L’elemento più misterioso, nella
storia del teatro, è l’attore. Fin dall’inizio, dal ditirambo lirico di Arione
di Metimna a quello scenico di Tespi, preludi alla tragedia greca, preceduti
dalle forme dialogiche mediorientali (lo straordinario Dialogo del
pessimismo mesopotamico) e dalle drammatizzazioni sacre dei faraoni, l’attore
è uno sciamano visitato dal dio e dalla divinità attinge l’energia per declamare
e cantare cose che stanno tra la terra e il cielo. Un essere, quindi, diverso e
perfino inquietante, perché sulla scena è un presente-assente, tale e quale
allo sciamano, una multi-personalità che può rappresentare-essere qualunque
altro uomo, oppure un eroe, e perfino un dio.
L’ultimo a riconoscergli questo
afflato divino è però Platone. Con l’Ellenismo l’attore si avvia al
professionismo e non cerca più il contatto con il soprannaturale, ma la tecnica
per meglio accattivarsi il pubblico. D’ora in poi è il pubblico che fa l’attore,
invece che, purtroppo, il contrario. Di tecnica teatrale non si parla e non si
scrive e i teorici dell’espressione in pubblico si concentrano solo sull’oratoria.
È l’oratoria l’arte nobile della parola, quella che fa vincere i processi e che
consolida la carriera politica, e che contribuisce a edificare imperi
commerciali.
Cicerone, Quintiliano e altri si esprimono, in termini piuttosto
vaghi, su come declamare concetti, aggiungendo all’esperienza dei sofisti il
gesto e la mimica facciale. Il teatro si svilisce, degradato a spettacolo sullo
stesso livello dei ludi gladiatori, dei mimi di strada, dei giocolieri.
Decorosa è solo la lettura privata colta riservata ai nobili e presentata nei
salotti esclusivi dell’élite intellettuale. Chi fa teatro è lo schiavo o il
poveraccio che eredita il mestiere e impara osservando quelli che hanno
esperienza. Teatro di corpo, più che di parola. Di aprire una scuola drammatica
a nessuno viene in mente, e questo per secoli e secoli.
La Chiesa dedica un’attenzione
paranoica al teatro (come ad altre cose). Viene ossessionata dai corpi esibiti,
dalle parole non censurate, e soprattutto dall’effetto che la scena ha sullo spettatore.
L’attore non è un oratore decoroso e forbito, ma un demone che si trasforma in…
in Anticristo. Se Dio è verità, l’attore è menzogna. Egli è il doppio, ciò che
sfugge alla definizione logica. Egli è l’inidentificabile e l’ingovernabile. D’altronde,
la metamorfosi appartiene al paganesimo. Lo testimoniano i miti e i grandi
scrittori come Ovidio. L’attore è l’estensione vivente dei falsi dei. La
chiesa, e non solo, bandisce l’immaginazione libera, ammettendo (come già
Platone) solo ciò che è riconducibile alla natura visibile. Il teatro è copia
della realtà in senso moraleggiante. Altrimenti, è metamorfosi peccaminosa.
La questione dell’imitatio naturae
riguarda tutte le arti e riempie biblioteche intere. Si sono sprecate
tonnellate di parole per dire cose che non dicono niente. In ambito teatrale
sorge un’altra questione, quella dell’emozionalismo: pro o contro? E il sec.
XIII s’infiamma. L’attore deve provare davvero le emozioni che porta sulla
scena? O deve solo sviluppare la tecnica per interpretarle e trasmetterle in
modo convincente al pubblico? Diderot è il più autorevole: nessun attore si
emoziona davvero, il teatro è un gioco di finzione. Ma l’Ottocento si scalda e
i grandi attori e i mattatori di fine secolo (da Salvini alla Duse) ci danno a
intendere che l’attore diventa realmente il personaggio, soffrendo e gioendo
sulla scena con la stessa intensità del personaggio-persona. L’eredità viene
raccolta da Stanislavskij in un’epoca che vede finalmente aprirsi vere scuole
di teatro, con un fiorire incredibile di teorie sull’arte drammatica tutta
intera: interpretazione, scenografia, musica…
Ora la questione è: essere o non
essere il personaggio? Il Metodo o Psicotecnica di Stanislavskij ha
condizionato l’evento teatrale non solo degli entusiasti, ma inevitabilmente
anche dei critici: nessuno può fare a meno di confrontarsi con le sue
conclusioni. Che rimangono a ogni modo aperte, dato che in fin di vita ha dato
il via a un nuovo metodo fondato sulle azioni fisiche, che è stato altrettanto
stimolante.
