IL TEATRO DELL’OPPRESSO
E ARISTOTELE
“Il Teatro dell’Oppresso è un metodo teatrale elaborato da
Augusto Boal a partire dagli anni ’60, prima in Brasile e poi in Europa, che
usa il teatro come mezzo di conoscenza, come linguaggio e come mezzo di trasformazione
della realtà interiore, relazionale e sociale. È un teatro che rende attivo il
pubblico e serve ai gruppi di “spett-attori” per esplorare, mettere in scena,
analizzare e trasformare la realtà che essi stessi vivono. Si basa sull’ipotesi
che “tutto il corpo pensa”, in altre parole su una concezione “globale”
dell’uomo visto come interazione reciproca di corpo, mente, emozioni.”
Le principali
tecniche utilizzate sono:
Teatro
Forum: performance
che tende a realizzarsi in situazioni il più delle volte informali (teatro,
strada, piazza, aula scolastica, centro sociale…), finalizzata al
coinvolgimento attivo degli spettatori, ossia al loro intervento diretto sulla
scena.
Teatro
Immagine: insieme di
attività basate sul linguaggio non verbale delle immagini corporee.
Flic
dans la téte:
tecnica sviluppata in Francia per un lavoro intrapsichico che mette in scena le
oppressioni personali.
Teatro
Invisibile: forma di
teatro realizzata in contesti di vita quotidiana, che porta il teatro fuori dal
teatro e coglie le reazioni del pubblico inconsapevole di trovarsi di fronte ad
una performance teatrale.
Teatro
Giornale: il TdO è
in questo caso utilizzato come mezzo per l’elaborazione comunitaria degli
avvenimenti politici e sociali.
Un’esposizione
esauriente è contenuta nel testo di Augusto Boal “Il
teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro”, ristampato da La Meridiana
nel 2011 con l’aggiunta di un capitolo inedito per l’Italia, “Il sistema tragico coercitivo di Aristotele”.
Il
Teatro dell’Oppresso…
“1.
serve in campo politico, per ridare voce alla base, costruire percorsi di
cittadinanza attiva, di controllo dal basso delle istituzioni politiche e delle
amministrazioni (cfr. il Teatro-Legislativo);
2.
serve in campo sociale: per rafforzare i processi di liberazione dei gruppi
discriminati e oppressi, ma anche per indagare le nostre vite quotidiane e
scoprire i cambiamenti necessari (lavoro, qualità della vita, ambiente,
sviluppo economico sostenibile o decrescita felice, sicurezza e coesione
sociale, immigrazione…) (cfr. Teatro-Immagine, Teatro-Forum,
Teatro-Invisibile);
3.
serve in campo educativo, per sviluppare nei giovani cittadini strumenti di
analisi della realtà, di gestione dei conflitti, di comunicazione costruttiva,
di autostima e fiducia… (giochesercizi – nel gergo di Boal – in primis, ma
anche il Teatro-Forum);
4.
serve in campo terapeutico, per non lasciare che la terapia operi il suo
riduzionismo trasformando il malessere sociale in problema psicologico
individuale, affinché si riescano a individuare i legami tra “sofferenza
individuale” e “contraddizioni sociali” (le tecniche del Flic-dans-la-tête);
5.
serve in campo teatrale, per ridare al teatro una funzione sociale forte e non
ridurlo a mero commercio di prodotti o a semplice intrattenimento (tutte le
tecniche e l’Estetica dell’Oppresso).”
Boal chiarisce
il senso del libro in una breve introduzione alla parte prima.
“All’inizio
teatro era il canto ditirambico: il popolo libero che cantava all’aperto. Il
carnevale. La festa. Poi le classi dominanti si impadronirono del teatro e
costruirono le loro muraglie. Dapprima divisero il popolo, separando attori da
spettatori: persone che agiscono e persone che guardano: finì la festa. In
seguito, tra gli attori stessi, si separarono i protagonisti dalla massa: ebbe
inizio l’indottrinamento coercitivo. Questi saggi mostrano come il popolo riassume
la sua funzione di protagonista nel teatro e nella società.”
E più
avanti:
“Il
dibattito sui rapporti fra teatro e politica è vecchio quanto il teatro… e la
politica! Dai tempi di Aristotele, e anche molto prima, se ne discute con gli
stessi argomenti, le stesse solfe di oggi. Da un lato si afferma che l’arte è
pura contemplazione; dall’altro, al contrario, che l’arte offre sempre una
visione del mondo in trasformazione. Essa è dunque politica, poiché mostra i
modi di effettuare o di ritardare tale trasformazione.”
