lunedì 28 maggio 2012

CANICANI: recensione di Stratagemmi online


Una recensione-critica che farà riflettere Lupusagnus su molte cose.

Collocandosi come capitolo finale della trilogia sulla famiglia iniziata conMamma mammazza e proseguita con VerginellaCanicani conferma l’interesse di Stefano De Luca (allievo di Strehler al Piccolo Teatro e fondatore della compagnia LupusAgnus) per le tematiche a tinte forti e la passione per il “work in progress”.  Il tema, almeno sulla carta, è quello del commercio d’organi, perpetrato a gestione familiare, da parte dei genitori a danno dei figli.
Questi ultimi, come suggerisce esplicitamente il rafforzativo del titolo (Canicani), sono degradati a un livello ancor più bestiale degli animali, ridotti alla stregua di risorse economico-alimentari (uno è costretto a spacciare, un’altra a prostituirsi, il terzo a offrire i suoi organi). Come i migliori amici dell’uomo i canicani non si ribellano al loro padrone, subiscono e restano fedeli alla mano che (non) li nutre.

Di fatto la tematica del commercio d’organi risulta più una contingenza che il fulcro delle problematiche che De Luca mette in evidenza: alla base di questa distorsione di ruoli e di dinamiche familiari, sembrano dire il regista e il drammaturgo Aquilino, c’è un appiattimento culturale generato da alcuni modelli sociali iniqui.
Non a caso un televisore impera da subito sulla scena e lì rimane fino a librarsi fluttuante in un finale che lascia presagire il successo del suo dominio. Ovviamente la famiglia è il primo luogo dove questo imprinting attecchisce,  alimentando nei membri adulti un egoismo asentimentale, condotto non in nome della propria sussistenza (mors tua, vita mea), ma della propria comodità e del proprio capriccio.

Se la materia è drammatica e presentata con disincantata brutalità (abbondano sacchetti pieni di sangue, incesti, stupri ecc.), la recitazione vira, secondo uno schema conosciuto, verso il grottesco. I personaggi sono macchiette esasperate degli exempla negativi/patetici che incarnano, la loro clownerie iperbolizza la realtà senza riuscire però a restituirla allo spettatore nella sua complessità. Non mancano canzoni né vere e proprie gag, che per quanto siano il palese tentativo di coinvolgere il pubblico facendolo specchiare attraverso i propri tic ricreativi (karaoke/grande fratello/circo), rimangono poco giustificate da un punto di vista narrativo, rischiando di sfilacciarne le trame o di fungere da meri riempitivi.  In questa continua amplificazione, le filastrocche, i calambour e gli aforismi – “in ogni orco c’è un bambino divorato” – del testo di Aquilino perdono suggestione e capacità evocativa.
Spettacoli in fieri, si diceva, quelli di De Luca, attenti a modificarsi a seconda della percezione e delle impressioni del pubblico, e, bisogna rendergliene il merito, non si tratta di retorica, ma di una vera e propria poetica: Canicani è stato recentemente rimaneggiato con un finale diverso in chiave pessimista.
Con queste premesse, la scelta di tirare fuori dall’armadio, insieme ai pantaloni a zampa di uno dei personaggi, il dibattito di fine spettacolo, appare decisione giustificata e funzionale più che feticcio passatista. Sicuramente il pubblico del Teatro della Cooperativa – luogo della prima milanese dello spettacolo che aveva debuttato l’anno scorso a Monza -  particolarmente sensibile alle tematiche sociali, è l’interlocutore ideale per questo tipo di confronto e, se si pazienta, si possono ascoltare i commenti di un pubblico vivo. Insieme al dibattito, infine, viene proposto un test psicologico: viene distribuito un elenco di parole tra le quali lo spettatore dovrà segnalare quelle che meglio rappresentano il proprio stato d’animo dopo ciò che ha visto.
Solo poche hanno accezione positiva, molte, invece, sono declinazioni diverse del polo opposto.
Non è un buon segno che, mentre si legge il questionario, emerga alla mente un’ambiguità, per quanto involontaria: si riferiscono ai contenuti o allo spettacolo stesso?

Corrado Rovida

venerdì 25 maggio 2012

CANICANI VEDERE E NON SAPERE


Canicani, le cose da non sapere. Quali? Che il mondo è fatto come è fatto, e non è la cartolina illustrata di una località turistica. Che la famiglia è anche un serbatoio di conflitti, ansie, paure, orrori e violenze. Che i tabù come incesto, cannibalismo e infanticidio sono deterrenti solo sulla carta. Che l’uomo ammazza volentieri. Che l’uomo gode nel far soffrire. E anche la donna, non sempre angelo del focolare. E che per le nostre strade (le percorriamo ogni giorno) si aggirano bambini abbandonati da tutti (canicani? i cani sono più tutelati, guai a chi fa del male a un cane! un bambino può prostituirsi o essere pestato a morte nell’indifferenza), feriti e disumanizzati. E che nelle villette o negli appartamenti vicini alla nostra abitazione si annidano… non mostri, ma persone spesso con una buona reputazione, stimate dalla comunità, che annientano, torturano, terrorizzano e ammazzano.  
Sono tutte cose da vedere, quando tivù giornali web ci fanno la cronaca dei fatti truci. Tutti, allora, a fare i guardoni del video sanguinario e della foto splatter; tutti a leggere il resoconto dell’orrore. Ma solo come se fosse un romanzo. Si gode l’attimo fuggente dell’emozione forte, e poi via, una risata, o la soddisfazione di una buona cena.  
Si vede, si spia, ci si indigna, ci si scandalizza, ci si deprime per un momento, si esprime solidarietà, e poi si manda un sms per la raccolta fondi. Ce ne sono tante. Una vale l’altra, per sentirsi bene.
Vedere e non guardare è una cosa da imparare. Vedere e non sapere sia questo il tuo dovere.
Ciò che scombussola è questo: siamo tra i paesi più avanzati del pianeta, facciamo l’elemosina, abbiamo migliaia di associazioni che si occupano del sociale, pratichiamo una religione, scriviamo le dichiarazioni dei diritti… eppure il mondo è quello che è.
Sarebbe meglio non saperlo, altrimenti… a che cosa servono la democrazia, la carità, la religione, i diritti?
Canicani dà fastidio. L’hanno definito “irriverente”. Ma che cosa si deve riverire quando si parla di innocenti schiavizzati e massacrati? È più che irriverente. Devastante, forse. Prende a martellate la nostra tranquillità. La nostra sicurezza di cittadini onesti con la coscienza a posto. Forse è meglio la televisione. Ci fa sentire bene. Nel senso di vuoti. Canicani no. Turba.
Inevitabile: è teatro.

giovedì 24 maggio 2012

I PETTIROSSI DI NATI PER LEGGERE


L'idea è venuta a un bambino di nove anni: "Perché non facciamo qualcosa anche noi bambini?". Si riferiva alle attività di "Nati per leggere": un gruppo di genitori si presta a leggere storie ai bambini di quattro-cinque anni nella Biblioteca di Oleggio. Me ne ha parlato Tiziana, la bibliotecaria, e ci siamo attivati per costituire un gruppo di sette bambini di quarta e quinta elementare (cinque e due), da preparare per la prima lettura di settembre, nell'ambito dell'open day di biblioteca e museo (Bibliomuseando).
Ho proposto il nome, i Pettirossi, emanazione del Teatro dei Passeri. Ho scelto, come primo brano, un mio racconto che ho adattato: "Gatto bau non fa miao". La vicenda: l'ultimo di una cucciolata di sette gattini non fa miao, ma bau. I fratelli lo cacciano. Triste e disperato, si mette nei pericoli, cade nel fiume. Mamma gatta lo salva, e insegna ai gattini che cosa sono il rispetto e l'affetto per gli altri, al di là di ogni diversità.
Seconda lettura, "Le pulcette" di Beatrice Alemagna. Terza, un racconto tratto dal testo scolastico.
In quattro incontri affronto la lettura espressiva, la mimica e i movimenti del corpo. Ne esce una lettura drammatizzata, uno spettacolo vero e proprio senza bisogno di memorizzazione. I bambini, entusiasti, entusiasmano.

