Può piacere o non piacere, ma ti entra nella testa, ti pesa sul cuore. Se non ti è piaciuto, non puoi ignorarlo anche se ne scacci il pensiero come una mosca che ti molesta con un ronzio incessante, esasperante; se ti è piaciuto, o meglio, se l’hai apprezzato, senti la necessità di analizzare le situazioni, non per avere una visione più chiara della rappresentazione, ma per cercare una via d’uscita da quell’orrore sconfinato che ti assale con violenza. Il desiderio di vendetta è come un urlo che implode in te facendo scempio del tuo cuore; vorresti schiacciare come insetti schifosi questi genitori snaturati e immondi, quello zio pervertito, libidinoso, quel ristoratore cinico, astuto, ributtante, ma questa violenza è tenuta al guinzaglio dalle vittime e si stempera nel tenero rapporto tra Canciòn e Canbett, e Canfil, che, nonostante la sua rabbia, manifesta il suo disperato bisogno d’amore accettando di prendere la mano di Canciòn, ormai in fin di vita, con una titubanza e una apprensione commoventi.
Una scena mi ha particolarmente colpita: quella in cui Canciòn morente chiede aiuto al padre. Sarebbe stato facile accentuarne i toni drammatici, data la situazione; invece ho apprezzato molto la misura con cui viene fatta: c’è stanca rassegnazione per lo scontato rifiuto, ma io vi ho “letto” anche come un’offerta di redenzione all’abominevole padre, come un’ultima speranza prima di morire.
Il bambino che deve nascere esce dal ruolo di “frutto di un incesto” per diventare la forza trainante verso una vita degna di chiamarsi tale.
Vincenza Colombo
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