“Tengono gli occhi
fissi sulla scena come ammaliati, espressione che ci viene dal Medioevo, dal
tempo delle streghe e dei chierici. Guardare e ascoltare sono attività all’occasione
anche divertenti; ma questa gente sembra materia passiva. Il rapimento col
quale paiono abbandonarsi a sensazioni imprecise ma violente è tanto più
profondo quanto meglio gli attori sanno recitare; talché noi, disapprovando
questo stato di cose, ci troviamo spinti a desiderare che recitino nel peggior
modo possibile. (…) un po’ di cartapesta, un tantino di mimica, un pizzico di
testo – da farci ammirare i teatranti che, servendosi di così meschini
ricalchi, riescono a commuovere i loro rapiti uditori ben più violentemente di
quanto non riesca a commuoverli il mondo stesso. (…) La sola cosa importante
per gli spettatori di questi teatri è di poter scambiare un mondo
contradditorio contro un mondo armonioso, quel mondo che si conosce assai poco
contro un mondo che si può sognare.”
(B. Brecht, "Scritti teatrali. Breviario di estetica teatrale", Einaudi)
Il teatro di
straniamento di Brecht adotta tecniche per attivare lo spettatore, ipnotizzato
dall’immedesimazione e dalla catarsi. Il teatro lo inchioda alla poltrona con le
emozioni, ammaliandolo con un mondo fittizio rappresentato per il suo piacere. Brecht
lo vuole invece vigile, osservatore attento, critico, consapevole, disponibile
all’apprendimento, curioso verso la scoperta e la verità.
Ma rimane qualcosa da
rivelare allo spettatore ignaro? Ora che le grandi rivoluzioni sociali sono
naufragate e che le destre e le sinistre s’incontrano in un’area moderata
ambigua e indefinita, che cosa può insegnare, il teatro? A essere critici verso
la realtà? Siamo bersagliati ogni giorno da opinionisti, documentaristi,
politici, giornalisti… A distanza di un clic abbiamo non una, ma mille verità
tutte plausibili e alcune delle quali perfino oneste. Nella nuova Babilonia
tutti hanno un parere e una visione di vita e nessuno se la tiene per sé. Che
cosa deve fare, il teatro? Tuffarsi nel carnaio dei nuovi profeti? Per dire che
cosa?
Il pubblico ha la
possibilità di entrare ovunque, con l’informazione massmediale. Televisione e
internet gli spiattellano ogni giorni segreti intimi, rivelazioni scandalose,
scoperte epocali, disillusioni e utopie, discorsi origliati, immagini rubate…
Il pubblico reclama il diritto di tutto sapere, tutto guardare, tutto sentire,
tutto toccare con mano. Ama indignarsi, commuoversi, infuriarsi, odiare, venerare.
Il diritto di cronaca. La possibilità offerta a chiunque di sentirsi un esperto
diventa fenomeno di massa. Tutti sanno, tutti vogliono sentenziare, tutti
giudici ma non di sé stessi, tutti boia. Tutti detentori di diritti ferrei, con
pochi doveri flessibili. Ma anche: tutti hanno ormai la possibilità di
orientarsi nel caos del mondo. Perché non lo fanno? Preferiscono pregiudizi,
superstizioni, fanatismi, schizofrenie e paranoie.
A costoro il teatro
dovrebbe offrire ulteriore accoglienza? Farsi maestro per sentirsi insultato
dagli allievi? A costoro il teatro offre l’estraneità, non lo straniamento. Il
pubblico è presente per gentile concessione della compagnia. Gli attori fanno
un’apparizione panica, che pone sé stessa al di sopra delle opinioni e delle
verità presto consumate. L’apparizione di un dio con l’atteggiamento distaccato
dell’animo puro che non si fa corrompere dalla massa. Un’apparizione che
sorprende, sconcerta, spaventa. Un’apparizione, soprattutto, sulla quale il
pubblico non può mettere le mani. Non c’è un telecomando. Nemmeno un direttore
di giornale prezzolato. Non c’è corruzione che tenga e nemmeno c’è la forza
deterrente del giudizio. Il teatro panico non si riflette nell’applauso, ma
solo in sé stesso.
Il teatro panico
afferma la propria libertà d’espressione, la propria purezza d’intenti, nell’ambito
dell’estetica teatrale e della potenza di comunicazione della parola, e si
propone come voce fuori del coro. In questo sta la sua eticità. Nel mettere in
scena un recupero dell’arte non moralistica e non meretricia. Al pubblico non
si chiede di immedesimarsi o di partecipare, ma di sentirsi estraneo in una
vicenda alta. Un rito di interiorità trascendente per una platea immersa nel
caos rassicurante. Un ordine e una limpidezza delle cose che inquieta e
infastidisce. Una proposta ad affrontare l’immediatezza della natura panica per
avviare un percorso di ricerca.
Nessun commento:
Posta un commento