lunedì 20 maggio 2013

NONTEATRO O TEATRO NON


Venerdì 17 maggio 2013 si presenta l’associazione Tecneke presso l’Enaip di Oleggio. La sala contiene sedie per una cinquantina di persone e molte restano in piedi. Il direttivo stabilisce con i presenti una relazione informale. Illustra le finalità e il programma artistico, quindi fornisce alcune informazioni sui due trailer. Prima si rappresenta “Death watch”, una quindicina di minuti con la parte iniziale e quella finale. Poi dieci minuti dall’inizio di “L’ultima fermata”.
In questo pezzo, le attrici si relazionano con il pubblico, loro referente diretto. I loro sguardi espliciti portano il pubblico sulla scena, lo rendono non solo spettatore, ma anche partner, consentendogli di stabilire una complicità che viene apprezzata. Il pubblico è abituato dalla televisione a essere considerato parte dell’evento e personaggio attivo (può telefonare in diretta). Si sente rassicurato dal rapporto con gli attori, sia perché viene riconosciuto come testimone sia perché ha l’illusione di poter dare un contributo alla rappresentazione mediante l’applauso e il giudizio etico ed estetico. Ma ciò che più lo gratifica è una sorta di sudditanza espressa dai teatranti nei suoi confronti: siamo qui per te, recitiamo per te, ti concediamo l’arbitrio dell’applauso e dell’espressione verbale sia come apprezzamento sia come rigetto. Il pubblico è riconosciuto come presenza giudicante. Il teatro un tribunale: gli attori-imputati espongono i fatti e la giuria-pubblico esprime la sentenza. Oppure un colloquio d’esame: l’attore-candidato dà prova delle proprie capacità e l’esaminatore lo premia o lo punisce con un voto.
Ma, soprattutto, si rinnova, a teatro, il rito sociale della rete di rapporti: tutti in comunicazione con tutti, tutti con diritto di parola e di critica. Rassicurante. Se l’altro mi si rivolge, decide di comunicare con me, e attende il mio giudizio, è uno come me, non è un estraneo, non è una minaccia.
E' il teatro al quale siamo abituati. Di pensiero, di emozione, di trasmissione di valori e atteggiamenti, di comunicazione diretta. Dalla tragedia greca al Grande Attore ottocentesco, e da Pirandello ai narratori contemporanei, il teatro trova definizione nel pubblico, che lo giustifica e lo vitalizza. Gli innovatori del Novecento, a partire da Artaud,  hanno acceso laboratori, che ancora non si sono spenti, per dare un senso più profondo alla presenza del pubblico, facendola diventare partecipazione. Il Teatro della Crudeltà diffonde la Peste tra gli spettatori, ossia una visione dell'uomo più autentica e profonda, che conduca a un mondo nuovo. Ma c'è anche chi dal pubblico si ritira, come Grotowski, che non produce più spettacoli, ma solo laboratori al chiuso, ad uso e consumo dei soli attori. Teatro come indagine di sé e del mondo, delle relazioni con gli altri e con il cosmo.

Il pubblico, in un'altra prospettiva, non dovrebbe accedere al luogo della rappresentazione per sentirsi più protagonista dei protagonisti, per vedersi benservito fino alla piaggeria, per essere investito del potere di emanare sentenze e giudizi. La sua attivazione come “pubblico utile”, che contribuisce alla riuscita dello spettacolo con attribuzioni di senso individuali e diverse fino alla contrapposizione, pone l’attore nella condizione di asservire la propria interpretazione all’umore, alla comprensione e al gusto dello spettatore, conferendole la forma che meglio si adegua alla massima condivisione possibile. È inevitabile che l’attore si ponga la questione, in ogni momento dello spettacolo, se la sua performance sia gradita e apprezzata. Si preoccupa di intuire l’atteggiamento interiore del pubblico spiandolo e mettendosi in ascolto, creandosi l’aspettativa del plauso o perlomeno dell’approvazione. Tutto questo costituisce una distrazione enorme e limita l’efficacia delle sue interrelazioni sceniche. Qual è la finalità del suo agire, forse il piacere dello spettatore? E perché non il proprio? L’illuminazione dello spettatore? E perché non la propria? L’attore deve agire per sé, per i compagni, per la scena. Automaticamente la sua energia si riverbera sul pubblico, che l’accoglie come un dono.
Attore e pubblico sono in due dimensioni diverse e cercare di farle combaciare porta alla distruzione di ambedue: l’attore si contamina e diventa in parte spettatore degli spettatori; lo spettatore si sente in dovere di recitare la parte di chi assiste e giudica. La scena è un luogo proibito al pubblico, è ermetico, esclusivo. Se lo si apre, il pubblico si rivela invadente, inquinante, condizionante, disturbante.

