Un’impresa, questo Caligola. Sia perché Tecneke non è
una compagnia di professionisti sia perché i tempi di Camus sono più letterari
che teatrali. Come spesso succede. Elaboro un piano di regia non del tutto
convincente, più che altro idee a tavolino, quelle provvisorie, scritte per
combattere il senso di vuoto che si avverte all’inizio di una messa in scena. Purtroppo,
e dico purtroppo perché le scelte registiche viaggerebbero su strade più
praticate e più comode, non faccio teatro di estetismi, non m’interessa pensare
a: bella scenografia, bella musica, belle luci, bella recitazione… Faccio
teatro, non un salotto arredato dall’architetto d’interni. Ho bisogno di
elementi concreti da accostare, attivare e contrapporre, sui quali costruire
non una, ma le mille storie del testo. Ho bisogno di un palcoscenico
rivitalizzato da persone alle quali si uniscono, in sinergia, teli e oggetti,
fondali e luci, musiche e pantomime. Il teatro non ruota intorno all’attore
recitante, ma all’interprete performante. Tutto ciò che viene relegato nella
categoria della scenografia, dell’arredo e dell’oggettistica richiede di essere
rivalutato e rivitalizzato. Un teatro animistico. Tutti i suoi elementi
acquisiscono un’anima e queste anime di persone e di cose interagiscono… per
quale scopo? Non per fare un investimento economico, non per vincere un premio,
non per compiacere il narcisismo degli artisti, non per il piacere o l’edificazione
del pubblico, non per cambiare la società, non per lanciare un messaggio. Si fa
teatro per ritrovare il senso dell’esistenza come interazione di singole anime
con l’anima mundi. Nel teatro si ritrovano e si riscoprono la verità, la
bellezza, l’armonia della vita.
Funziona? Non lo so. Cerco di farlo funzionare per
gli interpreti, me compreso. Non c’è distinzione tra attore, regista, musicista,
scenografo, tecnico... Tutti sono agonisti, tutti concorrono non alla “riuscita”
dello spettacolo (intesa come catalizzatore di applausi), ma all’autenticità
dell’esperienza nello spazio chiuso interdetto al pubblico. La messa in scena
ricorda l’attivazione del dottor Frankenstein di materiale biologico morto
mediante l’utilizzo dell’energia elettrica naturale, fornita dai fulmini.
Chi vediamo sul palcoscenico? Attori morti, nel senso
che devono lasciare la forma di vita che li identifica come individui sociali
per assumere una nuova identità immaginaria, tanto più intensa quanto più radicata
nelle nuove relazioni linguistiche e cinetiche tra di loro e con l’apparato
inorganico costituito da scenografia, musica, oggetti, luci. L’energia che li
rivitalizza è l’espressività significativa che deriva dalle relazioni, che non
sono scontate e immediate, ma vanno cercate con l’esplorazione e l’esperimento.
Facendo esperienza tra di loro e con l’apparato
inorganico si colgono rapporti e attinenze, come anche rifiuti e contrasti. Ma
qual è il modus operandi? L’ascolto degli agonisti nelle loro differenze
strutturali ed espressive; l’osservazione delle cose e l’ascolto delle loro potenzialità,
facilitati dall’attenzione a considerarli in forma dinamica e abbinati tra di
loro; la trasposizione di stati d’animo in pantomime e visioni, fornita dai
movimenti degli agonisti e dall’uso creativo delle cose; la costante attenzione
alle relazioni tra episodio scenico e ritmo, favorendo un utilizzo della musica
non di sfondo, ma come motore di movimento e visione.
Risulta chiaro che nel teatro di parola s’innesta
senza traumi il teatro di figura e il teatro danza, al di là delle distinzioni
gratuite e vincolanti.
In questa sinfonia di movimenti e ritmi, voci e
rumori, forme e colori la partecipazione degli agonisti è sinestesia: dal suono
al movimento, dalla parola alla musica, dalla visione al silenzio interiore e
così via.
