giovedì 15 dicembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (dieci)

Saltato un martedì perché influenzato, ho pensato di recuperarlo con chi può al giovedì. Eccoci qua, io e sei solo dei miei attori: Ariel, Francesco, Giorgia, Giulio, Lucia, Valentin. 

Cominciamo con il Coro. Sto cercando immagini e riferimenti (zombie, ubriachi, bruti… e anche animali come l’orso) che facciano breccia nella gestione “beneducata” del corpo e concedano agli interpreti quella libertà di movimento che conduce alla caratterizzazione. Il popolo di Corinto è massa che diventa marmaglia, svelta a giudicare e a passare all’azione che consenta di scaricare le tensioni e le paure. Ma non è facile. I quattro ragazzi del Coro (oggi sono in due) non hanno mai fatto teatro, o se l’hanno fatto era del tipo “soldatino declamante”. Mi accontento di alcuni miglioramenti. Si muovono con maggiore coraggio, perché la conquista dello spazio è più complessa di quella della voce. Le voci, infatti, si scuriscono come voglio; ma la scioltezza è ancora lontana. I problemi sono i soliti: se non m’insegnano dove andare, non mi muovo; se non ho la battuta, che cosa faccio? Siamo ancora più lontani dall’immedesimazione, e nemmeno la cerco. Posture, gesti e movimenti fanno parte di una coreografia che deve legare i miei piccoli attori gli uni agli altri, in un concerto spaziale.

Lavoriamo ancora sul Coro, affrontando i ritmi quando i coristi dialogano con Giasone. Ecco la loro coreografia: prendendo la battuta, ognuno dei quattro si dispone a quadrato intorno all’eroe, avanzando di poco a ogni battuta successiva. Giasone si scalmana a correre dall’uno all’altro cercando il contatto di sguardi, ma la sua motilità viene sempre più compressa dall’avanzare lento dei coristi, che alla fine lo stringono in un cerchio stretto: Giasone è prigioniero del popolo che vorrebbe governare.



Passiamo a Lucia che interpreta la nutrice. Il monologo iniziale. Le fisso un punto sul muro, alto quanto basta per farle tenere dritta la testa: questo cerchio rosso, le dico, sono i bambini morti; e tu entri con gli occhi su di loro. La questione del rapporto con il pubblico non si risolve in quattro e quattr’otto. Solo i quattro mediatori si relazionano con la platea, ma anche gli inesperti finisce che si volgono dalla parte in cui mettiamo gli spettatori. Lucia esegue e per fortuna non si pone troppe domande “logiche”: i bambini morti sono dietro il fondalino bianco (se ne vedranno i piedi); ma io ora li pongo davanti alla sua sinistra, e in alto. Non è un’incongruenza? Certo, tutto deve esserlo; tutto viene rappresentato a livello metaforico e non mimetico. Se non rappresentiamo la realtà così come appare ai sensi, anche le direzioni s’ingarbugliano. I punti cardinali si scambiano di posto, le distanze sono un’astrazione, le direzioni non sono stabili. Era importante dare a Lucia, per il suo ingresso, un punto di riferimento che non le facesse attraversare il palco come un viaggiatore in terra straniera. Ora lo sguardo è definito e il corpo si piega allo sguardo: passo rapido, braccia tenute arretrate, un’energia trattenuta e poi il crollo, appena accennato. Lucia recita bene ed evito, per il momento di farle notare: che si aggiusta la maglia, che si aggiusta i capelli, che il gesto del silenzio non lo rivolge al punto rosso, ma al fantomatico pubblico che abbiamo abolito.


Faccio ripetere la scena a Francesco, mentre anche Giulio prova l’ingresso. Trovo produttivo che ogni tanto si scambino le parti, per mettere alla prova sé stessi in un ruolo diverso. Per concludere, li invito a organizzare un processo a Medea. Ci consente di raccogliere le idee, di sintetizzarle, di farsi un’opinione personale. Ecco il giudice, l’avvocato della difesa e quello dell’accusa, l’imputata e i testimoni. Utilizziamo la terminologia degli sceneggiati televisivi e dei film e ognuno si fa venire in mente le formule processuali. Devo solo dare l’imbeccata (non è un gioco, è recitare anche questo, tu devi convincere giuria e pubblico dell’innocenza della tua assistita e tu invece della sua colpevolezza… ) e i toni si scaldano, le emozioni fioccano.

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