In arrivo a marzo 2018. Da Einaudi Ragazzi e Coccole Books.
giovedì 21 dicembre 2017
venerdì 10 novembre 2017
LA MEDEA, immagini
Teatro Civico di Oleggio, giovedì 4 maggio 2017. LA MEDEA, testo e regia di Aquilino. Con Luca Andrico, Ariel Apollo, Lucrezia Balbo, Viola Beghelli, Lucia Cavazza, Valentin Ciocoi, Francesco Divisoli, Matteo Fanchini, Giulio Gallarate, Raffaele Giannantonio, Alice Iorio, Giorgia Picaro, Angelica Roman, Francesco Schirò. Foto di Laura De Paoli.
mercoledì 8 novembre 2017
IL VALORE EDUCATIVO DEL TEATRO
Sono ormai parecchi anni che l’I.C. Verjus di Oleggio mi ha messo
a disposizione un’aula per proporre un laboratorio di teatro agli alunni dalla
classe Quarta Elementare alla Terza Media. Mi propongo di fare un consuntivo.
Durante i primi anni ci siamo dedicati alla Commedia dell’Arte.
Abbiamo messo in scena “L’Arlechin fantasimo”, “L’Arlechin ladro e ladron”, “L’Arlechin che copa i gati”. La formula ha
avuto successo, ma la carica espressiva si è esaurita per diversi motivi: l’impegno
eccessivo per le scenografie e i costumi; l’impossibilità (per la mancanza di specialisti,
per la durata del laboratorio e per lo spazio ridotto) di fornire ai ragazzi
una preparazione attoriale adeguata; la ripetitività. Abbiamo allora portato in
scena “L’angelo dei morti”, un’opera di gusto contemporaneo. A questo punto,
bisognava fare i conti con l’età degli allievi (cresciuti e in procinto di
navigare verso altri interessi) e con la mia mancanza di motivazione. Avevo
bisogno di una formula nuova.
Dalla Commedia alla tragedia greca. In quegli anni è cresciuta in
me la passione per la Grecia micenea e classica. Mi sono messo a scrivere saggi
e un romanzo su Eracle. Ho scritto anche una decina di opere teatrali ispirate
alla formula della tragedia. Per due anni le ho mandate al concorso del Cendic
(Centro drammaturgia italiana contemporanea) e sono arrivate in finale, quindi
sono state apprezzate. Mentre elaboravo la nuova formula, proponevo il
laboratorio in una nuova veste, presentando “Cappuccetto Lupo” e “Donne che
fanno scena”, un collage di scene da Shakespeare in poi ridotte per i ragazzi.
Ma ormai il cambiamento era alle porte. Il timore era che ai ragazzi (così
giovani!) non piacesse mettere in scena personaggi mitici al di fuori della
loro esperienza; e che il pubblico non gradisse il tragico, abituato
alla superficialità e alla giocosità dei media. Ecco quindi “Le Baccanti”,
seguite da “La Medea” e ora da “Le donne di Ilio”. È andato tutto bene. I
ragazzi sono più che contenti di interpretare eroi, dei e figure tragiche. Il
pubblico ha accolto con favore qualcosa di diverso.
Tornando allo scopo di questo breve scritto: a che cosa è servito
il teatro ai ragazzi? Vediamo di capirlo.
RELAZIONI CON GLI ALTRI. I due gruppi che gestisco comprendono allievi di età diverse, dai 9 ai 12. Questo costituisce uno stimolo e un’attrattiva. Ho visto ragazzini vittime di bulli o ragazzine solitarie farsi sempre più sicuri, superando l’immagine svalutante di sé che si erano costruiti. Il teatro costringe a scambi di sguardi, a contatti fisici, a stabilire intimità virtuali con i partner, ad affrontare insomma la presenza fisica e psichica dell’altro. Per sostenere tutto questo, è necessario passo dopo passo rinforzare la propria struttura comunicativa, superando timidezza, facile emotività, inibizione.
RELAZIONI CON SÉ STESSI. Il ragazzo poco sa del mondo, meno ancora
di sé. Reduce da assidui allenamenti atletici, facendo teatro si rende conto di
non avere il controllo del corpo, nonostante i gol effettuati. Risulta goffo e
insicuro. E, come gli altri, per quanto sia espansivo e addirittura petulante,
fatica a esprimere con le parole emozioni e sentimenti. Scopre di sentirsi
inerme di fronte a un pubblico. Si rende conto che non ha mai preso in
considerazione l’occupazione sicura dello spazio. Si ritrova una voce piatta e
monotona. Si vede impacciato e insicuro. Ma il teatro, dopo avere svelato i
punti deboli, attiva immediatamente la terapia. Con emozione, frustrazione e
timore di non essere all’altezza, dà una mano a rendere più salde e stabili le
strutture dell’Io. L’allievo si confronta con gli altri, si confronta con il
pubblico, ma soprattutto con sé stesso. Ci sono quelli ai quali non interessa
il cambiamento e la crescita, ma la maggioranza trae sicuramente benefici dall’attività
scenica.
RELAZIONI CON LA SCENA. La scena, per l’attore, è il mondo. Niente
esiste al di là. Sulla scena nasce e muore la vicenda rappresentata, tutte le
parole recitate sono lì. L’attore, per darle un significato, deve operare una
sintesi fra presenza fisica e interpretazione. Egli è: sé stesso, la propria
dissociazione (l’Io che usa il Sé), un altro da Sé stesso e cioè il
personaggio, il ruolo. La complessità dell’arte attoriale obbliga a uscire da
sé, per rientrarvi arricchiti da un’esperienza quasi extrasensoriale, dato che
si svolge nel mondo dell’immaginazione. Non mi aspetto tanto dai miei allievi.
Che cioè sappiano dare corpo all’immaginazione vivendo la scena come se fosse…
e agendo come se essi fossero diventati… Ma la dinamica rimane potente e
coinvolge il ragazzo in un gioco più alto di quello infantile del “facciamo
finta che io sono…”, perché ora è consapevole e coinvolge la tecnica
espressiva. La parte più difficile non è in un duello di lance o di spade,
immaginando di essere eroi micenei. Ma quella di sentire in sé il dolore per la
perdita di qualcuno o la disperazione della madre che vede uccidere il figlio.
