mercoledì 16 novembre 2016

L'ATTORE E LA TRASFORMAZIONE.


L’elemento più misterioso, nella storia del teatro, è l’attore. Fin dall’inizio, dal ditirambo lirico di Arione di Metimna a quello scenico di Tespi, preludi alla tragedia greca, preceduti dalle forme dialogiche mediorientali (lo straordinario Dialogo del pessimismo mesopotamico) e dalle drammatizzazioni sacre dei faraoni, l’attore è uno sciamano visitato dal dio e dalla divinità attinge l’energia per declamare e cantare cose che stanno tra la terra e il cielo. Un essere, quindi, diverso e perfino inquietante, perché sulla scena è un presente-assente, tale e quale allo sciamano, una multi-personalità che può rappresentare-essere qualunque altro uomo, oppure un eroe, e perfino un dio.

L’ultimo a riconoscergli questo afflato divino è però Platone. Con l’Ellenismo l’attore si avvia al professionismo e non cerca più il contatto con il soprannaturale, ma la tecnica per meglio accattivarsi il pubblico. D’ora in poi è il pubblico che fa l’attore, invece che, purtroppo, il contrario. Di tecnica teatrale non si parla e non si scrive e i teorici dell’espressione in pubblico si concentrano solo sull’oratoria. È l’oratoria l’arte nobile della parola, quella che fa vincere i processi e che consolida la carriera politica, e che contribuisce a edificare imperi commerciali. 

Cicerone, Quintiliano e altri si esprimono, in termini piuttosto vaghi, su come declamare concetti, aggiungendo all’esperienza dei sofisti il gesto e la mimica facciale. Il teatro si svilisce, degradato a spettacolo sullo stesso livello dei ludi gladiatori, dei mimi di strada, dei giocolieri. Decorosa è solo la lettura privata colta riservata ai nobili e presentata nei salotti esclusivi dell’élite intellettuale. Chi fa teatro è lo schiavo o il poveraccio che eredita il mestiere e impara osservando quelli che hanno esperienza. Teatro di corpo, più che di parola. Di aprire una scuola drammatica a nessuno viene in mente, e questo per secoli e secoli.

La Chiesa dedica un’attenzione paranoica al teatro (come ad altre cose). Viene ossessionata dai corpi esibiti, dalle parole non censurate, e soprattutto dall’effetto che la scena ha sullo spettatore. L’attore non è un oratore decoroso e forbito, ma un demone che si trasforma in… in Anticristo. Se Dio è verità, l’attore è menzogna. Egli è il doppio, ciò che sfugge alla definizione logica. Egli è l’inidentificabile e l’ingovernabile. D’altronde, la metamorfosi appartiene al paganesimo. Lo testimoniano i miti e i grandi scrittori come Ovidio. L’attore è l’estensione vivente dei falsi dei. La chiesa, e non solo, bandisce l’immaginazione libera, ammettendo (come già Platone) solo ciò che è riconducibile alla natura visibile. Il teatro è copia della realtà in senso moraleggiante. Altrimenti, è metamorfosi peccaminosa.

La questione dell’imitatio naturae riguarda tutte le arti e riempie biblioteche intere. Si sono sprecate tonnellate di parole per dire cose che non dicono niente. In ambito teatrale sorge un’altra questione, quella dell’emozionalismo: pro o contro? E il sec. XIII s’infiamma. L’attore deve provare davvero le emozioni che porta sulla scena? O deve solo sviluppare la tecnica per interpretarle e trasmetterle in modo convincente al pubblico? Diderot è il più autorevole: nessun attore si emoziona davvero, il teatro è un gioco di finzione. Ma l’Ottocento si scalda e i grandi attori e i mattatori di fine secolo (da Salvini alla Duse) ci danno a intendere che l’attore diventa realmente il personaggio, soffrendo e gioendo sulla scena con la stessa intensità del personaggio-persona. L’eredità viene raccolta da Stanislavskij in un’epoca che vede finalmente aprirsi vere scuole di teatro, con un fiorire incredibile di teorie sull’arte drammatica tutta intera: interpretazione, scenografia, musica…

Ora la questione è: essere o non essere il personaggio? Il Metodo o Psicotecnica di Stanislavskij ha condizionato l’evento teatrale non solo degli entusiasti, ma inevitabilmente anche dei critici: nessuno può fare a meno di confrontarsi con le sue conclusioni. Che rimangono a ogni modo aperte, dato che in fin di vita ha dato il via a un nuovo metodo fondato sulle azioni fisiche, che è stato altrettanto stimolante.

