lunedì 28 febbraio 2011
sabato 26 febbraio 2011
PASSEGGIATA
venerdì 25 febbraio 2011
CANICANI: le immagini
A Lorenzo Ceva Valla e Mario Garofalo: centinaia di foto, un documentario.
Si aggirano per la sala, sembrano annusare la luce, sono il gatto e la volpe dell’immagine. Qual è il gatto e qual è la volpe non ci è dato di sapere. Tra loro giocano forse a scambiarsi i ruoli: oggi circuisco io l’ombra, tu strusciati addosso alla luce, inteneriscila, fanne una risata cristallina.
Se ne stanno nell’ombra, proprio loro che poi la modellano attorno alla luce come se fosse creta; e ne fanno statue che parlano con lampi negli occhi. Dall’ombra, osservano gli altri muoversi nella luce.
Li spiano come se celassero segreti, li spiano nei loro dettagli più intimi, li spiano nella forma che assumono e nella piega dell’animo, li spiano senza stupore e senza malizia, innamorati della danza dei corpi nello spazio, e delle espressioni che si pitturano sui volti.
La volpe sguscia via tra l’uno e l’altro e nessuno si accorge della sua esplorazione lesta e guardinga: un guizzo, è già sull’altra inquadratura.
Il gatto si conquista le simpatie: qua, micio, fammi un primo piano! E ancora: accarezzami con il teleobiettivo, gattino! E un’altra: il profilo giusto, mio mao, fammi bella!
Il gatto e la volpe sembrano ombre nell’ombra, nessuno fa mai caso a loro, se non quando loro stessi lo vogliono: allora tutti gli si affollano intorno a fare smancerie e assumere pose.
Altrimenti, dal trono della discrezione, affondano le lenti nella carne e nello spirito, colgono l’attimo prima che svanisca per sempre e fanno sberleffi al tempo. Ciò che era una briciola d’oblio diviene l’immagine eterna: nella sua fissità c’è la suggestione della danza e della parola.
E se le immagini sono invece in movimento ecco che la vita ci viene incontro con un abito nuovo, pulito e ordinato. Quello che, nel tempo, era caos e altalena di pieni e vuoti, ora è un fluire elegante ed espressivo.
Tutti applaudono.
Il gatto e la volpe si rifugiano nel silenzio dell’ombra: da lì la luce è più potente.
mercoledì 23 febbraio 2011
CANICANI recensione
articolo di Gian Paolo Galasi
Il mese di febbraio ha visto in scena al Binario 7 di Monza la compagnia Lupus Agnus, che ha presentato la Trilogia della famiglia, composta da Mamma Mammazza, prodotto nel 2008 dal Piccolo Teatro di Milano e incentrato sulle perversioni dei legami familiari; Verginella, presentato al Teatro Filodrammatici di Milano nel 2009 e inerente il tema della pedofilia, e, in prima nazionale questo weekend, Canicani, legato alla tematica del mercato degli organi e di qui all’antropofagia.
I testi di LupusAgnus sono scritti da Aquilino, con alle spalle altre esperienze di scrittura (non solo per la scena) e di teatro; la compagnia nasce invece da un nucleo di attori formatisi alla scuola del Piccolo, presenti e attivissimi nei palchi milanesi e che con questa nuova opera, rappresentata tre volte in due giorni e della durata di due ore, inaugurano un work in progress che è anche un progetto di laboratorio sul testo e sulla sua messa in scena. Alla fine della rappresentazione il pubblico è stato invitato a partecipare attivamente con commenti, impressioni, critiche, che hanno già prodotto degli aggiustamenti tra uno spettacolo e l’altro.