Tutto è finto, intorno all’attore, ma il teatro lo invita a rendere vere le
emozioni. Come si fa a rendere il dolore? la disperazione? l’odio? l’amore?...
Come si fa con la voce e con lo sguardo, con la mimica facciale e con il
movimento del corpo? Nella vita quotidiana si ride molto, ma spesso le altre
emozioni sono una maschera neutra. Il teatro invece le fa parlare.
RELAZIONI CON IL TESTO. Non ho voluto ridurre il testo delle
tragedie a uso di ragazzi illetterati (ho visto pubblicazioni con riduzioni di
Euripide in slang teen-comedy che ho giudicato oltraggiose, non solo per
Euripide ma anche per i ragazzi). I ragazzi sono intelligenti e quello che non
capiscono se lo fanno spiegare. Non voglio trattarli da bambini limitati. Il
primo scoglio è quindi la comprensione, ma lo si supera in fretta: lessico,
riferimenti storici e mitologici… Poi viene il rapporto
denotazione-connotazione. Una frase sembra semplice, ma può nascondere
significati più profondi da indagare. Quindi l’intenzionalità: quali sono i
reali sentimenti del personaggio? E così via. Vengono poi le implicazioni
ritmiche. Inserisco molte parti corali in metrica e rima o anche a verso
libero. Parti traumatiche, quando propongo di cantarle. Finora sono pochissimi
quelli che osano cantare senza musica e senza melodia, inventandosele. E la declamazione
ritmica, scandita? Sono restii, non fa parte della loro cultura. In seguito,
però, ci prendono gusto.
RELAZIONI CON IL CORPO. Ahi ahi. Come ho già detto, non basta una disciplina
sportiva o un’esperienza nel campo della danza per fare l’attore. Una brava
ballerina può incontrare difficoltà a muoversi con scioltezza sulla scena. E un
calciatore è come un elefante in una scatola. Lavoro bene con i bambini, ma con
l’adolescenza il corpo è un conflitto continuo. Il corpo libero sul
palcoscenico è un corpo esibito in tutta la sua fragilità. Ne emergono i limiti
funzionali ed estetici e l’adolescente è restio ad affrontare il pubblico. Stia
tranquillo, il teatro gli insegna come fare. Il proprio corpo in vetrina deve
non solo affrontare gli sguardi del pubblico, ma sostenere il rapporto con
altri corpi. Quante volte mi sono sentito dire: io non lo guardo, io non lo
tocco. Ora i miei allievi osano fissarsi negli occhi con l’intensità voluta, ma
per molti di loro c’è voluto un percorso. Ora affrontano coreografie di corpi
in movimento, ma hanno dovuto accettare la novità di un corpo scomposto e superare
il timore di coinvolgimenti fraintesi. Il teatro spinge verso l’innocenza dei
rapporti e quindi verso una comunicazione più libera e più facile.
RELAZIONI CON IL REGISTA. Lavorare con i ragazzi mi costringe a
ricoprire più ruoli: drammaturgo, regista, scenografo, costumista… Chiamo
magari un esperto. Quest’anno una coreografa, ma solo per tre interventi. I
laboratori sono gratuiti, ai genitori chiedo una quota per le spese. A pochi
interessa lavorare con i ragazzi, se non c’è scopo di lucro. Chi fa teatro
amatoriale lo fa per esibirsi o per divertirsi con i coetanei. Quindi di solito
mi ritrovo da solo. Ma che cosa rappresento io per gli allievi? Mi danno del
tu, mi chiamano per nome, ma ogni tanto rispunta un prof. Il perché è
presto detto. Sono loro amico, ma non nel senso di amicone. Il nostro rapporto,
d’altronde, si limita all’incontro settimanale. Io sono anche l’autorità e
questo deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che il teatro è impegno,
serietà, responsabilità, puntualità, ordine, correttezza… Non è facile ottenere
tutto questo da ragazzini che vogliono, anche, divertirsi. Non è facile
preservare la loro spontaneità e richiedere al contempo disciplina assoluta.
Non voglio un laboratorio con manichini ambiziosi che obbediscono a bacchetta
pur di primeggiare. Il nostro è un laboratorio alla buona, in cui ci si riesce
anche a divertire (in chiusura, giochi sempre a sfondo teatrale ed esibizioni).
Si lavora sodo. I ragazzi imparano a collaborare e a impegnarsi non solo per sé
ma anche per gli altri. Hanno imparato che il teatro non è fare gli stupidi su
un palcoscenico, ma è una fatica dura che, per noi, ripaga solo per un’unica
serata.
Ma non è tanto l’esito della rappresentazione (sempre di
successo), quando l’itinerario attraverso la memorizzazione (da farsi in
estate), il superamento degli ostacoli emotivi e dei limiti individuali, lo
stabilirsi di relazioni nuove con gli altri e con l’ambiente, la scoperta delle
proprie potenzialità, l’attivazione dell’immaginazione, il ricorso a nuove
abilità fisiche e foniche, l’approfondimento di temi importanti e adulti,
la misura di sé nella cooperazione, il miglioramento del carattere… E tutto questo
e altro ancora è teatro.
lunedì 6 novembre 2017
LA SCRITTURA È UN'ALTRA VITA
Quando domandate a uno scrittore,
soprattutto se debuttante o fortunosamente baciato dalla fortuna fin dalla sua
prima pubblicazione: “Che cos’è la scrittura per te?”… facile che vi risponda: “È
la mia vita.” E i più facondi aggiungono: è tutto, senza scrivere non potrei
vivere, la vita non avrebbe senso. E altre amenità simili.
Alla stessa domanda quanti danno
la medesima risposta? Prendiamo in considerazione solo quelli animati da una
forte passione. La lista è lunga: l’imprenditore, l’insegnante, l’infermiera,
il politico, il pittore, la ballerina, il cantante… Potete fare le vostre
aggiunte.
La scrittura, come senso della
vita, non si differenzia dall’erigere palazzi o dal presenziare a riunioni di
partito o dal partecipare a festival canori.