CANICANI, IL TESTO


Canicani, come testo, nasce una decina di anni fa. Camminando sulle rive del Ticino, mi imbatto in un cane randagio, poi in un altro. Cani, cani cani, Canicani. Che bel titolo per un’opera di teatro, penso. Ma chi sono i canicani? I bambini, i figli. Una famiglia con figli canicani. E scrivo la storia dei canicani. Anni e anni dopo, Stefano mi propone di metterla in scena, facendone un musical. Il testo contiene già dialoghi in rima e filastrocche, da lì l’idea della musica. Amplio il testo, ricamandolo come un’operetta, giocando con le parole. “Stefano, ti do tanto materiale, troppo per una durata media. Poi ci pensi tu” più o meno gli dico. Lui tuffa le mani nel forziere delle parole e si entusiasma come di fronte a una sfida. L’unico argomento di dibattito  è il finale. Ne viene fuori un finale con effetti speciali, un po’ new age, un po’ Don Giovanni di Mozart, un po’ consolatorio, un po’ speranzoso, un po’… A qualcuno piace, a qualcuno no. Ancora non sappiamo che il finale non ci deve essere. L’opera debutta al Binario 7 nel febbraio 2011. Scrive Gian Paolo Galasi: “Non è possibile prevedere, qualora lo spettacolo arrivasse fisicamente dalle vostre parti, a quali e quanti cambiamenti sarà soggetto.” Profetico. La durata è eccessiva, due ore. Ora, dopo quattro repliche al Teatro Cooperativa, dura un’ora e mezzo. Il finale è scomparso, insieme a due canzoni, insieme a cose belle che Stefano ha avuto il coraggio di potare per rinvigorire una pianta sovraccarica di frutti. Eh, sì, è così che si fa. Troppi frutti, e verranno piccoli e poco saporiti. Meglio rinunciare, sfoltire, cancellare… Fa parte della vita, il sacrificio di vita.
Tagli e ritocchi, ritocchi e tagli, e via via la messa in scena si fa più scorrevole, agile, muscolosa, forte, emozionante. “Una sberla” dice uno spettatore. “Un pugno nello stomaco” dice un altro.
Ma… il testo originale che fine ha fatto?
Non ha fatto una fine, è rinato sulla scena.
Nella mia concezione di “teatro panico”, lo spettacolo non è il testo; non è nemmeno il regista o l’attore “mattatore”; e nemmeno la sinergia della compagnia; è molto di più. La fabbrica dello spettacolo è un impianto complesso, che comprende la compagnia, l’allestimento con scenografie e musiche, il luogo di rappresentazione, il pubblico. Lo spettacolo scaturisce dalle interazioni, altrettanto complesse, tra tutti questi elementi. Quando si produce uno spettacolo che dovrebbe rimanere immutato negli anni, si tende a vedere di più l’immobilità della sua forma definita che non le variazioni dovute ai cambi di sala, di interpreti, di coreografie, recitazione eccetera.
Lo spettacolo non è mai finito e continua a farsi rappresentazione dopo rappresentazione, alla ricerca della propria verità. Fa ciò che ogni uomo dovrebbe fare nella propria vita: non fossilizzarsi mai, ma cercare continuamente come cambiare sé stesso e il mondo in meglio, consapevole che l’ottimo non può esistere e che la sua è una ricerca senza fine, che ha in sé stessa la propria validità e la propria ragion d’essere.
Lo spettacolo, come l’uomo, non si limita a indagare sé stesso attraverso il drammaturgo o il regista, ma si apre a tutte le proprie componenti, cogliendo stimoli e sviluppando intuizioni.
Un dettaglio di scena, la stanchezza di un attore, l’umore del pubblico, una luce sbagliata… tutto può essere notato, valutato e assimilato; tutto può contribuire al nuovo spettacolo della replica successiva.
Non si può quindi dire che il testo si pieghi, umiliato, alla creatività del regista o alle esigenze espressive dell’attore; esso, invece, offre sé stesso per entrare in sintonia con il tutto. E non lo fa per il bene comune, da martire; ma lo fa per il proprio bene; per esplorare e realizzare le proprie potenzialità e per offrire all’autore un percorso di scrittura non narcisistica, ma sempre più efficace e profonda.
In questo atteggiamento “panico”, di accettazione e collaborazione, si sviluppa l’esperienza di fare teatro per il teatro, e non per il protagonismo. Un teatro vivo, che spaventa ed emoziona, che sorprende e coinvolge.

giovedì 17 maggio 2012

PERSINSALA - rivista di Arte e Teatro



Aquilino firma il testo e Stefano De Luca dirige sette magnifici interpreti di un “mondo-supermercato, dove la famiglia è un macello”.


