L’istinto gli fa
assumere la posizione seduta e dopo il training iniziale lo spinge in su, verso
la posizione eretta. Ma ci vogliono tempo, pazienza, intuizione e intraprendenza.
Per il momento il bimbo sembra muoversi a caso, attratto da ciò che desta la
curiosità, in uno zigzagare insensato, verso cose che non conosce ancora,
lasciando scie di suoni ora gutturali ora tintinnanti o striduli. Spesso
inciampa in se stesso: quattro arti non sono facili da coordinare; e allunga la
mano illudendosi di raggiungere la lontananza sfocata; e se s’impossessa di un
oggetto lo usa in modo improprio, e magari lo rompe; se raggiunge un cassetto
aperto, lo svuota senza motivo. Poi, di colpo, s’immobilizza in una meditazione
senza pensieri, perplesso e confuso da un mondo molto complicato, che gli
sfugge.
Un’agitazione, quella del bimbo,
disordinata e inconcludente. Paragonabile a quella del principiante che si
ritrova sulla scena, magari sotto un riflettore, con qualcuno che lo osserva,
qualcun altro che gli dà istruzioni. Sa che cosa deve fare: assumere una
postura, compiere un movimento, pronunciare una frase. Ma non sa come farlo.
Brancola in un sentimento composito, come un pasticcio con troppi ingredienti:
vertigine, inadeguatezza, imbarazzo, incomprensione, paura. Come qualcuno colto
sul fatto durante un’azione riprovevole e vergognosa. Il mio interprete vive il
momento tragico con intensità diversa, a seconda della sua personalità. C’è addirittura
chi sfodera una teatralità istintiva e accattivante, guadagnandosi gli applausi
dei compagni. Ma anche in questo caso il senso di disordine permane. Non c’è
armonia tra l’interprete che muove i primi passi sulla scena, lo spazio che lo
avvolge e gli dà una consistenza tridimensionale, gli oggetti che lo circondano
e lo invitano a interagire, la musica e la luce nelle quali si muove. Come il
neonato, egli si pone al centro del mondo e le sue aspettative sono che il mondo
si conformi ai suoi bisogni e ai suoi desideri. Non ha esperienza, non ha
conoscenze, non ha rispetto per l’ambiente.
Guardatelo: qualsiasi movimento è
sgraziato, o inquinato da un utilizzo strumentale degli arti; sia nel silenzio
sia nella musica il corpo è una macchina che procede a balzelloni, incapace di
volare e di compiere evoluzioni. Guardate il suo viso, come rimane rigido,
fisso in un’espressione inespressiva. Osservate quanto è goffo nel rapporto con
gli oggetti di scena. Se c’è un sedile, sembra quello di un fastfood, non
quello di uno spazio immaginifico. E con i partner? Non sa dove guardare, rifugge
dall’incontro degli occhi, e se deve toccare qualcuno è come se volesse
aggredirlo. Ascoltatene la voce. Ora un pigolio snervato ora un gridare
inconsulto. E quando la luce lo accarezza e la musica tenta di renderlo
liquido, il nostro principiante è una roccia sorda, che si muove con passi da
troll.
Osservando e ascoltando, si
coglie il senso del fare teatro. Non si tratta solo di una questione tecnica:
impostare la voce, curare la dizione, addomesticare il corpo al movimento
fluido ed espressivo, rendere il viso una maschera mutevole a comando,
trasmettere al pubblico la convinzione delle emozioni… Tutto questo rientra nel
carattere generale del teatro, quello che lo rende tale. Prima ancora che atto
di culto o forma di comunicazione o azione politica o specchio sociale o catarsi
o divertimento… Il teatro è prima di tutto riordino del caos quotidiano, nel
quale ogni bellezza è svilita e la sintonia con il mondo è inquinata dall’utilitarismo
e dal piacere individuale.
Il principiante va preso per mano
e invitato a ripercorrere le strade del passato facendole convergere in una
piazza di pochi metri quadrati, il palcoscenico. Il corpo, la voce, il
movimento, l’energia interiore, l’immaginazione, lo spazio, la musica, la luce,
l’immagine, la danza, la parola… si devono riallineare su un unico spartito,
che è come dire un unico copione. Il teatro è mettere ordine. Dare un senso
estetico al corpo che si muove nello spazio e nel tempo, nella musica e nella
luce, insieme ad altri corpi, armonizzando per accordo o contrasto le voci,
raccontando storie che si ispirano alla necessità illogica dei sogni, dove ogni
cosa è al proprio posto e ha un senso misterioso, che non va indagato, ma
accolto. Tutti gli elementi che costituiscono il teatro devono confluire sulla
tela bianca, e formare un quadro unitario, la cui complessità si scioglie in
una visione semplice. Lo spettacolo di natura è così: ordinato in un ecosistema
nel quale anche gli elementi più diversi e dissonanti si armonizzano nell’obiettivo
comune: mantenerlo vivo.
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