Ognuno di questi protagonisti
cerca con affanno una distinzione che confermi la sua scelta “di vita”. Proprio
come andare alla ricerca di un blasone. Nella vita di tutti i giorni scrivere non
contempla solo un’inventiva esasperata e aristocratica, ma anche una documentazione
prosastica, un logorio mentale da travet, una commercializzazione della
genialità mediante contatti a volte conflittuali con le case editrici, incontri
con i lettori a volte frustranti, stesura di sinossi e presentazioni da
bandella, rancori con il fisco… La scrittura è costruita non solo con la
digitazione alla tastiera, ma con una serie di attività che richiedono
pazienza, sopportazione, costanza… in netta contrapposizione con la purezza
dell’atto creativo.
Se la scrittura si identificasse
davvero con la vita, quanti momenti “plebei” presenterebbe!
Quando gli scrittori si confessano
al pubblico ristretto delle presentazioni in biblioteca, raccontano di sé cose
accattivanti e tacciono le miserie che farebbero della letteratura un emporio
di cose fuori moda.
Molti nascondono l’ambizione,
offrendo di sé un’immagine sofferta di missionari della parola. Altri la
manifestano in modo sfacciato, perché l’ambizione è il viagra delle persone con
attributi e senso di responsabilità verso sé stessi.
Se l’editore adotta una strategia on
demand (stampa solo su ordinazione), oppure richiede l’acquisto di una
cinquantina di copie, è meglio non farlo sapere. Se il testo (in origine
piuttosto acciaccato), è stato risanato dall’intervento massiccio di un editor,
non lo si dice. Se il libro è frutto di un’intesa redazionale che insegue la
moda del momento, lo si taccia.
La pubblicazione dà per certa l’assunzione
dello status di scrittore. Come chi spiaccica colori su una tela si
autodefinisce pittore. Come chi viene sbattuto su un palcoscenico per mancanza
di altre opzioni si sente subito attore.
L’apprendimento di un’arte
appartiene al passato. Ora si è quello che si vuole diventare. E alla risposta:
che cos’è per te…? il soggetto risponde spavaldo: la mia vita!
C’è un altro tipo di scrittore.
Quello vero.
Sì, sì, anche per lui la scrittura
è tutta la vita… per quanto nella vita ci siano altre cose desiderabili, forse.
In realtà, se la scrittura fosse la sua vita, dovrebbe mettere in conto l’ambizione
sfrenata, la frequentazione dei salotti letterari, la partecipazione ai premi
letterari, la frenesia di una apparizione televisiva, e infine il delirio di un
best-seller.
Ma per questo scrittore l’arte
della prosa e della poesia non è vita, è non vita.
Si rende conto che i medesimi
processi politici e sociali che hanno portato alla divisione in classi, all’inquinamento,
alla guerra, alla sottomissione delle masse… sono presenti nell’ambiente
artistico.
D’altronde, il comportamento umano
non cambia nemmeno di fronte a un quadro di Leonardo. È sempre predatorio e opportunista.
Oltre che bugiardo.
Questo scrittore scrive per insoddisfazione.
È deluso dalla vita, ne cerca un’altra. Non può fare l’astronauta e andarsene
su Marte. Non può entrare in chiesa in cerca di consolazione, non crede in dio.
Non può accontentarsi dei premi, li danno a cani e porci. Non gli interessa
diventare famoso, si troverebbe in cattiva compagnia. Non vuole nemmeno
diventare molto ricco, i soldi sono un peso. E la fama eterna? Sì, quella ha un
certo senso, perché rappresenta comunque una fuga dalla realtà. Ama pensare che
i propri lettori non siano qui e ora, ma altrove e nel futuro.
Se la vita attuale non dà
soddisfazioni, perché non immaginarne un’altra?
Ecco che cosa fa questo scrittore.
Non fugge da sé stesso. La nuova vita è solo una modalità virtuale di manovrare
persone e fatti, di manipolare i luoghi e il tempo, di inventare l’impossibile,
di specchiarsi nell’irrazionale, di diventare un dio che racconta la propria
creazione.
Tutto qui il senso della sua scrittura.
Giocare a fare dio non è scevro da
pericoli.
Pagina dopo pagina, la vita perde
sempre più le sue attrattive. Si avvia verso un autunno privo di colori, e un
inverno di suicidi.
La scrittura è l’unico rifugio di
un’anima malata. Sempre più incapace di relazioni. Che non comprende il fascino
del viaggio, perché ogni luogo è nella mente. Non apprezza un’opera d’arte se
non quella che ha eletto a alter-ego. Non valuta più di tanto la sensibilità altrui,
perché trabocca della propria. Addirittura, prova fastidio se il discorso
naviga verso le isole delle sue opere presenti e future: sono isole di un altro
oceano, che non risulta sul mappamondo.
Non gli interessano gli interventi
critici e nemmeno gli apprezzamenti e tantomeno le stroncature: l’unico
giudizio valido è il suo.
Ma non dà nemmeno giudizi. Scrive
e prima ancora di finire un’opera rimescola nella mente e nel cuore gli
ingredienti per la prossima.
Il suo compito non è soffermarsi
su un mondo che ha creato, ma produrne altri, senza sosta. In questo caso sì
che si può dire che ogni pagina è un respiro e che la scrittura è la sua vita.
Ma non questa. Un’altra.
Nella quale nemmeno i lettori
possono entrare.
venerdì 3 novembre 2017
LABORATORIO DI SCRITTURA IN QUINTA ELEMENTARE: RODARI
Il progetto di "Il Mangialibri" prevede che mi rechi nelle scuole per laboratori di scrittura sia di prosa sia di poesia, a scelta dei docenti. Nelle due Quinte della scuola Rodari di OIeggio, con la maestra Elisabetta Rampazzo, affrontiamo la prosa.
Propongo la stesura di un incipit e come faccio spesso porto io qualche esempio. Parlo quindi del punto di vista, della questione del narratore. Leggo i tre esempi di incipit di una storia semplice: il/la protagonista vede atterrare un Ufo. Poi espongo la problematica del livello di scrittura: cronaca giornalistica, esposizione documentaristica, narrazione oggettiva, drammatica... Il livello più profondo e complesso è quello che ricorre a tutta la potenzialità della lingua, saccheggiando quindi anche le risorse della forma poetica. Invito i ragazzi a scegliere a seconda della propria competenza linguistica: un incipit più facile di una storia di avventura o uno più difficile di un doloroso episodio di bullismo?
