mercoledì 6 febbraio 2008

MAMMA MALATA

Devo accompagnare mia madre in neurologia, al centro Alzheimer. Come al solito, se n’è dimenticata e deve ancora prepararsi. Per questo arrivo sempre in anticipo. La dottoressa è sorridente, cordiale, paziente, efficiente, rassicurante. Mette subito a proprio agio mia madre, che comunque si emoziona quando comincia il rito delle domande: quando è nata? che giorno è oggi? che mese è? che stagione è? Per il momento, è bocciata. Poi supera l’impatto iniziale e, come sempre, risponde a tutto con precisione e completezza. Dà un’immagine di sé positiva, di persona che ha tutto sotto controllo, affettuosa e altruista, comprensiva e conciliante. Quando la dottoressa le raccomanda di accettare un aiuto in casa, almeno per un’ora al giorno, lei sorride e non dice di no. Poi si arriva al momento dell’alienazione. La dottoressa dice: ora devo fare qualche domanda a suo figlio, dopo parleremo ancora noi due. Si rivolge a me come se mia madre non fosse lì. Ma mia madre è malata, non conta. Ancora una volta devo barcamenarmi con le risposte, volendo riuscire esauriente per la dottoressa e rispettoso della sensibilità di mia madre. Devo raccontarle di quando impreca e maledice, delira di sesso e violenza, accusa con ferocia, minaccia… E la mamma è lì e ascolta i miei giri di parole, le mie metafore, le mie allusioni. Tanto, lei è malata. Dovete prendere decisioni anche contro la sua volontà, mi consiglia la dottoressa. La mamma è malata e la sua volontà non conta più niente. Mi invita al conflitto. Liti furibonde, amarezze, cose cattive che scappano di bocca, gesti inconsulti, lacrime, infelicità. La mamma si avvia verso l’Alzheimer, il papà ha il Parkinson, quasi immobile sulla poltrona, quasi sempre assente, quasi non più vivo. Sappiamo tutti quanto è pericolosa la loro situazione, soli in una villetta lontano dal paese. E se mio padre, che continua a cadere, ruzzola giù dalle scale? E se prendono dosi eccessivi di medicinali? E se… Non c’è soluzione. La mamma non vuole andare a casa di nessuno, non vuole nessun estraneo in casa, non vuole nemmeno più che il papà frequenti il centro diurno. Ma anche lui preferisce stare a casa dove lo stato di catatonia non è esibito in pubblico. Lei ha sempre fatto tutto da sola e vuole continuare così. Ha i suoi polli, i pappagallini, la cagnolina Lilli, i gatti, le piante… Mamma, hai sentito la dottoressa? Perché non riproviamo a darti un aiuto in casa? Non esita. No. Un no sereno, ma granitico. Poi dice: è andata bene, no? non sono matta, no? No, mamma. Torniamo a casa. Lilli ti aspetta. Il papà ha già allagato la casa tre volte. Sfuggito al suo controllo se n’è andato per strada ed è stato urtato dalle auto di passaggio, corsa al pronto soccorso, solo escoriazioni. E se…? E se succederà il peggio, saranno morti liberi, ancora padroni di se stessi. Autodeterminazione. Potere decidere da sé di se stessi. È una cosa così terribile? Ma c’è questa mentalità di assistenza forzata. Tu sei malato o indigente e non puoi più decidere per te stesso. Provvediamo noi a tutto, alla tua vita e alla tua morte, nelle modalità e nei tempi che noi decidiamo. La chiamano anche carità. Rispetto della vita. Nessuna vita umiliata e costretta può dirsi rispettata. Penso che ogni terapia si debba avviare insieme al paziente. Che ogni decisione sulla vita altrui debba essere condivisa, se possibile.

Nessun commento: