Giornata grigia. I ragazzi vivaci, troppo. Due giochi di
riscaldamento. Cerchio, uno pronuncia una sillaba “cantata”, nel senso che deve
essere una nota e non una dizione; via via ognuno aggiunge la propria ripetendo
tutte le precedenti. Anche in questo caso la tendenza è ripetere la sillaba del
compagno su una tonalità diversa. L’ invito a non considerare solo da, ma
bla, tol, miè… Il secondo gioco consiste nell’indossare un impermeabile.
Bisogna inventare una situazione. L’esempio che faccio viene ripreso e
ripetuto. Osservo che non devono limitarsi alla casa, ma immaginarsi in
ambienti come il ristorante, l’ospedale… ed elaborare una breve storia che giustifichi
i modi diversi (schifato, addolorato, irritato...) di indossare l’indumento.
Fanno sempre fatica a staccarsi dagli ambienti quotidiani: hanno scarsa
esperienza del mondo? vogliono sentirsi al sicuro? perché non fanno ricorso
alla loro cultura di film, libri, videogiochi? è una cultura così poco
produttiva? Faccio riflettere su alcune incongruenze. Raffaele solleva l’impermeabile
e lo annusa infastidito. Sta ragionando da attore onnisciente, non da
personaggio. “Mostri al pubblico le tue intenzioni, invece di nasconderle; tu
sai già tutto, e lo riveli. Che l’impermeabile puzzi è una scoperta, non un’esibizione.”
Errore comune, questo di lavorare sulla scena da attore e non da personaggio.
Si comanda a sé stessi avendo in mente lo sviluppo dell’opera, invece di
viverla momento per momento, svelando via via le emozioni. Qualche altra
osservazione e poi via, si comincia.

Andiamo avanti con la lettura. Devo combattere su due fronti:
con gli interpreti e con il testo. È inevitabile che il testo risulti
letterario. L’ho scritto per me, non per i bambini. Ora devo adottarlo a loro.
Troppo lungo, provvedo a tagliare. Mi appaiono le prime difficoltà come
ostacoli insormontabili: sempre tutti in scena, ma dove li metto? a fare che
cosa? Devo trovare una linea musicale comune, che fondi i mediatori con i
personaggi. Devo veleggiare verso la concentrazione, l’immobilità vibrante, la…
trasformazione. Il concetto è difficile. Non posso discuterne con loro, non
capirebbero. Devo ricorrere a stimoli fisici, ma anche questo appare troppo
difficile. Li invito a cercare un registro vocale diverso, a fare esperimenti
su di sé. Quando riescono a emettere un suono più nasale (ma non troppo), o più
scuro (ma non troppo, per non fare teatrino), lo tengono per due battute, poi
se ne dimenticano. E la postura? Cinque secondi, poi il corpo si raddrizza.
Ecco le due direzioni di lavoro: la continuità dell’espressione fisica che garantisca
coerenza, e non questa bailamme babelica; e la flessibilità mentale che
supporti la ricerca di soluzioni. La trasformazione implica che l’interprete
esca da sé stesso, si dimentichi; e affronti un viaggio verso un altro da sé,
senza arrovellarsi sulla corrispondenza psicologica: il personaggio nascerà da
una trasformazione che soddisfi a prescindere dalle linee psicologiche, utili
solo come stimolo iniziale.
Ripetiamo il pezzo del coro sorretto dalle percussioni dei
mediatori. Si ricordano, ma con molte sbavature. Molti ragazzi faticano a
capire la necessità della perfezione. Badano al risultato, non alla sua
qualità. Correggo i tempi, che devono essere precisi. Rendo più incisive le
voci. Anche qui, sono richieste attenzione, concentrazione, precisione,
pazienza, coordinazione, cooperazione… e per i miei piccoli grandi interpreti
non sono comportamenti facili.
Bene, a casa ho tanti problemi da risolvere. Ma il teatro è
appunto questo. Una “fabbrica del duomo”, una costruzione mai terminata (lo
diceva anche Salvini, il “grande attore” di fine Ottocento: uno spettacolo
viene rifinito durante le repliche, e la sua preparazione non finisce mai), un’utopia
che presenta molte più difficoltà rispetto ad altre arti. Anzitutto, si lavora in
gruppo e la volontà dell’uno deve sempre confrontarsi con quella degli altri.
Poi si lavora con idee di spazio e movimento che devono essere concretizzate. C’è
un continuo confronto tra il sogno e la realtà di oggetti che al confronto
risultano vili e inadeguati. Infine, la battaglia con la parola. Il testo non è
mai un teatro, ma una porta su mille possibili teatri. La sua messa in scena è
faticosa perché deve fare i conti con le esegesi, gli interpreti, le risorse.
Tutto per una sera, una soltanto. Irripetibile, come lo è l’esistenza.
Giornata grigia. Ma il sole torna, certo che torna.
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