Li assisto durante l'elaborazione, convertendo in patrimonio comune le osservazioni al singolo. Leggo poi gli scritti continuando con le osservazioni, che di solito vertono su:
- coerenza dei tempi verbali
- punteggiatura, soprattutto l'uso del punto
- verifica logica del succedersi degli avvenimenti (le procedure)
- ottimizzazione ed efficacia del discorso diretto
- la partecipazione emotiva
- la credibilità da parte del lettore
- il "respiro" del periodo
- quale tempo verbale scegliere (l'immediatezza del presente)
- d eufonica, accenti e apostrofi, maiuscole, l'uso della acca... eccetera.
Il tempo è poco, ma è sufficiente per indurli a riflettere su elementi importanti. E i ragazzi lavorano con attenzione, interesse e intensità.
Ecco i miei incipit che servono da guida.
TRE PUNTI DI VISTA
Giulio non aveva sonno. Se ne
stava alla finestra della propria camera e osservava il cielo. Era stata una
giornata intensa ed emozionante. Con la classe era andato a Torino a visitare
il Mufant, il Museo del Fantastico e della Fantascienza. Non era grande, ma
c’erano delle cose… Le sale più interessanti erano quelle di Star Wars e Star
Trek. Contenevano modellini, manichini con i costumi originali, disegni e
gadget di tutti i tipi. Quante cose avrebbe voluto portarsi a casa! Il piacere
del ricordo fu interrotto da una strana scia luminosa nel cielo. Una stella
cadente? Così luminosa? Ma… dove andava a cadere? Nel campo proprio dietro casa
sua? E se invece di una stella fosse stata…? Emozionato e anche spaventato
corse fuori, senza nemmeno pensare di svegliare i genitori.
Troppo stanco per dormire. Sono
ancora eccitato! Me ne sto qui alla finestra a guardare il cielo. Star Wars e Star Trek! Mel
museo c’erano cose spettacolari. Si chiama Mufant, è a Torino. Ci siamo andati
in pullman, abbiamo cantato e fatto un po’ gli stupidi. Continuo a pensare ai
modellini, ai costumi… ehi, quello che cos’è? Una stella cadente? O un
satellite artificiale in avaria? Sta precipitando proprio qui dietro! Magari è
un meteorite d’oro! Sveglio la mamma e il papà? Se non è niente me ne dicono di
tutti i colori. Prima vado a vedere.
Sto precipitando sul pianeta
sconosciuto. Ci sarà vita? Ho lasciato appena in tempo la navicella di
esplorazione. Appena espulsa la mia capsula, è esplosa. Appena atterro lancio
un segnale radio. Se la capsula non si disintegra. Se non mi disintegro
anch’io. Sto captando qualcosa. Una forma di vita pensante. Attiverò il
traduttore linguistico. Per ora ricevo solo le immagini mentali. Astronavi,
tute spaziali… L’essere si è accorto di me. Lo sento spaventato ed emozionato
allo stesso tempo. Spero che non sia pericoloso. Spero che sia pacifico. Non
vorrei doverlo disintegrare.
TRE
STILI DI SCRITTURA: classico, drammatico, poetico
Quando ripenso a quello
che mi è successo, mi sento molto triste. Anzitutto, perché ho l’impressione di
essere stato abbandonato da tutti. Nessuno mi ha difeso. Poi, perché mi sembra
che nessuno mi capisca. Non soffro per l’occhio nero, ma per l’umiliazione. Mi
sono sentito una nullità. Trattato come se non fossi una persona, ma una cosa
da prendere a calci. Infine, ora diffido di tutti. Anche se non vogliono farmi
del male, penso che agli altri di me non importa proprio nulla. Sono solo e ho
paura. Non voglio più andare a scuola. Non voglio nemmeno uscire di casa.
In tre, circondato. Non
dimenticherò mai le loro facce. Come certi incubi che ritornano. Musi, non
facce. Musi cattivi. Prima le parole. È capitato anche a me di provare rabbia o
odio e di insultare, ma… Loro usano parole che nessuno dovrebbe usare. Mai. Me
le scaricano addosso come se mi ricoprissero di spazzatura. Poi gli spintoni,
le sberle, i pugni, i calci… E intorno a me… ridevano. O scappavano per non
andarci di mezzo. Mi hanno abbandonato. Ora ho vergogna. Penso che tutti
parlano di me. Dicono: si è lasciato picchiare. No, grido alla mamma, a scuola
non ci torno! Non esco nemmeno di casa. Loro sono là che mi aspettano. E io… ho
paura.
Di colpo buio. Solo le
ombre. Ma ombre di che cosa? Di parole dure. E io dicevo: devo andare… per
favore… Voci di pietra. Spinto qua, spinto là… Ho pensato: mi viene la nausea,
adesso vomito. E poi la prima pietra mi ha colpito. Una parola o un pugno?
Male, qui, sul petto. Mi sono piegato. Sono caduto? No, no, volevo scappare.
Ah, dove? Cado sulle ginocchia. Ci sono cocci di vetro, per terra. Ci metto
sopra le mani. Grido. Male dentro, un chiodo mi trafigge la lingua. Gemo. Supplico?
Non so niente. Non capisco niente. Mi raggomitolo. E loro picchiano.
Ecco alcune righe dei loro elaborati.
Sono
molto preoccupata per il mio bambino Giulio. Ha un occhio nero. Giulio dice che
è stato un alieno. Secondo me ha giocato troppo con il pupazzo di Alien ed è
caduto giù dal letto.
(Thomas)
Prima
le parole. Graffianti come artigli affilati, gli orsi aspettano il momento
giusto per attaccare. Dopodiché affondano i denti nella mia carne. I miei
compagni… I miei compagni scappano come volpi tra le sterpaglie. Sono solo.
(Viola)
Un
bambino di nome Andrea felice come tutti gli altri. Una sera stava andando in
bagno. A un certo punto vide una persona tutta vestita di nero. Era un ladro.
