mercoledì 25 dicembre 2013

IL TEATRO DELL'OPPRESSO E ARISTOTELE

IL TEATRO DELL’OPPRESSO E ARISTOTELE

“Il Teatro dell’Oppresso è un metodo teatrale elaborato da Augusto Boal a partire dagli anni ’60, prima in Brasile e poi in Europa, che usa il teatro come mezzo di conoscenza, come linguaggio e come mezzo di trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale. È un teatro che rende attivo il pubblico e serve ai gruppi di “spett-attori” per esplorare, mettere in scena, analizzare e trasformare la realtà che essi stessi vivono. Si basa sull’ipotesi che “tutto il corpo pensa”, in altre parole su una concezione “globale” dell’uomo visto come interazione reciproca di corpo, mente, emozioni.”
Le principali tecniche utilizzate sono:
Teatro Forum: performance che tende a realizzarsi in situazioni il più delle volte informali (teatro, strada, piazza, aula scolastica, centro sociale…), finalizzata al coinvolgimento attivo degli spettatori, ossia al loro intervento diretto sulla scena.
Teatro Immagine: insieme di attività basate sul linguaggio non verbale delle immagini corporee.
Flic dans la téte: tecnica sviluppata in Francia per un lavoro intrapsichico che mette in scena le oppressioni personali.
Teatro Invisibile: forma di teatro realizzata in contesti di vita quotidiana, che porta il teatro fuori dal teatro e coglie le reazioni del pubblico inconsapevole di trovarsi di fronte ad una performance teatrale.
Teatro Giornale: il TdO è in questo caso utilizzato come mezzo per l’elaborazione comunitaria degli avvenimenti politici e sociali.
Un’esposizione esauriente è contenuta nel testo di Augusto Boal “Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro”, ristampato da La Meridiana nel 2011 con l’aggiunta di un capitolo inedito per l’Italia, “Il sistema tragico coercitivo di Aristotele”.

Il Teatro dell’Oppresso…
“1. serve in campo politico, per ridare voce alla base, costruire percorsi di cittadinanza attiva, di controllo dal basso delle istituzioni politiche e delle amministrazioni (cfr. il Teatro-Legislativo);
2. serve in campo sociale: per rafforzare i processi di liberazione dei gruppi discriminati e oppressi, ma anche per indagare le nostre vite quotidiane e scoprire i cambiamenti necessari (lavoro, qualità della vita, ambiente, sviluppo economico sostenibile o decrescita felice, sicurezza e coesione sociale, immigrazione…) (cfr. Teatro-Immagine, Teatro-Forum, Teatro-Invisibile);
3. serve in campo educativo, per sviluppare nei giovani cittadini strumenti di analisi della realtà, di gestione dei conflitti, di comunicazione costruttiva, di autostima e fiducia… (giochesercizi – nel gergo di Boal – in primis, ma anche il Teatro-Forum);
4. serve in campo terapeutico, per non lasciare che la terapia operi il suo riduzionismo trasformando il malessere sociale in problema psicologico individuale, affinché si riescano a individuare i legami tra “sofferenza individuale” e “contraddizioni sociali” (le tecniche del Flic-dans-la-tête);
5. serve in campo teatrale, per ridare al teatro una funzione sociale forte e non ridurlo a mero commercio di prodotti o a semplice intrattenimento (tutte le tecniche e l’Estetica dell’Oppresso).”

