Venerdì 17 maggio 2013 si presenta
l’associazione Tecneke presso l’Enaip di Oleggio. La sala contiene sedie per
una cinquantina di persone e molte restano in piedi. Il direttivo stabilisce
con i presenti una relazione informale. Illustra le finalità e il programma
artistico, quindi fornisce alcune informazioni sui due trailer. Prima si
rappresenta “Death watch”, una quindicina di minuti con la parte iniziale e
quella finale. Poi dieci minuti dall’inizio di “L’ultima fermata”.
In questo pezzo, le attrici si relazionano
con il pubblico, loro referente diretto. I loro sguardi espliciti portano il
pubblico sulla scena, lo rendono non solo spettatore, ma anche partner, consentendogli
di stabilire una complicità che viene apprezzata. Il pubblico è abituato dalla
televisione a essere considerato parte dell’evento e personaggio attivo (può
telefonare in diretta). Si sente rassicurato dal rapporto con gli attori, sia
perché viene riconosciuto come testimone sia perché ha l’illusione di poter
dare un contributo alla rappresentazione mediante l’applauso e il giudizio
etico ed estetico. Ma ciò che più lo gratifica è una sorta di sudditanza
espressa dai teatranti nei suoi confronti: siamo qui per te, recitiamo per te,
ti concediamo l’arbitrio dell’applauso e dell’espressione verbale sia come apprezzamento
sia come rigetto. Il pubblico è riconosciuto come presenza giudicante. Il
teatro un tribunale: gli attori-imputati espongono i fatti e la giuria-pubblico
esprime la sentenza. Oppure un colloquio d’esame: l’attore-candidato dà prova
delle proprie capacità e l’esaminatore lo premia o lo punisce con un voto.
Ma, soprattutto, si rinnova, a teatro,
il rito sociale della rete di rapporti: tutti in comunicazione con tutti, tutti
con diritto di parola e di critica. Rassicurante. Se l’altro mi si rivolge,
decide di comunicare con me, e attende il mio giudizio, è uno come me, non è un
estraneo, non è una minaccia.
E' il teatro al quale siamo abituati. Di pensiero, di emozione, di trasmissione di valori e atteggiamenti, di comunicazione diretta. Dalla tragedia greca al Grande Attore ottocentesco, e da Pirandello ai narratori contemporanei, il teatro trova definizione nel pubblico, che lo giustifica e lo vitalizza. Gli innovatori del Novecento, a partire da Artaud, hanno acceso laboratori, che ancora non si sono spenti, per dare un senso più profondo alla presenza del pubblico, facendola diventare partecipazione. Il Teatro della Crudeltà diffonde la Peste tra gli spettatori, ossia una visione dell'uomo più autentica e profonda, che conduca a un mondo nuovo. Ma c'è anche chi dal pubblico si ritira, come Grotowski, che non produce più spettacoli, ma solo laboratori al chiuso, ad uso e consumo dei soli attori. Teatro come indagine di sé e del mondo, delle relazioni con gli altri e con il cosmo.
Il pubblico, in un'altra prospettiva, non dovrebbe accedere
al luogo della rappresentazione per sentirsi più protagonista dei protagonisti,
per vedersi benservito fino alla piaggeria, per essere investito del potere di emanare
sentenze e giudizi. La sua attivazione come “pubblico utile”, che contribuisce
alla riuscita dello spettacolo con attribuzioni di senso individuali e diverse
fino alla contrapposizione, pone l’attore nella condizione di asservire la
propria interpretazione all’umore, alla comprensione e al gusto dello
spettatore, conferendole la forma che meglio si adegua alla massima
condivisione possibile. È inevitabile che l’attore si ponga la questione, in
ogni momento dello spettacolo, se la sua performance sia gradita e apprezzata.
Si preoccupa di intuire l’atteggiamento interiore del pubblico spiandolo e
mettendosi in ascolto, creandosi l’aspettativa del plauso o perlomeno dell’approvazione.
Tutto questo costituisce una distrazione enorme e limita l’efficacia delle sue
interrelazioni sceniche. Qual è la finalità del suo agire, forse il piacere
dello spettatore? E perché non il proprio? L’illuminazione dello spettatore? E
perché non la propria? L’attore deve agire per sé, per i compagni, per la
scena. Automaticamente la sua energia si riverbera sul pubblico, che l’accoglie
come un dono.
Attore e pubblico sono in due dimensioni
diverse e cercare di farle combaciare porta alla distruzione di ambedue: l’attore
si contamina e diventa in parte spettatore degli spettatori; lo spettatore si
sente in dovere di recitare la parte di chi assiste e giudica. La scena è un
luogo proibito al pubblico, è ermetico, esclusivo. Se lo si apre, il pubblico
si rivela invadente, inquinante, condizionante, disturbante.
Gli attori di “Death watch” non
stabiliscono alcuna relazione. Sanno che c’è il pubblico, ma lo ignorano e non
gli concedono niente, se non uno sguardo profondo e diretto in un solo momento
e per un tempo breve. Sono liberi di
utilizzare lo spazio nella massima libertà, senza più l’obbligo del viso alla
platea. Possono recitare dando le spalle. Un simile atteggiamento raggela. Il
pubblico, che percepisce la chiusura del luogo scenico, non reagisce con
distacco, ma acuisce la propria presenza come se dovesse aguzzare la vista e
tendere le orecchie. L’attenzione è quindi accentuata ed è una reazione
normale. Tutti osservano con maggiore distacco ciò che è nitido e vicino;
mentre impegnano di più l’attenzione se l’immagine si nega per la lontananza o la
mancanza di chiarezza.