Un lavoro e un impegno notevole, date le tematiche affrontate e la messa in scena. Al traffico di organi in Italia sono stati dedicati pochissimi testi, nel 2009 esisteva solo un libro nella nostra lingua sull’argomento (ma ci sono anche indagini in corso, e dunque il segreto istruttorio). L’umanità rappresentata in questo musical caricaturale e grottesco ricorda quella di Address Unknown di Kim KiDuk, ma non siamo nella Corea appena conquistata dall’esercito statunitense e non si uccidono cani. Eppure il clima umano è quello dei sopravvissuti a una devastazione, che non può essere solo interiore o forse sì, del resto dentro ogni orco c’è un bambino divorato: i carnefici hanno già imparato la lezione della sociologia, dunque, difficile non trovare alibi in un mondo qualunque che ha già fatto della parola quel che si fa dietro quella tenda di plastica, ovvero sesso tra fratello e sorella e traffico di organi.
Annamaria Rossano è una Juliette Lewis (quella di Natural Born Killers) cresciuta e finalmente normale, affamata di successo da tronista e di smalto per le unghie. Oppure pensate agli abitanti di Las Hurdes, ingozzati di hamburger e di televisione: i mostri sono tra noi, non hanno desideri e per questo cantano che “il mondo è guardare, il mondo è emozione”, e sanno che se la felicità non è di questo mondo, il godimento invece lo è e bisogna assicurarselo. Ad ogni costo. La rabbia della fame: la vita annoia, e mentre si sogna di essere famosi è possibile comunque attizzare la fama e il potere mentre i figli debbono obbedire per evitare il bastone, mostrare rispetto perché se i genitori non sono diventati qualcuno è impossibile sfuggire al destino comune, al “tu hai tutto e io non ho niente” che placa le coscienze, i figli come cani alla catena, la morte che dovrebbe essere un momento di riposo, lirico, perché da qualche parte è stato scritto che il dolore va espresso, e comunque si tratta pur sempre di una lacuna da colmare.
Sarà una maternità inaspettata a dare a uno dei personaggi (quella che nel bene o nel male aveva rapporti, per quanto obbligati, col mondo esterno: in fondo è il sapere cosa c’è “là fuori”, fossero anche clienti, la salvezza) la forza per ricacciare nel buco nero le forze del ‘male’, e per ritrovare, nell’altro in sé, una voce soggettiva.
Pur nell’assenza di un mondo simbolico. In scena solo oggetti di uso comune, la poltrona, il televisore, reggiseni nuovi a rappresentare il feticismo del ménage familiare, le catene cui sono legati i figli, e tanta plastica: quella che contiene la “refurtiva”, il telo dietro si compiono i misfatti, quello adibito a coprire. Nulla in scena lascia adito a una ambiguità, a un possibile nuovo uso, a una scelta. Non è possibile prevedere, qualora lo spettacolo arrivasse fisicamente dalle vostre parti, a quali e quanti cambiamenti sarà soggetto. La forza della compagnia è anche la capacità di assimilare gli spunti forniti dal pubblico, come altre compagnie affini forse per spirito, tra cui i palermitani Sutta Scupa, nemmeno tanto più “vecchi”. E’ bello vedere che qualcosa si muove e vive nel teatro contemporaneo. Non siete soli.
http://www.flaneri.com
Lupus Agnus – Canicani
drammaturgia Aquilino
regia Stefano De luca
con Enrico Ballandrini, Tommaso Banfi, Matteo Barbe', Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano, Fabio Zulli
Teatro Binario 7 – Monza
19-20 febbraio 2011 prima nazionale
lunedì 21 febbraio 2011
CANICANI recensione
Può piacere o non piacere, ma ti entra nella testa, ti pesa sul cuore. Se non ti è piaciuto, non puoi ignorarlo anche se ne scacci il pensiero come una mosca che ti molesta con un ronzio incessante, esasperante; se ti è piaciuto, o meglio, se l’hai apprezzato, senti la necessità di analizzare le situazioni, non per avere una visione più chiara della rappresentazione, ma per cercare una via d’uscita da quell’orrore sconfinato che ti assale con violenza. Il desiderio di vendetta è come un urlo che implode in te facendo scempio del tuo cuore; vorresti schiacciare come insetti schifosi questi genitori snaturati e immondi, quello zio pervertito, libidinoso, quel ristoratore cinico, astuto, ributtante, ma questa violenza è tenuta al guinzaglio dalle vittime e si stempera nel tenero rapporto tra Canciòn e Canbett, e Canfil, che, nonostante la sua rabbia, manifesta il suo disperato bisogno d’amore accettando di prendere la mano di Canciòn, ormai in fin di vita, con una titubanza e una apprensione commoventi.