Il
TdO agisce quindi nella scia dell’ottimismo progressista, che appartiene anche
al vituperato Aristotele: l’uomo tende alla perfezione e addirittura, con l’arte
e la scienza, migliora la natura che spesso compie errori. Boal crede nell’efficacia
del teatro, in grado di far prendere coscienza e di rivoluzionare l’ordine
sociale.
“Come
spiega Arnold Hauser nella sua “Storia sociale dell’arte”, all’origine il
teatro era il coro, la massa, il popolo. Era lui il vero protagonista. Quando
Tespi inventò il protagonista, aristocratizzò, aristotelicizzò immediatamente
il teatro, che esisteva fino a quel momento sotto la forma popolare di
manifestazione di massa, di cortei, di feste, ecc. Il dialogo coro-protagonista
è chiaramente il riflesso del dialogo popolo-aristocrazia. L’eroe tragico, che
si mette in seguito a dialogare non più solo con il coro ma con i suoi simili
(deuteragonista e trigonista) era sempre presentato come un esempio da seguire
in alcuni aspetti e non in altri. L’eroe tragico appare quando lo Stato inizia
a utilizzare il teatro a fini politici e di coercizione del popolo. Non bisogna
dimenticare che era lo Stato a pagare, direttamente o tramite mecenati, le
produzioni.”
Aristotele
un repressore di istanze rivoluzionarie? In che modo? Attraverso la tragedia
greca antica.
“–
Prima tappa: si incoraggia l’hamartia
(nota anche col nome di colpa tragica. È l’unica impurità che esiste nel
personaggio. L’hamartia è la sola
cosa che può e deve essere distrutta affinché l’interezza dell’ethos del personaggio sia conforme
all’interezza dell’ethos della
società. A causa di questo confronto di tendenze, l’hamartia provoca il conflitto: è la sola tendenza che non sia in
armonia con la società, con ciò che è richiesto dalla società). Il personaggio
segue un cammino che sale verso la felicità, accompagnato “empaticamente” dallo
spettatore. Arriva il capovolgimento: il personaggio e lo spettatore
intraprendono il percorso inverso, che va dalla fortuna alla sfortuna. Caduta
dell’eroe.
–
Seconda tappa: il personaggio riconosce il suo errore: agnorisis. Grazie al rapporto di empathia dianoia-ragione (dianoia è la conoscenza discorsiva), lo
spettatore riconosce il proprio errore, la propria hamartia, la propria mancanza nei confronti della Costituzione.
–Terza
tappa: catastrophe: il personaggio
subisce le conseguenze del suo errore, conseguenze violente sotto forma della
propria morte o di quella delle persone che ama.
– Catarsi: lo spettatore, terrorizzato
dallo spettacolo della catastrophe,
si purifica della sua hamartia.”
Nel
sistema tragico coercitivo di Aristotele è essenziale che:
“a)
un conflitto abbia luogo fra l’ethos
del personaggio e l’ethos della
società nella quale vive. Ci sia qualcosa che non vada bene;
b) si
stabilisca un legame, chiamato empathia,
che consiste nel permettere al personaggio di condurre lo spettatore attraverso
le proprie esperienze - lo spettatore prova le stesse cose come se stesse
agendo lui stesso, gode i piaceri e soffre i dolori del personaggio, al punto
di pensare i suoi pensieri;
c) lo
spettatore subisce tre accadimenti di natura violenta: la peripezia, l’agnorisis e
la catarsi: subisce un’inversione di
marcia nel suo destino (l’azione della pièce), riconosce l’errore commesso per
interposta persona e si purifica dell’elemento antisociale di cui riconosce di
essere vittima.
Eccola
l’essenza del sistema tragico coercitivo. Nel teatro greco, questo sistema
funziona come è mostrato nello schema. Ma nella sua essenza il sistema ha
continuato e continua a essere utilizzato ancora oggi, con le opportune
modifiche dovute al cambiamento della società.”
Molto
interessante questa visione storica del teatro come strumento di controllo
sociale. Funzione che oggi condivide con il cinema e soprattutto con la
televisione. I film della “Walt Disney”, i polpettoni hollywoodiani, i
cinepanettoni italiani, i programmi televisivi di intrattenimento, le serie
poliziesche e comiche… L’attività dello spettacolo si muove per la maggior
parte entro i binari della rassicurazione sociale, dell’illusione, della
condanna di ogni velleità antisociale, della difesa dello status quo, della
disuguaglianza tra gli uomini e tra i popoli, della chiusura mentale, dell’egoismo
individuale, della schizofrenia religiosa, del fanatismo politico… e della
mediocrità.
