Saltato un martedì perché
influenzato, ho pensato di recuperarlo con chi può al giovedì. Eccoci qua, io e
sei solo dei miei attori: Ariel, Francesco, Giorgia, Giulio, Lucia, Valentin.
Cominciamo
con il Coro. Sto cercando immagini e riferimenti (zombie, ubriachi, bruti… e
anche animali come l’orso) che facciano breccia nella gestione “beneducata” del
corpo e concedano agli interpreti quella libertà di movimento che conduce alla
caratterizzazione. Il popolo di Corinto è massa che diventa marmaglia, svelta a
giudicare e a passare all’azione che consenta di scaricare le tensioni e le
paure. Ma non è facile. I quattro ragazzi del Coro (oggi sono in due) non hanno
mai fatto teatro, o se l’hanno fatto era del tipo “soldatino declamante”. Mi
accontento di alcuni miglioramenti. Si muovono con maggiore coraggio, perché la
conquista dello spazio è più complessa di quella della voce. Le voci, infatti,
si scuriscono come voglio; ma la scioltezza è ancora lontana. I problemi sono i
soliti: se non m’insegnano dove andare, non mi muovo; se non ho la battuta, che
cosa faccio? Siamo ancora più lontani dall’immedesimazione, e nemmeno la cerco.
Posture, gesti e movimenti fanno parte di una coreografia che deve legare i
miei piccoli attori gli uni agli altri, in un concerto spaziale.
Lavoriamo ancora sul Coro, affrontando
i ritmi quando i coristi dialogano con Giasone. Ecco la loro coreografia:
prendendo la battuta, ognuno dei quattro si dispone a quadrato intorno all’eroe,
avanzando di poco a ogni battuta successiva. Giasone si scalmana a correre dall’uno
all’altro cercando il contatto di sguardi, ma la sua motilità viene sempre più
compressa dall’avanzare lento dei coristi, che alla fine lo stringono in un
cerchio stretto: Giasone è prigioniero del popolo che vorrebbe governare.
Passiamo a Lucia che interpreta
la nutrice. Il monologo iniziale. Le fisso un punto sul muro, alto quanto basta
per farle tenere dritta la testa: questo cerchio rosso, le dico, sono i bambini
morti; e tu entri con gli occhi su di loro. La questione del rapporto con il
pubblico non si risolve in quattro e quattr’otto. Solo i quattro mediatori si
relazionano con la platea, ma anche gli inesperti finisce che si volgono dalla
parte in cui mettiamo gli spettatori. Lucia esegue e per fortuna non si pone
troppe domande “logiche”: i bambini morti sono dietro il fondalino bianco (se
ne vedranno i piedi); ma io ora li pongo davanti alla sua sinistra, e in alto.
Non è un’incongruenza? Certo, tutto deve esserlo; tutto viene rappresentato a
livello metaforico e non mimetico. Se non rappresentiamo la realtà così come
appare ai sensi, anche le direzioni s’ingarbugliano. I punti cardinali si
scambiano di posto, le distanze sono un’astrazione, le direzioni non sono
stabili. Era importante dare a Lucia, per il suo ingresso, un punto di
riferimento che non le facesse attraversare il palco come un viaggiatore in
terra straniera. Ora lo sguardo è definito e il corpo si piega allo sguardo:
passo rapido, braccia tenute arretrate, un’energia trattenuta e poi il crollo, appena
accennato. Lucia recita bene ed evito, per il momento di farle notare: che si
aggiusta la maglia, che si aggiusta i capelli, che il gesto del silenzio non lo
rivolge al punto rosso, ma al fantomatico pubblico che abbiamo abolito.
Faccio ripetere la scena a
Francesco, mentre anche Giulio prova l’ingresso. Trovo produttivo che ogni
tanto si scambino le parti, per mettere alla prova sé stessi in un ruolo
diverso. Per concludere, li invito a organizzare un processo a Medea. Ci
consente di raccogliere le idee, di sintetizzarle, di farsi un’opinione
personale. Ecco il giudice, l’avvocato della difesa e quello dell’accusa, l’imputata
e i testimoni. Utilizziamo la terminologia degli sceneggiati televisivi e dei
film e ognuno si fa venire in mente le formule processuali. Devo solo dare l’imbeccata
(non è un gioco, è recitare anche questo, tu devi convincere giuria e pubblico
dell’innocenza della tua assistita e tu invece della sua colpevolezza… ) e i
toni si scaldano, le emozioni fioccano.
Nessun commento:
Posta un commento