mercoledì 30 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (nove)

Ottimo incontro, lavoro intenso. Per il momento, sospesi gli esercizi, si va subito sul testo. Per la fine di gennaio vorrei avere l’opera imbastita e quindi invito i ragazzi a studiare il più possibile. Faccio un video a Giorgia che legge un breve monologo di Medea. Sono soddisfatto, c’è una base su cui lavorare: pause, intonazioni, registri, intensità, velocità… miglioreremo il tutto. Quello che non potrò affrontare è la dizione. I “perché” e i “mè” sono terribili, ma in una trentina di ore (seguo il calendario scolastico, se si fa vacanza il laboratorio è sospeso) devo allestire uno spettacolo di un’ora e un quarto e non mi posso permettere alcun lusso. Tale, purtroppo, per me, è l’accentazione corretta, dato che do la precedenza all’espressività, al movimento e alla gestualità.

Dall’inizio, le prime quattro pagine su sedici. Medea sale sul palcoscenico dalla platea. Suggerisco a Giorgia di farsi un’idea mentale di strega non disneyana, ma sovrumana, altera e potente, che genera inquietudine e soggezione. Ripete di nomi dei figli e vediamo diverse variazioni di voce. È un richiamo terrificante, dato che li spinge verso la morte. I bambini (che in realtà sono due femmine, Lucrezia e Viola, le più piccole del gruppo, quarta e quinta elementare) tengono le distanze, mormorano frasi di diffidenza e ansia. L’attore non è solo artista di voce, ma di corpo, e soprattutto di corpo-mente-cuore. Le ragazze non hanno mai fatto teatro e incontrano difficoltà nel capire come muoversi, come spostarsi, dove guardare, che gesti fare, che cosa dire improvvisando… Il passo di un dilettante non è mai uguale a quello di un attore, l’occupazione dello spazio è diversa, la gestione del corpo diversa. Come risolvere la questione di dare un’apparenza attoriale a chi non ha mai frequentato un corso di teatro? Uscendo dal mimetismo. Cercando nell’immaginazione un supporto accettabile (Lucrezia e Viola non riusciranno mai a identificarsi in due bambini che stanno per essere uccisi dalla madre). Animali, sport, vegetazione… tutto può essere utile per fornire alla mente un’immagine a cui appigliarsi. Emozioni non dirette (l’infanticidio), ma trasversali e facenti parte dell’esperienza quotidiana (come suggerisce Stanislavskji).

Raggiungono il palcoscenico. Medea si accovaccia dietro la scaletta sulla quale è steso un telo rosso la cui coda attraversa la scena; i bambini si stendono dietro il fondalino bianco, lasciando emergere solo i piedi. Entra la nutrice e Lucia la rende espressiva con un tono di voce teso, angosciato. Definiamo l’uso dello spazio. Ecco i mediatori: recitando, sistemano l’ampio telo bianco che delimita lo spazio a disposizione degli interpreti definendo così la scena. I mediatori se la cavano molto bene nel loro rapporto con il pubblico, forti anche dell’esperienza dell’anno scorso; e Francesco, arrivato quest’anno, è sicuro di sé ed espressivo come se il teatro ce l’avesse nel sangue.


Il coro è ancora informe. Voglio farne un’accozzaglia di individui rancorosi e reattivi, una marmaglia cupa sempre pronta a violenze di ogni genere. Francesco (l’altro) canta con sicurezza, e quindi riprendendo la forma di recitativo e canto della tragedia greca invito anche i tre compagni a cantare le loro battute: dal rifiuto iniziale si passa a “ci provo” e poi tutti cantano con esiti diversi. Le loro azioni sono scandite dai ritmi dei quattro tamburi dei mediatori e assistiamo alla rissa di strada e all’incendio del palazzo reale, una specie di balletto con il telo rosso che vola alto leggero, una danza frenetica saltellata suggerita da Francesco, quasi un sirtaki greco su una musica mediorientale.

Per concludere, il primo monologo di Creonte che racconta la morte propria e della figlia. Luca agisce con prontezza, la voce è credibile. Angelica dopo le prime perplessità si lascia andare di più e i movimenti atroci di fronte allo specchio cominciano a delinearsi. Un applauso a tutti.

Arrivano i genitori e parliamo per una mezz’opera dei costumi. A martedì!

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