Temi scabrosi, linguaggio volutamente scurrile, l’oscena quotidianità della violenza, dentro e fuori le cosiddette quattro mura domestiche.
Lo spettacolo più fastidioso della stagione del Teatro della Cooperativa è in scena proprio in questi giorni:CaniCani – un musical grottesco che sfiora il teatro dell’assurdo pur rimanendo ferocemente ancorato alla realtà che ci circonda: soprusi, giochi di potere, sado-masochismo e violenze fisiche e psicologiche – astrattamente; sfruttamento dei minori e della prostituzione, ebetaggine televisiva, commercio illegale d’organi, accidia, tossicodipendenza e spaccio, sogni da velina, incesto e violenza contro le donne – concretamente.
Tra siparietti canori, gustosi lapsus Guzzantiani in panni Marini, rimandi all’immaginario filmico di Danny the Dog, e un padre-padrone incollato alle proprie poltrona e tv – come Nagg e Nell ai bidoni della spazzatura di Beckett – si ride (poco) e soprattutto ci si indigna (molto) di fronte a quel microcosmo in scena, che non è esagerazione satirica – come la merda di Luttazzi – bensì drammatizzazione della quotidianità che ci circonda, specchio della nostra società distorta nella quale riconoscersi tristemente.
Al termine della rappresentazione, l’incontro con interpreti, regista e autore, per esorcizzare, per compiere una catarsi forse impossibile, perché non è più possibile sentirsi innocenti.
L’unico dubbio è per il doppio finale: un posticcio happy ending che non riconcilia perché il frutto di un incesto e della violenza carnale non può essere simbolo salvifico, sebbene De André cantasse: “Ama e ridi se amor risponde/ piangi forte se non ti sente/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior”.
Lo spettacolo continua:
Teatro della Cooperativa
via Hermada, 8 – Milano
da mercoledì 16 a sabato 26 maggio, ore 20.45 (domenica riposo)
produzione LupusAgnus presenta:
CaniCani 
di Aquilino
regia Stefano De Luca
con Enrico Ballardini, Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano e Fabio Zulli
musiche Marco Mojana

martedì 15 maggio 2012

CANICANI, il segno

Uno spettacolo che lascia il segno

Canicani

Al Teatro della Cooperativa dal 16 al 26 maggio

Canicani” racconta, spingendola alle estreme conseguenze, la deriva antropofaga di una società in cui tutto è mercificabile. A cominciare dal corpo che viene esibito, venduto e comprato anche a pezzi: esiste infatti un traffico fiorente di organi. La forma scelta per raccontare questa storia raccapricciante è quella del teatro musicale, con i personaggi che rappresentano le proprie miserie in una specie di karaoke dell'assurdo, cercando di soddisfare un qualsiasi pubblico che li possa confermare in questa grottesca forma di esistenza. I “Canicani” offrono i loro corpi e le loro sofferenze in forma di spettacolo. “Dove sono i bambini canicani? Nelle fabbriche del sudest asiatico, nelle miniere andine, negli eserciti africani, nel divismo mediatico, negli orfanotrofi lager, nelle piazze della prostituzione, nelle fogne cittadine, nelle bande metropolitane, nelle sette religiose, sotto casa tua, nella famiglia del vicino… Che cosa vogliono i bambini canicani? Scappare da sé stessi e dagli sfruttatori aguzzini. Diamogli una via di fuga”. (Stefano De Luca)

Canicani” è la terza e ultima tappa della Trilogia della Famiglia. “Mamma Mammazza” ha debuttato al teatro ringhiera nel 2008, “Verginella” ha debuttato al teatro filodrammatici nel 2010 e ora “Canicani” (che ha debuttato l'anno scorso al Teatro Binario 7 di Monza) al Teatro della Cooperativa.