(Daniel)
Continuo
a pensare a quei momenti. Tutti mi prendono in giro. Mi sento escluso. Nessuno
mi aiuta. Mi sento debole. Non mi fido più di nessuno. Andiamo tutti da Andrea
a prenderlo in giro! Ehi, tu! Sei un imbecille!
(Samuele)
Corse
alla finestra con gli occhi appannati e vide qualcosa di rosso, rosso fuoco.
Corse fuori. “Ehi!” urlò. C’era un alieno. Era coperto da un mantello, sembrava
carino e coccoloso. “Ti terrò qui, ti proteggerò, sei solo un cucciolo!”
(Vanessa)
Un
giorno come tutti gli altri. Era sera. Vidi alla finestra un uomo che mi
fissava. Era vicino a casa mia. Ero terrorizzato. Aveva gli occhi inquietanti.
(Matteo)
Era
una notte piena di felicità, per Luigi. Stava scrivendo sul diario la giornata
che aveva trascorso al museo Mufant. Ma a un certo punto sentì un rumore. Corse
alla finestra, vide un arcobaleno invaso da una polvere nera.
(Lorenzo)
Cinque
ragazzi bulli ritornarono dopo la mensa e gridarono: “Ehi, idiota, vieni qua.”
Marco fu picchiato, spinto e maltrattato.
(Vanessa)
Oggi
siamo andati a Milano per il mio compleanno. Siamo stati al museo dei
dinosauri. A un certo punto ho visto una cosa che si muoveva in mezzo alla
stanza. Uno scheletro di T-rex!
(Valentina)
Mi
sento a terra. Calciato come un pallone. Trafitto da una spada. Loro ridono e
gli altri scappano. Nessuno mi aiuta. Pugni uguali a sassi. Manate come
frustate. Il pavimento fatto di chiodi mi trafigge.
(Nicolò)
Oamai
la celula si sta per disinestare. E il tratutore si sta per scaicare… Che
sfortuna la capsula di esplorazione e esplosa appena lo inviata.
(Rocco)
Era
un giorno di scuola come tutti gli altri. Il bullismo era tornato, lui era
tornato. Perché me? Io non faccio niente di male nella vita: studio, prendo bei
voti… ma niente!
(Alessandra)
Oggi
io e la mia classe siamo andati al Mufant. È stato fantastico! E mentre stavamo
tornando a scuola, dal finestrino dell’autobus ho visto qualcosa di infuocato
cadere dal cielo. Forse… un Ufo!
(Alberto)
Nicolò
era ancora sveglio. Era felice di essere andato al Museo Egizio. Tutte quelle
sale sui faraoni, sulle piramidi, sulle costruzioni…
(Mattia)
sabato 21 ottobre 2017
MESSA IN SCENA DI "TRE DONNE E UN LUPO"
Quest’anno ho due laboratori di teatro. Che
cosa propongo per il secondo? Devo andare in scena ai primi di marzo 2018, una
cosa breve. Mi torna voglia di Cappuccetto Rosso. L’ho già allestito anni fa
per la scuola materna, tutto messo in metrica e rima, con il bosco animato e un
lupo che viene curato dal dottore. Poi nel 2014 ho fatto un “Cappuccetto Lupo”
ambientalista, con i veri cattivi uccisori di animali selvatici e distruttori
di foreste. Ora voglio qualcosa di più profondo. Ricerche in internet e due
libri mi aprono nuovi scenari. “Bambine nel bosco” di Susanna Borsotti e
soprattutto “L’ago e la spilla” di Yvonne Verdier.
La fiaba si sposta nel campo delle
fabulazioni popolari. Non tratta più dell’incontro tra una bambina e un lupo,
ma delle dinamiche familiari intergenerazionali. Ecco il titolo, tre donne e un
lupo. La mamma comanda la bambina, che però sta crescendo e si appresta a
diventare a sua volta mamma. A questo punto, la mamma deve prendere il posto
della nonna, che deve quindi scomparire. È la ruota della vita: i vecchi devono
farsi da parte (anche non volontariamente: ci pensa la morte) e i giovani si
assumono le responsabilità della conduzione di un gruppo (familiare o sociale).
Il lupo, di conseguenza, rappresenta la
morte e quello che fa lo fa secondo natura, come si narra in uno dei racconti:
il lupo fa la sua parte come è tenuto a fare.
Chi sfugge alla morte e alle insidie della
vita? La bambina, che è astuta (con buona pace di Perrault che voleva mettere
in guardia le fanciulle ingenue o imprudenti).
Le storie della tradizione orale raccolte
alla fine del secolo XIX in Francia e nel Tirolo fanno riferimento alla
trasmissione sapienziale. Il lupo domanda: prendi il sentiero degli aghi o
degli spilli? Verdier ci informa che a quindici anni le ragazze erano mandate
per un inverno da una sarta che insegnava non solo a cucire, ma a comportarsi
da donne adulte. Spilli e aghi, inoltre, richiamano l’idea di sangue. In questo
caso di sangue mestruale: la bambina deve affrontare un percorso di iniziazione.
L’incontro con il lupo e le vicende successive sono quindi un rito di
passaggio: dall’infanzia all’età adulta.
La trama si fa più complessa, rispetto alle
fiabe conosciute da tutti. Per non parlare della banalizzazione dell’industria
Disney che sforna stereotipi uno dopo l’altro.
Il lupo mangia la nonna, ma ne raccoglie il
sangue in una bottiglia e ne tiene da parte pezzi di carne. Offre il “vino”
alla bambina e le serve la carne cotta. Il cannibalismo di Cappuccetto Rosso rientra
in questo quadro di iniziazione: solo
divorando la nonna può assumere il ruolo di madre.
Seguono poi implicazioni sessuali che nelle
fiabe best-seller non compaiono. Il lupo-nonna comanda alla bambina di
spogliarsi e di entrare nel letto. La bambina, tuttavia, sembra intuire che
cosa l’aspetta e con furbizia evita la violenza. Chiede e ottiene di assentarsi
per un bisognino. Si cala giù nella stalla… e qui ci sono diverse versioni.
Scappa inseguita dal lupo, ma le lavandaie del fiume Giordano aiutano lei e
affogano il lupo: dopo l’avvenuta iniziazione, la bambina è riaccolta in
società.