Mi
ritrovo nel pensiero di Boal? Non in senso politico. Sono scettico riguardo
alla possibilità di “educare” il popolo. Oggi non si può più parlare di ignoranza.
Chiunque è in grado di attingere informazioni di ogni tipo dai massmedia. Chiunque
può farsi un’idea personale della realtà in cui vive. Lo si può aiutare, certo.
Ma è innegabile che i politici corrotti e conservatori hanno ricevuto il loro
mandato dal popolo, che spesso glielo rinnova negando l’evidenza. Non credo ai
grandi movimenti, ma ai piccoli. Penso che la rivoluzione si debba fare nell’individualità,
non nella massa. D’altronde, ogni movimento rivoluzionario si è sempre
trasformato in repressione e oscurantismo.
Spesso
le idee sorgono sulla scia di un’utopia che si segue senza alcuna conoscenza
dell’itinerario e del punto di arrivo. La ricerca di idee non sempre è una mela
che cade dall’albero. A volte si vaga sull’oceano dietro la scia di… un pesciolino?
uno squalo? una balena?... nella speranza di avere scelto una guida che non ci
farà naufragare per sempre. Si può avvistare un’isoletta o un continente, ma
anche uno scoglio; un punto fermo è pur sempre un inizio.
La
mia utopia è di andare al di là della tragedia classica, oltre Aristotele e
oltre Tespi, tra le persone che danzavano e cantavano; al di là anche di loro,
verso il mito. In questo territorio d’acqua, di terra e d’aria, in questa
regione idealmente posta nella Grecia olimpica, vista però come scoglio da cui
partire per l’esplorazione dell’universo, non trovo un palcoscenico, ma un
luogo deputato, un luogo circoscritto (strada, piazza, campo, bosco, tempio, Olimpo…)
nel quale e con il quale vivere un’esperienza mitico-mistica che non ha come scopo
il cambiamento del mondo, e nemmeno la sua conoscenza, ma la sua condivisione.
Il
teatro è di solito identificato con l’attore. L’attore è corpo, mente, emozioni;
corpo pensante, come dice Boal. L’attore è messo in relazione con il pubblico.
Il pubblico è passivo (assiste) o attivo (partecipa). Il pubblico manipolato
dal potere è passivo; quello auspicato da Artaud, Beck e Malina, Boal… si fonde
con l’attore: lo spett-attore. Da questo attivismo sono sempre rimasti esclusi
gli altri elementi che formano il teatro: la musica, lo spazio, la scenografia,
gli oggetti di scena… Ossia tutti gli elementi inorganici, ai quali è stato
assegnato un ruolo solo estetico o strumentale.
Da
qui vorrei ripartire.
Da un
senso panico della performance teatrale, un senso antico al quale ci stanno per
fortuna riportando tanti antropologi, psicologi e ambientalisti contemporanei (James
Hillman, per esempio). Dalla mitologia al pianeta verde al teatro. Dall’uso
subalterno della cosa (oggetto, fondale,
colore, melodia) al suo co-protagonismo con un gruppo recitante senza
protagonisti. Dalla disintegrazione del testo alla sua visualizzazione ritmica.
Dal personaggio-individuo all’attore-persona; persona che è tale perché
con-vive con gli elementi naturali. Una scena panteistica. Nella quale tutto
ciò che ne fa parte è vivo e relazionato.
Un
teatro di figura? No, di più. Un teatro che assegna uguale dignità all’attore e
al suo costume, alla voce e al rumore, alla mimica facciale e al fondale, alla
gestualità e all’espressività di un telo. Parlo dello stupore di osservare una
sedia con occhi nuovi, legati non solo a un suo uso estetico e nemmeno
funzionale alla performance attoriale o all’economia dello spettacolo; occhi di
un teatrante nuovo, che nella sedia vede l’equivalente inorganico dell’attore.
Parlo di un eco-teatro nel quale ogni elemento è vivo e in relazione circolare.
Un teatro che non affida se stesso all’istrionismo del primo attore o all’estetica
del regista di moda; nemmeno al testo di successo o all’apparato scenico
faraonico; e neanche al pollice verso del pubblico o all’illuminazione del
critico. Un teatro che si chiude in se stesso per trasformare in vita le parole.
Un teatro Frankenstein che trasmette energia biologica a tutto ciò che contiene
il luogo chiuso della rappresentazione, dall’attore all’oggetto che manipola.
Fare
teatro come passeggiare in un bosco o tuffarsi in mare, consapevoli di non
esseri protagonisti dell’ambiente naturale, ma compagni di vita.
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