Boal chiarisce il senso del libro in una breve introduzione alla parte prima.
“All’inizio teatro era il canto ditirambico: il popolo libero che cantava all’aperto. Il carnevale. La festa. Poi le classi dominanti si impadronirono del teatro e costruirono le loro muraglie. Dapprima divisero il popolo, separando attori da spettatori: persone che agiscono e persone che guardano: finì la festa. In seguito, tra gli attori stessi, si separarono i protagonisti dalla massa: ebbe inizio l’indottrinamento coercitivo. Questi saggi mostrano come il popolo riassume la sua funzione di protagonista nel teatro e nella società.”
E più avanti:
“Il dibattito sui rapporti fra teatro e politica è vecchio quanto il teatro… e la politica! Dai tempi di Aristotele, e anche molto prima, se ne discute con gli stessi argomenti, le stesse solfe di oggi. Da un lato si afferma che l’arte è pura contemplazione; dall’altro, al contrario, che l’arte offre sempre una visione del mondo in trasformazione. Essa è dunque politica, poiché mostra i modi di effettuare o di ritardare tale trasformazione.”
Il TdO agisce quindi nella scia dell’ottimismo progressista, che appartiene anche al vituperato Aristotele: l’uomo tende alla perfezione e addirittura, con l’arte e la scienza, migliora la natura che spesso compie errori. Boal crede nell’efficacia del teatro, in grado di far prendere coscienza e di rivoluzionare l’ordine sociale.
“Come spiega Arnold Hauser nella sua “Storia sociale dell’arte”, all’origine il teatro era il coro, la massa, il popolo. Era lui il vero protagonista. Quando Tespi inventò il protagonista, aristocratizzò, aristotelicizzò immediatamente il teatro, che esisteva fino a quel momento sotto la forma popolare di manifestazione di massa, di cortei, di feste, ecc. Il dialogo coro-protagonista è chiaramente il riflesso del dialogo popolo-aristocrazia. L’eroe tragico, che si mette in seguito a dialogare non più solo con il coro ma con i suoi simili (deuteragonista e trigonista) era sempre presentato come un esempio da seguire in alcuni aspetti e non in altri. L’eroe tragico appare quando lo Stato inizia a utilizzare il teatro a fini politici e di coercizione del popolo. Non bisogna dimenticare che era lo Stato a pagare, direttamente o tramite mecenati, le produzioni.”
Aristotele un repressore di istanze rivoluzionarie? In che modo? Attraverso la tragedia greca antica.

“– Prima tappa: si incoraggia l’hamartia (nota anche col nome di colpa tragica. È l’unica impurità che esiste nel personaggio. L’hamartia è la sola cosa che può e deve essere distrutta affinché l’interezza dell’ethos del personaggio sia conforme all’interezza dell’ethos della società. A causa di questo confronto di tendenze, l’hamartia provoca il conflitto: è la sola tendenza che non sia in armonia con la società, con ciò che è richiesto dalla società). Il personaggio segue un cammino che sale verso la felicità, accompagnato “empaticamente” dallo spettatore. Arriva il capovolgimento: il personaggio e lo spettatore intraprendono il percorso inverso, che va dalla fortuna alla sfortuna. Caduta dell’eroe.
– Seconda tappa: il personaggio riconosce il suo errore: agnorisis. Grazie al rapporto di empathia dianoia-ragione (dianoia è la conoscenza discorsiva), lo spettatore riconosce il proprio errore, la propria hamartia, la propria mancanza nei confronti della Costituzione.
–Terza tappa: catastrophe: il personaggio subisce le conseguenze del suo errore, conseguenze violente sotto forma della propria morte o di quella delle persone che ama.
Catarsi: lo spettatore, terrorizzato dallo spettacolo della catastrophe, si purifica della sua hamartia.”

Nel sistema tragico coercitivo di Aristotele è essenziale che:
“a) un conflitto abbia luogo fra l’ethos del personaggio e l’ethos della società nella quale vive. Ci sia qualcosa che non vada bene;
b) si stabilisca un legame, chiamato empathia, che consiste nel permettere al personaggio di condurre lo spettatore attraverso le proprie esperienze - lo spettatore prova le stesse cose come se stesse agendo lui stesso, gode i piaceri e soffre i dolori del personaggio, al punto di pensare i suoi pensieri;
c) lo spettatore subisce tre accadimenti di natura violenta: la peripezia, l’agnorisis e la catarsi: subisce un’inversione di marcia nel suo destino (l’azione della pièce), riconosce l’errore commesso per interposta persona e si purifica dell’elemento antisociale di cui riconosce di essere vittima.
Eccola l’essenza del sistema tragico coercitivo. Nel teatro greco, questo sistema funziona come è mostrato nello schema. Ma nella sua essenza il sistema ha continuato e continua a essere utilizzato ancora oggi, con le opportune modifiche dovute al cambiamento della società.”