Una società tutta di donne che con i
racconti antichi trasmettono i valori.
Il lupo, con un taglio psicanalitico,
rappresenta certo il maschio forte e prevaricatore che può essere controllato
con l’astuzia. L’altro maschio, il cacciatore, è un’aggiunta dei fratelli
Grimm, effettuata per onorare i criteri moralistici e ottimistici dell’era
Vittoriana.
Bisogna tenere conto anche di una fiaba
italiana di origine abruzzese, “La finta nonna”. La trovate nella raccolta di
Italo Calvino. Qui, oltre al fiume Giordano, c’è la Porta Rastrello. Invece del
lupo c’è un’Orca. Per la precisione, un’Orca pelosa.
Insomma, Cappuccetto Rosso affronta e
supera una prova importante che le consente di crescere. Verdier si chiede, a
un certo punto, se non sia lei il vero mostro della storia, dato che anche lei
divora la nonna.
Ma che cosa rappresenta il lupo? La natura
selvaggia e pericolosa? L’inconscio freudiano? Tutto ciò che si pone al di
fuori della società? Il maschio predatore?...
Innumerevoli possono essere le risposte.
Eccoci dunque qua: otto attrici dai nove
agli undici anni e due attori di undici. Si fa per dire. Attori da costruire.
Sono debuttanti. Non c’è un copione. Scrivo una cartella di battute per dare il
via alla storia. Il lupo fa entrare le bambine. Disordinate e scatenate,
vengono fermate e invitate a rientrare: il maschio che limita e disciplina
l’energia femminile. Il lupo si presenta: “Io sono il capofamiglia. Il
presidente. Il dirigente. Io sono l’uomo. Il maschio. Io sono il lupo. Il
mostro. E voi siete spaventate.”
Non ottiene però l’effetto desiderato. Le
ragazze non intendono sottomettersi al suo potere. Le risposte sono spiazzanti:
“Uh, come siamo spaventate… Quando si fa l’intervallo?... Scusa, Lupo, dov’è il
bagno?... Ragazze, sarà pure un presidente, ma non sa organizzare.” E così via.
Il lupo entra in crisi. Soprattutto quando
le bambine gli annunciano la sua fine: “Cacciatore, fucile, mira, grilletto,
pum! Tu morto.”
Esasperato, le insulta: “Stupide bambine
fuori di testa!”
Ma le risposte sono una rivendicazione di
dignità e di forza: “Non siamo stupide bambine… Siamo donne forti.”
Ecco, questo è l’inizio.
Ma come si sviluppa? Di preciso, non lo so.
Per la prima volta mi affido alle improvvisazioni e al dibattito. Di volta in
volta, sfrutto gli spunti emersi per avviare, in un mix di registri, la
visualizzazione delle storie e gli approfondimenti.
Accolgo quindi l’inatteso in tutte le sue
forme. La prima sorpresa viene dalla richiesta di inserimento di un altro
attore, con il quale ho già lavorato. Ero felice per la compattezza del cast:
otto “donne” e un “uomo”, che è il lupo. Devo rivedere la struttura. Che cosa
faccio fare all’ultimo arrivato? Voglio evitare di mettere in scena il
cacciatore. Non resta che Cappuccetto Rosso. Gli infilo la mantellina con
cappuccio acquistata su Amazon e gli domando: te la senti di fare Cappuccetto?
Certo. La questione viene girata alle otto donne. Si stupiscono: Cappuccetto
Rosso è femmina! Si consultano. Intanto, faccio invocare all’interprete la
parità di diritti contro la discriminazione di genere. Accettato. E funziona.
La seconda sorpresa? Un altro attore. Eh,
va bene… ma poi basta. Che cosa gli faccio fare? Il cacciatore. Lascio comunque
la scelta ai due nuovi arrivati. Va bene così: un Cappuccetto alto e
chiaramente maschio e un cacciatore piccolo (quarta elementare) e di sicuro non
violento.
Possiamo andare avanti?
Ecco come. Il lupo invita Cappuccetto a
leggere il finale della fiaba di Perrault, morale compresa. Ma Cappuccetto non
vuole certo morire. Fa leggere da una narratrice la versione dell’oralità
Nivernese, il “Racconto della nonna” (tratto da Y. Verdier, L’ago e la spilla,
EDB).
Il gruppo recita le battute dei dialoghi e
mima. Che cosa succede? Che Cappuccetto beffa il lupo e si rifugia nella
casa-famiglia.
Bene, ci sono cose da affrontare. I
sentieri degli aghi e degli spilli e soprattutto il cannibalismo di Cappuccetto
che beve, a sua insaputa, il sangue della nonna e ne mangia la carne cotta dal
lupo.
Brividi.
martedì 26 settembre 2017
I LIBRI DELLE DUE STAGIONI
Primavera ed estate di scrittura
Tutto ha inizio il 22 febbraio. Nicola
Cinquetti, un amico con il quale ho scritto alcuni libri, mi informa che Anna
Vivarelli sta curando una nuova collana per Il Leone Verde di Torino. Intende
spedirle “Incubo gorango”, un nostro libro di tanti anni fa rimasto inedito. Mi
chiede se sono d’accordo. Certo. Anna non pubblica il libro per vari motivi.
Nel frattempo mi è però tornata la voglia di scrivere per ragazzi, dopo alcuni
anni di scrittura per adulti e di teatro. Ho appena fornito il copione a una
compagnia locale, “Il donchisciotte”. Fresco di rilettura cervantesca, scrivo
un’operetta fresca: “Il mio amico Donchisciotte”. La mando ad Anna con esito
positivo. Ecco la scintilla. Poi Il Leone Verde ci ripensa, non inaugura più
una collana per ragazzi, ma non importa. Ormai il fuoco è acceso, diventerà un
incendio. Il libro ci mostra Felipe, un ragazzino diverso dai coetanei perché
occhialuto e forte lettore, partire orgoglioso per una commissione affidatagli
dal padre. Spera così di dimostrare a tutti che anche lui vale qualcosa.
S’imbatte in un uomo anziano e strampalato che ha appena perso lo scudiero. Si
tratta di don Chisciotte. I due affrontano alcune imprese che riprendono quelle
classiche, mostrando come la scienza si possa coniugare con l’immaginazione.