A che cosa e per che cosa deve
prepararsi l’attore? Ricorrendo alla memoria emotiva, all’immaginazione, alla
ricerca, al se magico, alle azioni fisiche… egli si rende disponibile a una
trasformazione. In che cosa? Ecco il punto. In che cosa si trasforma l’attore?
Molti teorici, Stanislavskij compreso, insegnano che l’attore deve rinunciare a
sé stesso, farsi da parte per dare spazio al personaggio in fieri… ma
allo stesso tempo impegnano l’attore in una serie di attività tutte incentrate
su sé stesso, un’indagine psicologica ed emotiva profonda e coinvolgente. L’attore
è quindi potenziato, e non messo in ombra.
Lavorando con i ragazzi, e non
essendo il mio laboratorio una scuola con presenze giornaliere, ma settimanali,
e per solo un’ora e mezzo, non posso certo proporre il Metodo. Diviene
impossibile non solo per il tempo a disposizione, ma anche per l’età degli
interpreti, la cui esperienza di vita e la cui potenzialità espressiva sono
limitate. Si affronta la questione “emozionalista”, certo. Si discute su come “entrare”
in un personaggio, sicuro. Ma ciò che mi interessa non è tanto la questione
dell’interpretazione, quanto quella della trasformazione.
L’attore ha da sempre generato sconcerto,
paura, curiosità, irritazione (ricordiamoci di Solone e di tutti i detrattori
del teatro)… perché è un essere in metamorfosi. Che cosa diventa quando la
trasformazione è compiuta? Questo è il mistero su cui indagare. Nel video che
ho girato sulla lettura che Giulio fa di Medea, appare evidente quanto il
ragazzino si stia trasformando. Egli non è più Giulio, ma non è nemmeno Medea. Sembra
che sia consapevole del cambiamento che interviene in sé stesso: i gesti che
non gli appartengono, la voce che non è quella quotidiana, la concentrazione
come un ripiegamento in sé, gli occhi chiusi, la pausa finale… tutti indizi di
un viaggio sciamanico, un volare in un mondo diverso, sopra la realtà, dentro una
comunicazione che risulta efficace senza che sia possibile definirne i motivi,
che non ci offre una Merdea “realistica”, assolutamente. Giulio non ricrea la
realtà non la copia, non cerca la mimesi aristotelica con una donna
madre-moglie-maga-strega-divinità-infernale che esula dalla sua esperienza di
vita. Egli esprime qualcosa che ha dentro, e che gli viene suggerito… dal dio,
direbbe Platone. Dal teatro, dico io. Il teatro invita al cambiamento, alla
metamorfosi. E questo è il lavoro che voglio svolgere con i ragazzi. Portarli
verso una trasformazione di sé, per vie misteriose.
In conclusione, non l’attore e l’interpretazione;
ma l’attore e la trasformazione.
Ecco la battuta di Medea:
MEDEA Andate
in casa. In silenzio. In camera mia. Sul mio letto. Vi raggiungo. Ho qualcosa
per voi. No, non dite niente. In silenzio, ho detto. È una sorpresa. Facciamo
tutto in silenzio. È una cosa che riguarda solo noi.
Ma che cosa implica la
trasformazione?
Una rottura con il passato, uno
stacco dalla quotidianità, una disponibilità al cambiamento e all’acquisizione
di nuovi aspetti della personalità, una libertà interiore, un’anarchia positiva,
uno scetticismo verso il consolidato, verso il sistema… L’uomo comune pone tra
i massimi valori la stabilità e la sicurezza, il dogma politico e religioso, la
comunità come status quo, l’immutabilità del mondo… e l’attore che opera la
trasformazione sulla scena dà quindi il via a una piccola rivoluzione
individuale e personale. Il che non piace a tutti. Ma il riferimento al
cambiamento sarà approfondito prossimamente, con i riferimenti ai riti di
passaggio. Come ho già scritto (“Il teatro come rito di passaggio incompiuto”)
la trasformazione dell’attore in personaggio avviene nell’area centrale e misteriosa
del rito, quando l’iniziando è al di fuori della società, in cui rientra
accettandone le regole. Ma l’attore, ahimé, ci si ferma, ebbro di libertà
creativa.
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