 Molto interessante questa visione storica del teatro come strumento di controllo sociale. Funzione che oggi condivide con il cinema e soprattutto con la televisione. I film della “Walt Disney”, i polpettoni hollywoodiani, i cinepanettoni italiani, i programmi televisivi di intrattenimento, le serie poliziesche e comiche… L’attività dello spettacolo si muove per la maggior parte entro i binari della rassicurazione sociale, dell’illusione, della condanna di ogni velleità antisociale, della difesa dello status quo, della disuguaglianza tra gli uomini e tra i popoli, della chiusura mentale, dell’egoismo individuale, della schizofrenia religiosa, del fanatismo politico… e della mediocrità.
Mi ritrovo nel pensiero di Boal? Non in senso politico. Sono scettico riguardo alla possibilità di “educare” il popolo. Oggi non si può più parlare di ignoranza. Chiunque è in grado di attingere informazioni di ogni tipo dai massmedia. Chiunque può farsi un’idea personale della realtà in cui vive. Lo si può aiutare, certo. Ma è innegabile che i politici corrotti e conservatori hanno ricevuto il loro mandato dal popolo, che spesso glielo rinnova negando l’evidenza. Non credo ai grandi movimenti, ma ai piccoli. Penso che la rivoluzione si debba fare nell’individualità, non nella massa. D’altronde, ogni movimento rivoluzionario si è sempre trasformato in repressione e oscurantismo.
Spesso le idee sorgono sulla scia di un’utopia che si segue senza alcuna conoscenza dell’itinerario e del punto di arrivo. La ricerca di idee non sempre è una mela che cade dall’albero. A volte si vaga sull’oceano dietro la scia di… un pesciolino? uno squalo? una balena?... nella speranza di avere scelto una guida che non ci farà naufragare per sempre. Si può avvistare un’isoletta o un continente, ma anche uno scoglio; un punto fermo è pur sempre un inizio.
La mia utopia è di andare al di là della tragedia classica, oltre Aristotele e oltre Tespi, tra le persone che danzavano e cantavano; al di là anche di loro, verso il mito. In questo territorio d’acqua, di terra e d’aria, in questa regione idealmente posta nella Grecia olimpica, vista però come scoglio da cui partire per l’esplorazione dell’universo, non trovo un palcoscenico, ma un luogo deputato, un luogo circoscritto (strada, piazza, campo, bosco, tempio, Olimpo…) nel quale e con il quale vivere un’esperienza mitico-mistica che non ha come scopo il cambiamento del mondo, e nemmeno la sua conoscenza, ma la sua condivisione.
Il teatro è di solito identificato con l’attore. L’attore è corpo, mente, emozioni; corpo pensante, come dice Boal. L’attore è messo in relazione con il pubblico. Il pubblico è passivo (assiste) o attivo (partecipa). Il pubblico manipolato dal potere è passivo; quello auspicato da Artaud, Beck e Malina, Boal… si fonde con l’attore: lo spett-attore. Da questo attivismo sono sempre rimasti esclusi gli altri elementi che formano il teatro: la musica, lo spazio, la scenografia, gli oggetti di scena… Ossia tutti gli elementi inorganici, ai quali è stato assegnato un ruolo solo estetico o strumentale.
Da qui vorrei ripartire.
Da un senso panico della performance teatrale, un senso antico al quale ci stanno per fortuna riportando tanti antropologi, psicologi e ambientalisti contemporanei (James Hillman, per esempio). Dalla mitologia al pianeta verde al teatro. Dall’uso subalterno  della cosa (oggetto, fondale, colore, melodia) al suo co-protagonismo con un gruppo recitante senza protagonisti. Dalla disintegrazione del testo alla sua visualizzazione ritmica. Dal personaggio-individuo all’attore-persona; persona che è tale perché con-vive con gli elementi naturali. Una scena panteistica. Nella quale tutto ciò che ne fa parte è vivo e relazionato.

Un teatro di figura? No, di più. Un teatro che assegna uguale dignità all’attore e al suo costume, alla voce e al rumore, alla mimica facciale e al fondale, alla gestualità e all’espressività di un telo. Parlo dello stupore di osservare una sedia con occhi nuovi, legati non solo a un suo uso estetico e nemmeno funzionale alla performance attoriale o all’economia dello spettacolo; occhi di un teatrante nuovo, che nella sedia vede l’equivalente inorganico dell’attore. Parlo di un eco-teatro nel quale ogni elemento è vivo e in relazione circolare. Un teatro che non affida se stesso all’istrionismo del primo attore o all’estetica del regista di moda; nemmeno al testo di successo o all’apparato scenico faraonico; e neanche al pollice verso del pubblico o all’illuminazione del critico. Un teatro che si chiude in se stesso per trasformare in vita le parole. Un teatro Frankenstein che trasmette energia biologica a tutto ciò che contiene il luogo chiuso della rappresentazione, dall’attore all’oggetto che manipola. 
Fare teatro come passeggiare in un bosco o tuffarsi in mare, consapevoli di non esseri protagonisti dell’ambiente naturale, ma compagni di vita.

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