mercoledì 3 dicembre 2014

L'ULTIMA FERMATA

Una storia che non è la storia lineare di un film per la televisione lento e realistico, fotografico e misurato sia nell’estetica sia nell’espressione di sentimenti condivisi e alla fine rassicuranti. L’incontro tra due donne tanto diverse può risolversi in un nulla di fatto, come tutti i giorni avviene nelle nostre strade, alle fermate dei mezzi pubblici, nei centri commerciali. Ma può anche innescare una rivelazione, ed è ciò che avviene ne “L’ultima fermata”.

Mara è una donna clone, identica a milioni di altre donne che nell’omologazione s’illudono di una propria originalità, fondata sulla moda intesa come: è così che si fa. È così che ci si veste, che si trascorre il tempo libero, che si sceglie chi frequentare, che ci si esprime, che ci si atteggia. Una vita scandita dagli altri, tanto più vissuta quanto più è priva di autenticità. Vita di certezze, di giudizi lapidari, di atteggiamenti approvati e livellanti. Vita di soddisfazioni e felicità date per acquisite e inestinguibili. Una vita come premio per millantati meriti. Una vita che prevede la ripartizione della società tra privilegiati predestinati e disgraziati nel cui destino oscuro si celano misteriose e arcane colpe. Una vita, infine, di estrema visibilità conquistata con tenacia e fatica, dai salotti ai social network, dallo shopping ai cellulari.

L’improvvisa scoperta della solitudine apre la porta della disgregazione universale. Tutto crolla, quando Mara si vede riflessa in uno specchio che non è quello deformante dell’edonismo, ma quello della realtà nuda e cruda.
Inciampa in una se stessa inattesa e insospettata: abbandonata dagli amici, messa da parte dal resto del mondo. S’imbatte nell’angoscia, e non ha più punti di riferimento.

Un percorso che la profuga incontrata alla fermata dell’autobus conosce bene. Evento traumatico, dolore insostenibile e disperazione, il prodigio di nuove energie per continuare a vivere, e poi la presa di coscienza di uno stato di invisibilità che funziona sì da anestetico, ma costringe a una vita vegetale.
Per sfuggire a ogni forma di invisibilità (da quella imposta dagli altri a quella che ci costruiamo noi stessi per sfuggire alla desolazione e alla sofferenza) non rimane che mettersi in viaggio.
Le due donne, però, non possono fare affidamento su un autobus che non si ferma, dato che il conducente nemmeno le vede.

Devono lasciarsi alle spalle le sovrastrutture e il passato e avviarsi con l’unica risorsa della solidarietà verso un posto che forse non esiste, in una realtà di egoismi ed emarginazioni. Un posto, tuttavia, che possono inventarsi altrove, sempre altrove. Creato dall’immaginazione e dalla libertà interiore, e da quella tremenda voglia di vivere che rispunta anche dopo il lutto più devastante.


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