lunedì 18 novembre 2013

CALIGOLA UNO

Un’impresa, questo Caligola. Sia perché Tecneke non è una compagnia di professionisti sia perché i tempi di Camus sono più letterari che teatrali. Come spesso succede. Elaboro un piano di regia non del tutto convincente, più che altro idee a tavolino, quelle provvisorie, scritte per combattere il senso di vuoto che si avverte all’inizio di una messa in scena. Purtroppo, e dico purtroppo perché le scelte registiche viaggerebbero su strade più praticate e più comode, non faccio teatro di estetismi, non m’interessa pensare a: bella scenografia, bella musica, belle luci, bella recitazione… Faccio teatro, non un salotto arredato dall’architetto d’interni. Ho bisogno di elementi concreti da accostare, attivare e contrapporre, sui quali costruire non una, ma le mille storie del testo. Ho bisogno di un palcoscenico rivitalizzato da persone alle quali si uniscono, in sinergia, teli e oggetti, fondali e luci, musiche e pantomime. Il teatro non ruota intorno all’attore recitante, ma all’interprete performante. Tutto ciò che viene relegato nella categoria della scenografia, dell’arredo e dell’oggettistica richiede di essere rivalutato e rivitalizzato. Un teatro animistico. Tutti i suoi elementi acquisiscono un’anima e queste anime di persone e di cose interagiscono… per quale scopo? Non per fare un investimento economico, non per vincere un premio, non per compiacere il narcisismo degli artisti, non per il piacere o l’edificazione del pubblico, non per cambiare la società, non per lanciare un messaggio. Si fa teatro per ritrovare il senso dell’esistenza come interazione di singole anime con l’anima mundi. Nel teatro si ritrovano e si riscoprono la verità, la bellezza, l’armonia della vita.

Funziona? Non lo so. Cerco di farlo funzionare per gli interpreti, me compreso. Non c’è distinzione tra attore, regista, musicista, scenografo, tecnico... Tutti sono agonisti, tutti concorrono non alla “riuscita” dello spettacolo (intesa come catalizzatore di applausi), ma all’autenticità dell’esperienza nello spazio chiuso interdetto al pubblico. La messa in scena ricorda l’attivazione del dottor Frankenstein di materiale biologico morto mediante l’utilizzo dell’energia elettrica naturale, fornita dai fulmini.
Chi vediamo sul palcoscenico? Attori morti, nel senso che devono lasciare la forma di vita che li identifica come individui sociali per assumere una nuova identità immaginaria, tanto più intensa quanto più radicata nelle nuove relazioni linguistiche e cinetiche tra di loro e con l’apparato inorganico costituito da scenografia, musica, oggetti, luci. L’energia che li rivitalizza è l’espressività significativa che deriva dalle relazioni, che non sono scontate e immediate, ma vanno cercate con l’esplorazione e l’esperimento.
Facendo esperienza tra di loro e con l’apparato inorganico si colgono rapporti e attinenze, come anche rifiuti e contrasti. Ma qual è il modus operandi? L’ascolto degli agonisti nelle loro differenze strutturali ed espressive; l’osservazione delle cose e l’ascolto delle loro potenzialità, facilitati dall’attenzione a considerarli in forma dinamica e abbinati tra di loro; la trasposizione di stati d’animo in pantomime e visioni, fornita dai movimenti degli agonisti e dall’uso creativo delle cose; la costante attenzione alle relazioni tra episodio scenico e ritmo, favorendo un utilizzo della musica non di sfondo, ma come motore di movimento e visione.
Risulta chiaro che nel teatro di parola s’innesta senza traumi il teatro di figura e il teatro danza, al di là delle distinzioni gratuite e vincolanti.
In questa sinfonia di movimenti e ritmi, voci e rumori, forme e colori la partecipazione degli agonisti è sinestesia: dal suono al movimento, dalla parola alla musica, dalla visione al silenzio interiore e così via.
E l’effetto sul pubblico? Anzitutto, lo spettatore coglie l’invito a non indagare lo spettacolo applicando categorie razionali ed estetiche consolidate. Entra nel flusso continuo e si lascia trasportare, non ha il tempo di ponderare, non gli è consentito l’applauso, rimanda a dopo la comprensione, non è un pubblico-critico quello che si cerca, ma un pubblico-testimone. Assiste all’esperienza morbida degli agonisti, che non hanno intenzioni provocatorie o illuminanti. Essi non hanno niente da spiegare, non si aspettano riconoscimenti, non fanno né arte né politica né sensibilizzazione sociale. Essi giocano-lottano per creare nello spazio chiuso un mondo animato, dove l’uomo-interprete è solo uno degli elementi nell’ecologia universale dell’anima mundi.

Finora che cosa abbiamo? Il fondale bianco, la sedia-trono girevole bianca, l’ampio telo bianco che ricopre tutto il palcoscenico, un porta abiti straripante di teli e costumi strambi di tutti i colori, due cubi bianchi. Il fondale (agrivelo) consente di operare su due livelli orizzontali: la scena anteriore e quella posteriore in controluce. Il telo bianco su due livelli verticali: sopra e sotto il telo. La sedia consente di: ruotare, alzarsi e abbassarsi. Il portabiti è una tavolozza che viene spostata a piacimento sullo sfondo bianco. I due cubi consentono la seduta e fanno da basamento monumentale.
S’intuisce la geometria complessa che scaturisce da pochi elementi semplici ed economici.
Per completare, abbiamo anche le due bambole gonfiabili (Drusilla e Mereia) che possono diventare: l’amante, una suddita da stuprare, un senatore da uccidere, l’alter ego, l’uomo in generale nella sua assurdità… e una volta gonfiate si possono sgonfiare, in un ciclo di vita e morte.
I singoli elementi sono come stelle e pianeti di un planetario, oggetti inanimati. Ma non appena si mette in funzione il meccanismo, essi entrano in relazione gli uni con le altre e l’universo prende vita.
In parte, posso immaginare le potenzialità di ogni singolo oggetto. Mi serve per testare e tarare il meccanismo. L’anima di ogni elemento scenico viene comunque delineata durante le prove, quando un agonista e un cubo si trovano di fronte. Che cosa fa l’uno dell’altro o che cosa fa l’uno per l’altro? Un cubo di legno, abbiamo detto, fa da sedile o da basamento. Ma due fanno anche da colonna. In un cubo cavo si può infilare Drusilla accartocciata. Oppure tutto il telo bianco, che però non ci sta. Due cubi alle estremità del telo bianco fungono da fermi. Un cubo può essere spinto o fatto rotolare, come il masso di Sisifo.
Insomma, le proprietà di ogni singolo oggetto non contano quanto le relazioni con gli altri, che danno origine a utilizzi diversi e suggestioni inusuali.
Niente di più lontano, quindi, dal teatro di ambientazione realistica, dalla recitazione psicologica, dalla riproduzione del mondo fasullo in cui viviamo. Un teatro nostro che stiamo cercando senza avere la certezza di trovarlo, perché le grandi scoperte e le esplorazioni di mondi nuovi non hanno mai offerto un premio sicuro. Si va alla ventura, com’è giusto che sia.


Oggi abbiamo provato quasi tutto l’atto primo, poche pagine dopo i tagli effettuati. Avevamo tutti gli elementi previsti per la messa in scena, anche la prima musica e le prime registrazioni di Caligola. La macchina si è messa in moto, ora dobbiamo catturare i fulmini (intuizioni e scoperte) che attivano il meccanismo per dare vita alla Creatura. Il nostro Caligola-Frankenstein dà già qualche segno di vita.

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