E l’effetto sul pubblico? Anzitutto, lo spettatore
coglie l’invito a non indagare lo spettacolo applicando categorie razionali ed
estetiche consolidate. Entra nel flusso continuo e si lascia trasportare, non
ha il tempo di ponderare, non gli è consentito l’applauso, rimanda a dopo la
comprensione, non è un pubblico-critico quello che si cerca, ma un
pubblico-testimone. Assiste all’esperienza morbida degli agonisti, che non
hanno intenzioni provocatorie o illuminanti. Essi non hanno niente da spiegare,
non si aspettano riconoscimenti, non fanno né arte né politica né
sensibilizzazione sociale. Essi giocano-lottano per creare nello spazio chiuso
un mondo animato, dove l’uomo-interprete è solo uno degli elementi nell’ecologia
universale dell’anima mundi.
Finora che cosa abbiamo? Il fondale bianco, la
sedia-trono girevole bianca, l’ampio telo bianco che ricopre tutto il
palcoscenico, un porta abiti straripante di teli e costumi strambi di tutti i
colori, due cubi bianchi. Il fondale (agrivelo) consente di operare su due
livelli orizzontali: la scena anteriore e quella posteriore in controluce. Il
telo bianco su due livelli verticali: sopra e sotto il telo. La sedia consente
di: ruotare, alzarsi e abbassarsi. Il portabiti è una tavolozza che viene
spostata a piacimento sullo sfondo bianco. I due cubi consentono la seduta e
fanno da basamento monumentale.
S’intuisce la geometria complessa che scaturisce da
pochi elementi semplici ed economici.
Per completare, abbiamo anche le due bambole
gonfiabili (Drusilla e Mereia) che possono diventare: l’amante, una suddita da
stuprare, un senatore da uccidere, l’alter ego, l’uomo in generale nella sua assurdità…
e una volta gonfiate si possono sgonfiare, in un ciclo di vita e morte.
I singoli elementi sono come stelle e pianeti di un
planetario, oggetti inanimati. Ma non appena si mette in funzione il
meccanismo, essi entrano in relazione gli uni con le altre e l’universo prende
vita.
In parte, posso immaginare le potenzialità di ogni
singolo oggetto. Mi serve per testare e tarare il meccanismo. L’anima di ogni
elemento scenico viene comunque delineata durante le prove, quando un agonista
e un cubo si trovano di fronte. Che cosa fa l’uno dell’altro o che cosa fa l’uno
per l’altro? Un cubo di legno, abbiamo detto, fa da sedile o da basamento. Ma due
fanno anche da colonna. In un cubo cavo si può infilare Drusilla accartocciata.
Oppure tutto il telo bianco, che però non ci sta. Due cubi alle estremità del
telo bianco fungono da fermi. Un cubo può essere spinto o fatto rotolare, come
il masso di Sisifo.
Insomma, le proprietà di ogni singolo oggetto non
contano quanto le relazioni con gli altri, che danno origine a utilizzi diversi
e suggestioni inusuali.
Niente di più lontano, quindi, dal teatro di
ambientazione realistica, dalla recitazione psicologica, dalla riproduzione del
mondo fasullo in cui viviamo. Un teatro nostro che stiamo cercando senza avere
la certezza di trovarlo, perché le grandi scoperte e le esplorazioni di mondi
nuovi non hanno mai offerto un premio sicuro. Si va alla ventura, com’è giusto
che sia.
Oggi abbiamo provato quasi tutto l’atto primo, poche
pagine dopo i tagli effettuati. Avevamo tutti gli elementi previsti per la
messa in scena, anche la prima musica e le prime registrazioni di Caligola. La
macchina si è messa in moto, ora dobbiamo catturare i fulmini (intuizioni e
scoperte) che attivano il meccanismo per dare vita alla Creatura. Il nostro
Caligola-Frankenstein dà già qualche segno di vita.
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