Una scena mi ha particolarmente colpita: quella in cui Canciòn morente chiede aiuto al padre. Sarebbe stato facile accentuarne i toni drammatici, data la situazione; invece ho apprezzato molto la misura con cui viene fatta: c’è stanca rassegnazione per lo scontato rifiuto, ma io vi ho “letto” anche come un’offerta di redenzione all’abominevole padre, come un’ultima speranza prima di morire.
Il bambino che deve nascere esce dal ruolo di “frutto di un incesto” per diventare la forza trainante verso una vita degna di chiamarsi tale.
Vincenza Colombo
NOI SIAMO LUPUSAGNUS
Ai tavoli della “Compagnia dell’Agnello” si erano già accomodati l’elfa arciera Canbett con gli hobbit esploratori Cancion e Canfil. Il locandiere Burgo servì loro birra chiara e scura. Nessuno parlava. Erano tutti in attesa di qualcuno e di qualcosa. In un angolo, Marcos accompagnava con la viella il bardo Aquilio che cantava imprese eroiche ancora da compiere.
La porta fu spalancata e sull’abbaglio si stagliò l’orco Tatù, villoso e ingrugnito, con la sua ninfa Chicce, radiosa. “Birra, Burgo!” urlò l’orco spaccando un tavolo con un pugno. Lo schianto fu seguito dal fracasso della porta divelta dai cardini e scaraventata sopra la quercia millenaria. Il troll Lo entrò allargando il vano con le spalle nude, muscoli di pietra. “Mi distruggi la locanda!” gemette Burgo; ma il troll lo zittì con un ringhio. Dalla breccia nel muro volò dentro sulle vibranti ali di libellula la messaggera Julia, più veloce di uno sguardo. “Eccolo!” annunciò.
Il camino emise uno sbuffo di fumo arcobaleno in cui si formò la figura del mago Stephano. Levò alto il braccio sinistro per fare alzare tutti in piedi, poi levando il destro fece crollare una parete e sul prato antistante apparvero gli abitanti del borgo, assiepati per assistere ai prodigi.
“Staniamo il lupo!” comandò il mago.
“Ma voi chi siete?” domandarono in coro gli spettatori.
In quel momento, calò un’ombra gigantesca e tutti rabbrividirono. Tra loro e la locanda si posò un drago. Ci stava in arcione la regina Martosta, seguita dalle amazzoni Carlott e Lindola sopra candidi cavalli alati.
“Noi siamo Lupusagnus” rispose il drago. Poi soffiò fiamme in cielo per incidere il nome sulle nubi.
CANICANI recensione
Il pater familias è padrone assoluto nel chiuso delle quattro mura, ma a sua volta è schiavo passivo della televisione. Incollato, anzi invischiato alla poltrona, non trova la forza, né sente più il bisogno di sollevarsene. La moglie-madre è invece vittima dello stereotipo della "bionda senza cervello", interessata unicamente a sfondare nel mondo dello spettacolo, ad apparire sotto i riflettori. Annamaria Rossano dimostra una fortissima presenza scenica, "occupando" e dominando il palco con le sue mosse, i sorrisi da svampita e l'energia della disperazione che muove la protagonista che interpreta. Da cabaret i duetti con il fratello Lo, interpretato da un effervescente Tommaso Banfi. Tra moglie e marito si recita una tragicommedia che vira al grottesco.
Ma quando entrano in scena i figli, i Canicani, lo spettacolo s'inabissa nei toni più cupi della tragedia dark, in cui gli interventi del macellaio dal sorriso clownesco non servono ad alleggerire l'atmosfera quanto piuttosto ad aggiungere lo sfregio del sarcasmo alla ferita della carne. La canzone del Ristorante del Niente è l'esasperazione angosciante de La casa di Sergio Endrigo (Era una casa molto carina / senza soffitto, senza cucina; / non si poteva entrarci dentro / perché non c'era il pavimento...): i "cuccioli" hanno certamente fame di cibo, ma sono soprattutto bisognosi di affetto. E invece riceveranno soltanto minacce, soprusi e violenze.
