Il titolo è definitivo. E quello c'è. Sto scrivendo "L'Arlechin che copa i gati", terza avventura per i passeri dopo "L'Arlechin fantasimo" e "L'Arlechin ladro e ladron". Quindici attori in scena più il suggeritore. Sedici interpreti, dagli undici ai quattordici anni. Tutti da trattare come pseudo-protagonisti. Qui non ci sono comparse o parti secondarie, ma sedici personaggi da caratterizzare con uguale dignità. Un bel problema. E pensare che io volevo solo sette/otto interpreti al massimo! Ho scritto più di un terzo dell'opera e per il momento sono soddisfatto, ma battuta dopo battuta diventa sempre più difficile tessere una trama complessa e giungere alla fine avendo sciolto ogni nodo. Per regolarmi, conto addirittura le battute, in modo che vi sia un certo equilibrio di "tempo occupato" da ogni personaggio. Ma non è questa la difficoltà.
Anzitutto, mi chiedo ancora se la formula che ho scelto sia valida. Dev'essere una commedia e deve fare ridere, d'accordo. Ma non mi dà abbastanza soddisfazione scrivere una commedia che faccia ridere e basta. Ho voluto inserire un pizzico di patetico e un pizzico di thriller e sto ancora osservando che cosa succede. Si continua a ridere, ma ogni tanto passa via una nota realistica e ansiogena: un bambino rapito e disperato, la vita di strada di due bambini stranieri, la cupa violenza del cattivo, il cinismo dei potenti...
Ma che cosa è rimasto del teatro di maschere? Non lo so. Sono partito dalla commedia dell'arte e sto esplorando nuove possibilità, tutto qua. Senza propormi grandi ambizioni. Seguo l'istinto, il gusto di giocare al teatro, il piacere di scoprire cose nuove... e provo a scrivere come non ho mai scritto.
Mi sono detto: smettila di scrivere da scrittore, scrivi anche da regista. Sembra una banalità, ma per me è importante. Il mio è un teatro di parola. Di solito non ci sono didascalie nei miei testi. solo le parole dei personaggi. Non do mai indicazioni di tempi e spazi, ambienti e accessori. Questioni che riguardano il regista.
Mettendomi a scrivere da regista mi sono prefisso di anticipare la messa in scena e di affrontare già con il testo aspetti emersi l'anno scorso, soprattutto sull'importanza delle relazioni tra i personaggi. Che cosa fa un personaggio quando non è in scena? Non scompare nel nulla, è lì e lo si può vedere, sullo sfondo, che passa via, che confabula... che pronuncia battute segrete e misteriose mancanti nel copione.
Una specie di montaggio cinematografico. La videocamera si sposta nel tempo e nello spazio. In teatro, una scena si inserisce in un'altra, o è parallela. Una presenza emblematica e silenziosa rende più chiara o più confusa una situazione.
Insomma, un andamento non sempre lineare, un'unità di tempo in cui nessuno scompare per davvero dalla scena, ma si rende visibile in tutte le sue azioni al di fuori dei dialoghi e delle relazioni in primo piano.
Forse qualcuno del pubblico si confonderà. Protesterà. Faticherà a digerire certi passaggi o il ritmo convulso di certe scene o la mancanza di esplicitazione piana di una situazione.
Che importa?
Quello che cerco, nell'unità di tempo e spazio, è l'unità di stile, nel senso di sentire racchiusa la commedia nel mio pugno, un soffio di vento, un'immagine unica, una babele di parole che si prosciuga in una sola emissione di fiato, l'ultima sillaba dell'ultima battuta.
Arrivare a quel momento con un carico di applausi pronti a esplodere, ecco l'obiettivo.
Non applausi di convenienza o di piacere epidermico, ma di tensione accumulata, che si sfoga con gioia.
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