Mando il testo qua e là e mi giunge infine
la conferma da parte di “Coccole Books”. Tra la primavera e l’estate 2018 il
mio Donchisciotte sarà in libreria.
Mi sono divertito. Tanto. Ho riscoperto la
gioia di scrivere per me. Senza pormi questioni serie e concrete di mercato e di
aspettative editoriali. Scrivere senza limiti, in piena libertà. Data la mia
recente esperienza con i migranti (piccolo spettacolo “Uomini”), voglio un
romanzo in tema che riguardi un bambino. La prima versione s’intitola “Il
destino di un bambino”. Interessa Raffaello, ma l’editore vuole che lo porti ad
almeno centomila caratteri e che cambi molto cose. Rispondo che si tratta di un
esperimento: un testo breve e incisivo, con ritmo e montaggio da serie televisiva.
Tuttavia, poco dopo m’incuriosisce
verificare se posso trarne qualcos’altro.
Lo riscrivo con il titolo “Il tuo nome è coraggio”. Aggiungo una
sorellina al protagonista, approfondisco i caratteri e gli ambienti, do maggiore
respiro alla vicenda. È la storia di un ragazzino ospite di un istituto del
Nordafrica che ignora che fine abbiano fatto i genitori. Un emissario del padre
lo porta via, in un viaggio avventuroso con i migranti. Grazie alla solidarietà
di molta gente, arrivano a Roma. Lì s’imbatte nella sorellina e possono andare
insieme a Milano, dove li aspetta il padre, un collaboratore di giustizia
ricercato dai trafficanti di uomini.
Soddisfatto, spedisco. Raffaello m’informa
che purtroppo ha già scelto un altro libro con un contenuto simile. Ma mi
scrive la signora Orietta Fatucci: vuole pubblicarlo con Einaudi Ragazzi. Dopo
due giorni arriva il contratto.
Avvio il terzo libro, una fantasia che difficilmente
troverà spazio nell’editoria italiana. La prima è Raffaello a dirmi che
“vogliono storie vere e realistiche”. S’intitola “Il lupo dietro l’angolo”.
Riccardo è un ragazzino da incubo: piccoli atti di bullismo, dispetti, prese in
giro… Un giorno sta per salire sullo scuolabus, si gira e la sua casa è
cambiata. Ora ha una forma diversa e una porta rossa. Al ritorno da scuola,
trova che nella sua cameretta tutto è cambiato. Addirittura, è invasa dai
Quèquè, piccole creature dispettosissime. Che cosa sta succedendo? Nel
pomeriggio, la realtà non cambia soltanto, scompare. Si ritrova in un mondo di
foreste, lupi e mostri. Da oppressore diventerà vittima. Ma alla fine assumerà
il ruolo dell’eroe.
Appena finito, senza sosta, voglio scrivere
un romanzo su Mergozzo, una località che amo. Metto insieme un gruppetto di
protagonisti bene assortiti: i due grandicelli che provano una simpatia
reciproca, lo studioso appassionato di storia, lo scapestrato… Si recano oltre
Ornavasso per una ricerca storica sul sistema difensivo di Cadorna. Vedono
uscire da una trincea un fante della Prima Guerra Mondiale che lancia loro un
messaggio e scompare. Come se fosse una caccia al tesoro, ulteriori indizi li
portano nel bosco del monumento megalitico, la Ca’ d’la Norma, dove s’imbattono
in un primitivo Leponzio; a Montorfano,
dove scorgono un Burgundo di cinque secoli prima; nel centro del paese, dove
vedono un picasass, uno scalpellino secentesco… Insomma, alla fine riusciranno
a evitare un disastro ambientale. Il titolo è "I sentieri di Muregocio".
Mandato a Interlinea.
Arriva l’estate. Niente ferie. Niente week-end. Una scrittura incessante, quotidiana.
Scrivo una storia di buoni sentimenti, “Un
capofamiglia di dieci anni”. Per la misteriosa assenza del padre, un ragazzino
si occupa della gestione della casa e dei suoi occupanti: una madre depressa,
una sorella svampita, un fratello maggiore che si mette volentieri nei guai.
Aiutato da un avvocato e da un investigatore, risolverà tutti i problemi. E nel
finale il padre farà ritorno con tutte le spiegazioni.
La chiudo consapevole che alcune cose
andrebbero sistemate, ma per il momento…
Avvio poi un romanzo sul mondo attuale che
erige muri e chiude le frontiere.
Si tratta di “Io sono una straniera”. Per
ora, mandato solo a Salani. Un piccolo Stato europeo, chiamato Valle, sta per
avviare misure drastiche per evitare le invasioni di stranieri. Il nonno, uno
dei ministri del governo presieduto dai Tre Onori, informa la nipote Glena che
per il mattino seguente è previsto il Cambiamento. La riguarderà
direttamente. Al mattino, tuttavia, Glena è rimasta come prima, mentre gli
altri sono cambiati: duri, determinati, coesi, uniti contro gli stranieri. Il
potere assoluto è nelle mani del fratello Diman. Glena deve scappare. Supera le
Alpi, giunge in Italia. Fa la conoscenza dei migranti. Quando tornerà nella
Valle, sarà per sovvertire l’ordine vigente.
È un buon libro? Non lo so. I miei libri
sono buoni per me. Per il resto, dipende dalla linea editoriale delle case
editrici, che cambia nel tempo. Dipende dalle diverse sensibilità degli editor,
spesso legati al mercato e agli umori degli insegnanti. Dipende dai gusti
personali dei lettori… così strabilianti, a volte.
Lo scrittore scrive, spedisce, aspetta.
Per agosto ho anche riscritto tre vecchi libri.
“Incubo gorango”, seguendo alcune
indicazioni di Vivarelli. “Racheles”, un romanzo per adulti pazzerello, che
probabilmente non sarà accolto, soprattutto per questo bisogno tutto italiano
di storie di vita vissuta (così noiose). Mi arrivano due proposte di pubblicazione,
ma sono di editori che stampano il libro senza provvedere alla distribuzione.
Le rifiuto.
“Eracle il figlio di dio”. Eh, sì, il mio
amato Eracle spedito tra gli editori come fossero altri mostri da sconfiggere.
