Mamme del Comitato e alcuni ragazzi del Teatro dei Passeri a Milano per "La locandiera" proposta da Anna Maria. Stabile di Palermo, regia di Pietro Carriglio, con Galatea Ranzi. A me Goldoni non entusiasma, tante chiacchiere da salotto buono, dai e ridai alla fine tutto resta come prima e un teatro che non è in movimento rispetto alla società e si propone solo come lo specchio della classe alta borghese e aristocratica... ed esprime critiche che insomma risultano bonarie perché ogni rivoluzione, si sa, spinge verso un baratro con un cartello che allarma: chissà dove si va a finire!
Perdonatemi, non sono un critico, e non ho nemmeno una cultura teatrale rispettabile, voglio solo fare anch'io un po' di salotto senza fare il presuntuoso e senza offendere nessuno.
Ma, insomma, a me di Mirandolina che cosa importa? Niente. Perché niente mi rappresenta. Mi sa di sophisticated comedy. Con quel finale piazzato lì per aria... e il cavaliere che se ne va imprecando... ma dov'è l'amore in due lunghi atti?
Arduo criticare l'allestimento dello stabile di Palermo. Una scena incantevole, luci magiche, attori da applauso... un grande teatro alla Visconti, con un tocco efficace di modernità (le panche), e così bello nella sua anima scarna. Ma di respiro così lento...
A tratti, mi pareva di essere piombato in una tragedia di Eschilo. E invece no, si era in una locanda in cui frizzi e lazzi avevano anche loro un'eleganza snob. Un teatro tanto puro che chi tocca rompe. Ma quel respiro... finiva per risultare finto, legato non alla vita reale e nemmeno alla virtualità dell'immaginazione. Un respiro che dipendeva dal numero di passi per entrare e uscire di scena, e quindi così aleatorio, così registico.
Spettacoli come questi li invidio perché io (che non sono nemmeno regista come invece purtroppo l'editore ha scritto nella biografia dell'ultimo libro per ragazzi) non sarei mai capace di tanto controllo. Una coerenza simile col cavolo che la rubo al mio confuso pasticciare con i ritmi.
Ma i ritmi, ecco. I tempi. Mi mancava, da spettatore, la sorpresa, lo stupore dietro l'angolo, lo spiazzamento, il senso incontrollabile della vita. Tutto procedeva regolato in un anelito alla perfezione. Battuta, pausa, battuta, giro attorno alla sedia, battuta, imbarazzo, battuta, tre passi...
E io, forse, amo il caos.
Da cui estrarre non la perfezione, ma un momento magico di ordine, che subito si degrada in vita.
Che cosa ho portato via?
Tanto. Un senso matematico dei dialoghi, un senso metafisico della scena, una coerenza di recitato, una misura "classica".
Perdonatemi, non sono un critico, e non ho nemmeno una cultura teatrale rispettabile, voglio solo fare anch'io un po' di salotto senza fare il presuntuoso e senza offendere nessuno.
Ma, insomma, a me di Mirandolina che cosa importa? Niente. Perché niente mi rappresenta. Mi sa di sophisticated comedy. Con quel finale piazzato lì per aria... e il cavaliere che se ne va imprecando... ma dov'è l'amore in due lunghi atti?
Arduo criticare l'allestimento dello stabile di Palermo. Una scena incantevole, luci magiche, attori da applauso... un grande teatro alla Visconti, con un tocco efficace di modernità (le panche), e così bello nella sua anima scarna. Ma di respiro così lento...
A tratti, mi pareva di essere piombato in una tragedia di Eschilo. E invece no, si era in una locanda in cui frizzi e lazzi avevano anche loro un'eleganza snob. Un teatro tanto puro che chi tocca rompe. Ma quel respiro... finiva per risultare finto, legato non alla vita reale e nemmeno alla virtualità dell'immaginazione. Un respiro che dipendeva dal numero di passi per entrare e uscire di scena, e quindi così aleatorio, così registico.
Spettacoli come questi li invidio perché io (che non sono nemmeno regista come invece purtroppo l'editore ha scritto nella biografia dell'ultimo libro per ragazzi) non sarei mai capace di tanto controllo. Una coerenza simile col cavolo che la rubo al mio confuso pasticciare con i ritmi.
Ma i ritmi, ecco. I tempi. Mi mancava, da spettatore, la sorpresa, lo stupore dietro l'angolo, lo spiazzamento, il senso incontrollabile della vita. Tutto procedeva regolato in un anelito alla perfezione. Battuta, pausa, battuta, giro attorno alla sedia, battuta, imbarazzo, battuta, tre passi...
E io, forse, amo il caos.
Da cui estrarre non la perfezione, ma un momento magico di ordine, che subito si degrada in vita.
Che cosa ho portato via?
Tanto. Un senso matematico dei dialoghi, un senso metafisico della scena, una coerenza di recitato, una misura "classica".
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