A che cosa e per che cosa deve prepararsi l’attore? Ricorrendo alla memoria emotiva, all’immaginazione, alla ricerca, al se magico, alle azioni fisiche… egli si rende disponibile a una trasformazione. In che cosa? Ecco il punto. In che cosa si trasforma l’attore? Molti teorici, Stanislavskij compreso, insegnano che l’attore deve rinunciare a sé stesso, farsi da parte per dare spazio al personaggio in fieri… ma allo stesso tempo impegnano l’attore in una serie di attività tutte incentrate su sé stesso, un’indagine psicologica ed emotiva profonda e coinvolgente. L’attore è quindi potenziato, e non messo in ombra.

Lavorando con i ragazzi, e non essendo il mio laboratorio una scuola con presenze giornaliere, ma settimanali, e per solo un’ora e mezzo, non posso certo proporre il Metodo. Diviene impossibile non solo per il tempo a disposizione, ma anche per l’età degli interpreti, la cui esperienza di vita e la cui potenzialità espressiva sono limitate. Si affronta la questione “emozionalista”, certo. Si discute su come “entrare” in un personaggio, sicuro. Ma ciò che mi interessa non è tanto la questione dell’interpretazione, quanto quella della trasformazione.

L’attore ha da sempre generato sconcerto, paura, curiosità, irritazione (ricordiamoci di Solone e di tutti i detrattori del teatro)… perché è un essere in metamorfosi. Che cosa diventa quando la trasformazione è compiuta? Questo è il mistero su cui indagare. Nel video che ho girato sulla lettura che Giulio fa di Medea, appare evidente quanto il ragazzino si stia trasformando. Egli non è più Giulio, ma non è nemmeno Medea. Sembra che sia consapevole del cambiamento che interviene in sé stesso: i gesti che non gli appartengono, la voce che non è quella quotidiana, la concentrazione come un ripiegamento in sé, gli occhi chiusi, la pausa finale… tutti indizi di un viaggio sciamanico, un volare in un mondo diverso, sopra la realtà, dentro una comunicazione che risulta efficace senza che sia possibile definirne i motivi, che non ci offre una Merdea “realistica”, assolutamente. Giulio non ricrea la realtà non la copia, non cerca la mimesi aristotelica con una donna madre-moglie-maga-strega-divinità-infernale che esula dalla sua esperienza di vita. Egli esprime qualcosa che ha dentro, e che gli viene suggerito… dal dio, direbbe Platone. Dal teatro, dico io. Il teatro invita al cambiamento, alla metamorfosi. E questo è il lavoro che voglio svolgere con i ragazzi. Portarli verso una trasformazione di sé, per vie misteriose.

In conclusione, non l’attore e l’interpretazione; ma l’attore e la trasformazione.

Ecco la battuta di Medea:

MEDEA         Andate in casa. In silenzio. In camera mia. Sul mio letto. Vi raggiungo. Ho qualcosa per voi. No, non dite niente. In silenzio, ho detto. È una sorpresa. Facciamo tutto in silenzio. È una cosa che riguarda solo noi.


Ma che cosa implica la trasformazione?

Una rottura con il passato, uno stacco dalla quotidianità, una disponibilità al cambiamento e all’acquisizione di nuovi aspetti della personalità, una libertà interiore, un’anarchia positiva, uno scetticismo verso il consolidato, verso il sistema… L’uomo comune pone tra i massimi valori la stabilità e la sicurezza, il dogma politico e religioso, la comunità come status quo, l’immutabilità del mondo… e l’attore che opera la trasformazione sulla scena dà quindi il via a una piccola rivoluzione individuale e personale. Il che non piace a tutti. Ma il riferimento al cambiamento sarà approfondito prossimamente, con i riferimenti ai riti di passaggio. Come ho già scritto (“Il teatro come rito di passaggio incompiuto”) la trasformazione dell’attore in personaggio avviene nell’area centrale e misteriosa del rito, quando l’iniziando è al di fuori della società, in cui rientra accettandone le regole. Ma l’attore, ahimé, ci si ferma, ebbro di libertà creativa.

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