Ecco, abbiamo cominciato.
In modo semplice. Il primo passo è stato addirittura tradizionale: un
protagonista e due comprimari; una lettura sofferta; tocchi di realismo sulla
scena. Immediatamente è scattato in me il rifiuto. Attorno al protagonista si
possono mettere alter-ego, emblemi (la società, i carcerieri, la giustizia…),
ma questo è il teatro a tavolino, pensato dai registi cervellotici che tanto
piacciono ai critici e tanto sono applauditi dal pubblico che ammicca
compiaciuto alla loro genialità intelligente. Ho analizzato i vari elementi più
con la pancia che con la testa. Questo è teatro Panico, no?
Nessun protagonista e tre
protagonisti. Identici. Tre corpi arancioni e tre voci che si specchiano e si
fronteggiano, un monologo che diventa specchio di sé stesso, tre immagini di un’unica
realtà conflittuale e complessa. In fondo, i deliri interiori di un condannato
a morte chi li ascolta? Solo lui, spezzato in più parti dal terrore, dai
ricordi, dalla confusione…
La recitazione alla Stanislavski non fa per noi.
Anzitutto, con sincerità, non ne abbiamo i mezzi. I ragazzi del Teatro dei
Passeri non sono attori formati da una scuola. Sono apprendisti sul campo. Ma
soprattutto penso che televisione e cinema si siano appropriati di una
recitazione mimetica, aderenti alla realtà più che la realtà stessa,
fotografica in alta definizione. Ci basta un serial americano per apprezzare il
realismo della fiction e l’approfondimento psicologico dei personaggi. Ma non c’è
solo la psicologia a fare un personaggio!
E
c’è un altro realismo, più profondo e sottile.
Il
nostro teatro è per gran parte fondato su personaggi di vita quotidiana. La
loro grandezza letteraria svanisce quando li isoliamo dal loro ambiente e li
scaraventiamo al centro virtuale dell’universo. Là, circondati da nebulose e
misteri troppo grandi per appartenere all’umanità, in un silenzio musicale che
stordisce, in una tenebra di luce, si svela tutta la loro piccolezza: risultano
incongruenti.
Vorrei
andare al di là della psicologia e utilizzare la parola non per un effetto
catartico, ma per trasferire il pubblico da una sala di attenzione passiva (non
siamo cinema, non siamo televisione, soprattutto non siamo noia) a uno spazio
di stupore e spiazzamento, di ritmo e silenzio, di significati arcani sepolti
in fondo alla storia. Vorrei più mito, nella quotidianità.
Pensando
a Pan. Zoccoli duri, corpo deforme, musica alienante, forza e passione, natura
e la presunzione del divino.
Semplice.
Tracciamo sul pavimento il contorno di tre celle affiancate, di msura ridotta
per dare il senso di claustrofobia. Nelle celle, niente. Sul davanti, due
sbarre verticali daranno l’idea della prigione.
Si
riparte. La voce non cerca di esprimere rabbia, dolore, paura… il corpo non si
adegua alla voce e al significato del narrato. La voce è ritmo, musica, coro,
verso di animale, suono spaziale… e il corpo è quello di una cosa, di un
animale, del niente.
Si
comincia così, cercando ciò che non siamo sicuri di trovare. Un modo di fare
teatro che sia nostro, e che ci liberi dalle convenzioni e dalle sale di
pubblico bendisposto, ma abitudinario. Il pubblico formato da gente che dice:
mi piace (e lo dice perché il prodotto rientra nel catalogo mentale di studi
superiori e di conversazioni da salotto) o non mi piace (in tono
ghigliottinesco, come se l’arte non fosse l’artista a farla, ma l’applauso).
Nella
seconda prova tasteremo il polso alla musica. Musica di chitarra, musica di
computer, e musica di suoni isolati e di rumori.
I
passeri volano bassi, ma sono liberi.
Volando
bassi, conoscono sia il cielo sia la terra.
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