Nello spettatore scatta il voyeurismo, il piacere di spiare dal
buco della serratura, la ripicca di esagerare la cordialità verso chi si mostra
restio, la curiosità di indagare su ciò che si nasconde. Egli, pur nella
tensione di un’attenzione acuita, si rilassa perché l’attore non lo impegna in
un rapporto diretto che a volte risulta imbarazzante e irrispettoso del
reciproco spazio privato. Scopre che i rapporti sociali possono essere più un
dovere che un piacere. Lo spettatore si sente responsabilizzato. Non è l’attore
a doverlo attivare nell’attenzione, nella comprensione e nel godimento
estetico, ma è lui stesso che deve farsi presenza empatica.
La carica drammatica non viene
soffocata, ma evidenziata. Recitare nel luogo chiuso, tagliare fuori il
pubblico dalla rappresentazione, non fa che accentuarne la forza espressiva. assoggetta
Se pensiamo al teatro di “quarta
parete”, quanto scritto sopra appare ingiustificato. Anche nel dramma borghese e
soprattutto nel teatro realista il pubblico “spia” ciò che avviene sul
palcoscenico. Ma l’atteggiamento dell’attore è del tutto diverso. Egli adegua
ogni spostamento e ogni gesto alla consapevolezza di un pubblico frontale, con
il quale stabilisce un contatto continuo di energia. Egli recita per il
pubblico, non per sé stesso o per i compagni di scena.
L’attore di “Death watch” si comporta
come un bambino assorto in un gioco appassionante. Egli esclude dalla sua sfera
d’azione tutto ciò che lo circonda. Osservato, non si sente per niente
disturbato e prosegue imperterrito nella sua condotta. Se qualcuno lo chiama,
se qualcuno esprime giudizi, se qualcuno applaude… egli non sente. La percepisce
a livello sensoriale, ma non elabora l’informazione, che ritiene inconsistente.
Il suo gioco è vivo, ma la biologia che lo sostiene è aliena, appartiene a un
mondo diverso, nel quale le regole della quotidianità sono stravolte. Il corpo
non agisce per utilità, ma per puro piacere espressivo, raccordando muscoli,
spazio, voce e ritmo.
La determinazione attoriale a condurre
il gioco per sé e per i compagni, escludendo il mondo, accresce il fascino di
quanto va facendo e crea, nello spettatore, l’incanto dell’incomprensibile e
del segreto, del misterico e dell’esclusivo. Indirizza lo spettatore non verso
l’immedesimazione con il personaggio, ma con l’attore. Perché è l’attore-danzatore
che lo spettatore osserva, non il personaggio. Sente nascere in sé il desiderio
di emularlo, di fare parte della congrega magica sul palcoscenico, di varcare
la soglia del luogo chiuso per avvicinarsi ai rituali del corpo espressivo.
In conclusione, l’esclusione del
pubblico è la strategia per la sua attivazione sensoriale. L’attore non lo blandisce
per strapparne l’applauso. Non cerca in esso il riconoscimento della propria
arte e la gratificazione dell’Io. Non lo aggredisce per esibire la forza
interpretativa che può ridursi a effettaccio. Non lo rincorre con parole tornite
per spingerlo ad affrontare esegesi testuali e registiche. Non si sottomette al
suo umore variabile e al suo potere massmediale.
L’attore propone un gioco, fornisce un
esempio di vita, conduce un agone nel quale è comunque vincitore, è ciò che fa
senza esibirsi, vive una tempesta di emozioni e un idillio di pacificazione, si
trasforma in ritmo, si tuffa nella parola e nuota per attraversare fiumi
impetuosi, riconosce sé stesso nei compagni di scena, tutti agonisti senza
competizione, dato che la contesa è con sé stessi, nella propria carne, nella
propria verità.
Ecco, questo potrebbe essere il punto di
partenza per un teatro Non o per un Nonteatro. La negazione del pubblico è una
spinta in una direzione precisa. Verso la negazione della scenografia, della
recitazione, della musica, della luce, della voce, dell’amministrazione
quotidiana del corpo. Non si tratta di negazione come nichilismo.
Negare significa distillare. Togliere l’accumulo
di pensiero convergente, di consuetudine e ritualità appassita, di mascherature
tristi, di convenzioni insensate e ricominciare dal locale svuotato di tutto,
uno spazio lindo da riempire con l’immaginazione.
Ricominciare dal niente o dal poco per
inserire nello spazio chiuso solo l’essenziale significativo che nulla tolga
alla centralità del corpo. I giochi d’immaginazione dei bambini non attingono
la loro ricchezza dai centri commerciali, ma dalle scoperte di oggetti
rifiutati, relitti di spazzatura, o reperti naturali, organici e non, o dalle
evocazioni, formule magiche che creano situazioni.
Il Nonteatro ha come riferimento il
corpo-mente in grado di sopperire con un gesto suggestivo o con l’utilizzo inconsueto
di un oggetto alla mancanza di strutture. Il Nonteatro produce da sé lo spazio
teatrale, l’arredo dello spazio e l’attore spazializzato in un contesto di
parole. Il Nonteatro non è però ideologia integralista. Chi fa piazza pulita
per rinnovare, non ha preconcetti. Utilizza ciò che ha a disposizione, e quindi
lo spazio teatrale rifiutato può ospitare senza preclusioni luci led, radiomicrofoni,
computer, impianti di amplificazione. Il teatro Non è forma mentale, non eresia
pauperistica. Cerca la propria originalità eliminando strutture obsolete e
sovrastrutture, verso un’identità nitida e forte.
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