Gli attori di “Death watch” non stabiliscono alcuna relazione. Sanno che c’è il pubblico, ma lo ignorano e non gli concedono niente, se non uno sguardo profondo e diretto in un solo momento e per un tempo breve.  Sono liberi di utilizzare lo spazio nella massima libertà, senza più l’obbligo del viso alla platea. Possono recitare dando le spalle. Un simile atteggiamento raggela. Il pubblico, che percepisce la chiusura del luogo scenico, non reagisce con distacco, ma acuisce la propria presenza come se dovesse aguzzare la vista e tendere le orecchie. L’attenzione è quindi accentuata ed è una reazione normale. Tutti osservano con maggiore distacco ciò che è nitido e vicino; mentre impegnano di più l’attenzione se l’immagine si nega per la lontananza o la mancanza di chiarezza.
Nello spettatore scatta il voyeurismo, il piacere di spiare dal buco della serratura, la ripicca di esagerare la cordialità verso chi si mostra restio, la curiosità di indagare su ciò che si nasconde. Egli, pur nella tensione di un’attenzione acuita, si rilassa perché l’attore non lo impegna in un rapporto diretto che a volte risulta imbarazzante e irrispettoso del reciproco spazio privato. Scopre che i rapporti sociali possono essere più un dovere che un piacere. Lo spettatore si sente responsabilizzato. Non è l’attore a doverlo attivare nell’attenzione, nella comprensione e nel godimento estetico, ma è lui stesso che deve farsi presenza empatica.
La carica drammatica non viene soffocata, ma evidenziata. Recitare nel luogo chiuso, tagliare fuori il pubblico dalla rappresentazione, non fa che accentuarne la forza espressiva.  assoggetta

Se pensiamo al teatro di “quarta parete”, quanto scritto sopra appare ingiustificato. Anche nel dramma borghese e soprattutto nel teatro realista il pubblico “spia” ciò che avviene sul palcoscenico. Ma l’atteggiamento dell’attore è del tutto diverso. Egli adegua ogni spostamento e ogni gesto alla consapevolezza di un pubblico frontale, con il quale stabilisce un contatto continuo di energia. Egli recita per il pubblico, non per sé stesso o per i compagni di scena.
L’attore di “Death watch” si comporta come un bambino assorto in un gioco appassionante. Egli esclude dalla sua sfera d’azione tutto ciò che lo circonda. Osservato, non si sente per niente disturbato e prosegue imperterrito nella sua condotta. Se qualcuno lo chiama, se qualcuno esprime giudizi, se qualcuno applaude… egli non sente. La percepisce a livello sensoriale, ma non elabora l’informazione, che ritiene inconsistente. Il suo gioco è vivo, ma la biologia che lo sostiene è aliena, appartiene a un mondo diverso, nel quale le regole della quotidianità sono stravolte. Il corpo non agisce per utilità, ma per puro piacere espressivo, raccordando muscoli, spazio, voce e ritmo.
La determinazione attoriale a condurre il gioco per sé e per i compagni, escludendo il mondo, accresce il fascino di quanto va facendo e crea, nello spettatore, l’incanto dell’incomprensibile e del segreto, del misterico e dell’esclusivo. Indirizza lo spettatore non verso l’immedesimazione con il personaggio, ma con l’attore. Perché è l’attore-danzatore che lo spettatore osserva, non il personaggio. Sente nascere in sé il desiderio di emularlo, di fare parte della congrega magica sul palcoscenico, di varcare la soglia del luogo chiuso per avvicinarsi ai rituali del corpo espressivo.

In conclusione, l’esclusione del pubblico è la strategia per la sua attivazione sensoriale. L’attore non lo blandisce per strapparne l’applauso. Non cerca in esso il riconoscimento della propria arte e la gratificazione dell’Io. Non lo aggredisce per esibire la forza interpretativa che può ridursi a effettaccio. Non lo rincorre con parole tornite per spingerlo ad affrontare esegesi testuali e registiche. Non si sottomette al suo umore variabile e al suo potere massmediale.
L’attore propone un gioco, fornisce un esempio di vita, conduce un agone nel quale è comunque vincitore, è ciò che fa senza esibirsi, vive una tempesta di emozioni e un idillio di pacificazione, si trasforma in ritmo, si tuffa nella parola e nuota per attraversare fiumi impetuosi, riconosce sé stesso nei compagni di scena, tutti agonisti senza competizione, dato che la contesa è con sé stessi, nella propria carne, nella propria verità.

Ecco, questo potrebbe essere il punto di partenza per un teatro Non o per un Nonteatro. La negazione del pubblico è una spinta in una direzione precisa. Verso la negazione della scenografia, della recitazione, della musica, della luce, della voce, dell’amministrazione quotidiana del corpo. Non si tratta di negazione come nichilismo.
Negare significa distillare. Togliere l’accumulo di pensiero convergente, di consuetudine e ritualità appassita, di mascherature tristi, di convenzioni insensate e ricominciare dal locale svuotato di tutto, uno spazio lindo da riempire con l’immaginazione.
Ricominciare dal niente o dal poco per inserire nello spazio chiuso solo l’essenziale significativo che nulla tolga alla centralità del corpo. I giochi d’immaginazione dei bambini non attingono la loro ricchezza dai centri commerciali, ma dalle scoperte di oggetti rifiutati, relitti di spazzatura, o reperti naturali, organici e non, o dalle evocazioni, formule magiche che creano situazioni.
Il Nonteatro ha come riferimento il corpo-mente in grado di sopperire con un gesto suggestivo o con l’utilizzo inconsueto di un oggetto alla mancanza di strutture. Il Nonteatro produce da sé lo spazio teatrale, l’arredo dello spazio e l’attore spazializzato in un contesto di parole. Il Nonteatro non è però ideologia integralista. Chi fa piazza pulita per rinnovare, non ha preconcetti. Utilizza ciò che ha a disposizione, e quindi lo spazio teatrale rifiutato può ospitare senza preclusioni luci led, radiomicrofoni, computer, impianti di amplificazione. Il teatro Non è forma mentale, non eresia pauperistica. Cerca la propria originalità eliminando strutture obsolete e sovrastrutture, verso un’identità nitida e forte.

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