Un discorso a parte merita il dibattito sollecitato al pubblico dal regista a fine rappresentazione. Confesso di nutrire qualche dubbio sulla reale utilità di iniziative di questo tipo, considerando il teatro un rito, dunque un qualcosa che si mostra, non che si "dimostra". In particolare mi ha colpito la ferma convinzione, da parte dell'autore Salvadore, del ruolo pedagogico e formativo del teatro e più in particolare di spettacoli incentrati su temi così problematici come quelli affrontati in Canicani. Anche in questo caso non posso che manifestare i miei dubbi.
Ho trovato molto pertinente, e del tutto condivisibile, l'osservazione - domanda di uno spettatore che ha chiesto se vi sia la possibilità di creare un teatro "positivo e propositivo", che indichi in pratica una possibile strada di redenzione, senza "limitarsi" a denunciare i motivi e i modi della caduta. Dopo averci riflettuto, mi viene da rispondere che andrebbe ribaltata la celebre massima con cui Tolstoj dà avvio ad Anna Karenina: "Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Il teatro può raccontare il dolore, la sofferenza e la morte perché sono esperienze che accomunano tutti gli uomini, mentre la felicità e la gioia sono "indicibili" perché troppo personali e dunque non teatrali.
Saul Stucchi
CANICANI
drammaturgia Aquilino
regia Stefano De luca
con Enrico Ballardini,Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano e Fabio Zulli
Produzione LUPUSAGNUS
domenica 20 febbraio 2011
CANICANI recensione
La mattanza della famiglia contemporanea tra violenza e sogni di successo
Creato il 20 febbraio 2011 da Valedvisto al Teatro Binario 7 di Monza il 19.II.2011
Compagnia LupusAgnusCANICANIdi Aquilinoregia Stefano De Lucacon Marta Comerio, Tommaso Banfi, Annamaria Rossano
sabato 19 febbraio 2011
giovedì 17 febbraio 2011
mercoledì 16 febbraio 2011
CANICANI SPOT
Spot promozionale dello spettacolo Canicani di Aquilino, regia Stefano
De Luca, realizzato da Mario Garofalo.
martedì 15 febbraio 2011
lunedì 14 febbraio 2011
LA SAGGEZZA DEI MITI
Calipso chiede a Ulisse di rimanere per sempre con lei. In cambio gli offre l'immortalità e la giovinezza eterna. Ulisse rifiuta. Da pagg. 14 e 15:
"Lo scopo dell'esistenza umana non è, come penseranno poi i cristiani, ottenere con ogni mezzo, anche i più morali e i più difficili da accettare, la salvezza eterna, giungere all'immortalità, perché una vita da mortale realizzata è di gran lunga superiore a una vita da immortale fallita! In altri termini, Ulisse è convinto che la vita "delocalizzata", lontano da casa, senza armonia, fuori dal proprio luogo naturale, ai margini del mondo, sia peggiore della morte stessa.
Di riflesso, indirettamente, viene così abbozzata la definizione della vita buona, dell'esistenza realizzata e si comincia a intravedere la dimensione filosofica della mitologia: alla stregua di Ulisse, occorre preferire una condizione da mortale conforme all'ordine cosmico, piuttosto che una vita da immortale in preda a ciò che i greci definiscono hybris, la dismisura, che ci allontana dalla riconciliazione con il mondo. Dobbiamo vivere lucidamente, accettare la morte, in accordo con ciò che siamo veramente e con ciò che si trova al di fuori di noi, in armonia con i nostri familiari e con l'universo. (...)
E' una lezione di vita che rompe con il discorso religioso dei monoteismi passati e futuri, un messaggio che la filosofia dovrà soltanto, per così dire, tradurre in ragione per elaborare a modo suo dottrine della salvezza senza Dio, della vita buona per noi semplici mortali."