In piena estate avviene il cambio di
registro.
Voglio mettere a frutto la cultura e la
sensibilità acquisite in questi anni di studio e di allestimenti teatrali relativi
al mondo greco: mitologia, micenei, tragedie…
Di getto scrivo “L’isola con la puzza del
morto”. Ho ripreso la storia di Filottete abbandonato sull’isola di Lemno dai
compagni achei diretti a Ilio, disgustati dal fetore della sua ferita. L’ho
accostata a un’altra storia di fetore. Quella delle lemniadi punite da Afrodite
con una puzza che ne allontana i mariti (e loro sterminano tutti i maschi dell’isola).
Ho dato vita alla città di queste donne, ai loro riti. Ho contrapposto la
purezza di un ragazzo siriano e di una ragazza lemniade al cinismo dei
conquistatori greci. Un libro contro la guerra.
L’ho mandato solo alla signora Fatucci.
E poi “Medea ha gli occhi gialli”.
L’anno scorso ho messo in scena “La Medea”
con i miei ragazzi del laboratorio. Mi è venuta l’idea: perché non mettere in
prosa le tragedie in modo rispettoso del loro spirito, ma libero per quanto
riguarda ambientazioni e personaggi?
Ecco quindi la vicenda di Medea vista
attraverso gli occhi di un ragazzo, Menippo, divenuto compagno di giochi dei
due figli della maga. Il punto di vista infantile rende la storia ancora più
affascinante, coinvolgente e terrificante.
Ci conto molto.
So che il testo dovrà affrontare molte
difficoltà. La letteratura per ragazzi italiana è, a volte, eccessivamente
protetta. Ma protetta da che cosa? Si preferiscono scritture banali pur che
siano tanto innocue da risultare annacquate.
Sulla scia della Medea mi metto a scrivere
“Le Baccanti hanno le zanne”. Anche in questo caso ho messo in scena le
Baccanti con i ragazzi.
Accuso la stanchezza, e il testo presenta
maggiori difficoltà.
Colgo un’idea in itinere e scrivo, in tre
giorni, “Amara”, un testo breve, intenso. Ecco la presentazione:
“La madre è depressa, il padre violento.
Amara non va a scuola, non ha amici, non è felice. Di notte evade dalla
cameretta-cella e si reca nel cimitero. Ne ama la pace e il silenzio. Una
notte, da una tomba emerge Ariberto, il bambino che aveva conosciuto in una
casa famiglia. Giocano. Fanno un giro sulla barca di Caronte. Ariberto le
regala due biglietti per la crociera dei bambini annegati, ma lui non può
parteciparvi. Le regala anche un cellulare. Amara s’imbarca. A bordo conosce
Achille, un ragazzo affascinante. Sarà lui a scatenarle contro i bambini
annegati trasformati in mostri aggressivi. Per allontanarla dalla morte. In una
chat, Amara ha conosciuto Zaia. La chiama e lei accorre con il padre per
salvarla. Amara, dopo la notte e la morte, conosce il giorno e la vita. Su
invito del padre, torna a casa. Ma non è più l’Amara di prima. Ora è l’Amara
della trasformazione, con la quale i genitori dovranno fare i conti. E vissero
tutti meno infelici.”
Ecco, ora è il 26 settembre e riprendo a
scrivere le Baccanti.
Cliccando sulla posta e rispondendo al
telefono con l’ansia di vedere pubblicati altri libri. Destino dello scrittore.
Scrivo per me, ma poi vorrei donare a tutti le mie fantasie. Non nascondo che
una delle motivazioni per questa stagione felice di scrittura è di tipo
economico. Di colpo, mi è venuto il timore che la pensione non possa più
bastare. Non ho altri introiti. Il teatro lo faccio gratis. Lo dico senza
vergogna: è uno stimolo forte, primordiale, legato all’istinto di sopravvivenza.
Esso riguarda anche mio figlio. Lasciargli alcuni libri che diventino dei
classici e continuino per anni e anni a produrre un piccolo reddito.
Mi lascio quindi impregnare da questa
febbre assoluta di andare a dormire sognando storie, di accogliere il
dormiveglia mattutino con le storie, di pedalare e camminare dentro le storie,
di sollevarmi da terra e volare tra le storie, di veleggiare fra storie che mi
portano su isole sempre nuove.
È una febbre, è una malattia. La più sana.
Non m’importa più di nient’altro. Tutto il resto è qualcosa che passa e non
lascia segno. Le storie sono la realtà unica e intramontabile.
Molti ritengono che lo scrittore lavori
quando è seduto alla scrivania. Non è vero. Lavora in ogni momento del giorno e
della notte. Mentre fa cose, mentre parla con la gente… c’è sempre una porta
aperta verso la storia che sta elaborando. La storia nasce e cresce così, nella
dedizione totale. Per me, almeno, è così. Come fanno gli altri non m’interessa.
Quando mi metto alla tastiera, la storia (non tutta di colpo, per scene) è già
scritta dentro di me, devo solo scrivere sotto dettatura. Alla fine, è
sufficiente una revisione leggera. Il libro nasce completo, equilibrato,
soddisfacente. Non è stata una conquista facile. Se ripenso alle difficoltà di
struttura, lingua, potenza espressiva di una decina di anni fa… Mi ha aiutato
moltissimo dedicarmi al teatro: sintesi, efficacia, misura ed equilibrio.
Da liceale, il rettore del collegio mi
aveva detto: sta’ attento, la vita non è un film, riporta i piedi a terra, fa i
conti con la realtà.
Ma era un prete, non l’ho mai ascoltato.
A tenere i piedi per terra ci si infanga.
Le storie sono di nuvole e cristallo.
E adesso, lasciatemi scrivere.
I libri delle due stagioni:
Il mio amico Donchisciotte (Coccole Books),
Il tuo nome è coraggio (Einaudi Ragazzi), Il lupo dietro l’angolo, I sentieri
di Muregocio, Un capofamiglia di dieci anni, Io sono una straniera, L’isola con
la puzza del morto, Medea ha gli occhi gialli, Amara, Le Baccanti hanno le zanne.
Libri riscritti:
Incubo gorango, Racheles, Eracle il figlio
di dio.
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