da mercoledì 16 a sabato 26 maggio
Teatro della Cooperativa
via Hermada 8, Milano

produzione LupusAgnus – prima milanese
Canicani di Aquilino
regia Stefano De Luca
con Enrico Ballardini, Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano, Fabio Zulli
musiche Marco Mojana

orari: feriali h 20.45 – compreso lunedì 21 maggio – riposo domenica
prezzi: intero 16 € - ridotti 13/8 €

www.teatrodellacooperativa.it
Info tel. 02.64749997

lunedì 14 maggio 2012

CANICANI, mercoledì

Da "GIORNALE METROPOLITANO", lunedì 14 maggio
Giornale metropolitano


«Canicani», a teatro la grottesca metafora di una società avida e senza scrupoli

MILANO – Crisi economica e crisi di valori. Uomini venduti come merci, pigiati come acini d’uva. Uno spettacolo che è un dramma tragicomico sulla cattiveria insita nel genere umano. «Canicani», di scena al Teatro della Cooperativa dal 16 al 26 maggio, denuncia in un gigantesco karaoke la deriva antropofaga di una società in cui tutto è mercificabile. Ci invita a riflettere e a reagire. A sovvertire l’illegalità nella trasparenza. Porta in scena sentimenti oscuri, meccanismi morbosi e situazioni di allarmante attualità.
Lo stile epico e grottesco di Aquilino, la regia di Stefano De Luca, ribadiscono che il teatro è in grado di confrontarsi con ogni aspetto della commedia umana, ieri come oggi come domani.
La forma scelta per raccontare questo estremo degrado è quella del teatro musicale, con i personaggi a rappresentare se stessi e le loro miserie – umane e disumane – alla ricerca di un pubblico, teatrale o televisivo che sia, che li confermi nel loro assurdo esistere. I “Canicani” ci offriranno i loro corpi e le loro sofferenze da consumare come spettacolo, dati in pasto sotto i nostri occhi all’orco di turno, costretti a cantare e danzare insieme a noi la macabra e sguaiata danza del potere.
(A cura di Vincenzo Sardelli)

da mercoledì 16 a sabato 26 maggio 2012 – ore 20.45 – domenica riposo
produzione LupusAgnus – prima milanese
CANICANI
di Aquilino
regia Stefano De Luca
con Enrico Ballardini, Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano, Fabio Zulli
musiche Marco Mojana
ORARI: feriali h 20.45 – compreso lunedì 21 maggio – riposo domenica
PREZZI: intero 16 € – ridotti 13/8 €
www.teatrodellacooperativa.it – Via Hermada 8, Milano – tel. 02.64749997

sabato 12 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte sesta e ultima)


Teatro ecosistemico, teatro panico, teatro del giardino.
Ma come fa lo spettatore a esplorare l’ambiente, se è inchiodato alla poltrona? Come fa a viverlo, se non può spostarsi da un elemento all’altro e non può alzarsi e abbassarsi, protendersi e allontanarsi?
La magia del cinema ci consente di “esplorare” una storia passando dalle panoramiche ai primi piani, fino ai dettagli. Possiamo cambiare in un attimo scenario e passare da una metropoli a un deserto. E anche passare dal giorno alla notte.
In teatro si utilizzano i fondali, le quinte, le scenografie realistiche o basate sulle suddivisione dello spazio, le suggestioni delle luci, le musiche, le proiezioni…
Ma le meraviglie del cinema, sul quale la tecnologia opera a velocità doppia, non sono duplicabili sul palcoscenico. Meglio rinunciarvi e cercare ciò che il teatro possiede di esclusivo, facendone il punto di forza.
Cinema e televisione, a differenza della letteratura e del teatro, stabiliscono con lo spettatore un rapporto ipnotico, nel quale l’immaginazione viene imbrigliata e canalizzata. L’obiettivo è creare uno stato alterato di coscienza che veicoli emozioni forti e fugaci, delle quali non si ha piena consapevolezza.
Il teatro deve invece attivare al massimo l’immaginazione dello spettatore e metterlo in condizione non di identificarsi con il personaggio, ma con l’attore che lo interpreta.
Nel teatro panico abbiamo visto gli attori comportarsi in modo strano: accedono al palcoscenico dalla platea, dal mondo reale;  rivestono i costumi di scena; si esibiscono mescolando recitazione, filastrocche, balletti, azioni ritmiche, coreografie… e infine si spogliano di nuovo, ritornando sé stessi.
Non sembra un rito dionisiaco?
Per chi lo celebrano? Non per il pubblico. Il pubblico è freddo, distante, avvolto dalle tenebre, inerte, passivo… Gli attori stabiliscono contatti, ma sono quasi sberleffi, o azioni simboliche che vogliono dire: voi siete là e rimanete là, questo luogo di riti e fantasie vi è negato.
L’attore, tuttavia, non crede che quello che produce sul palcoscenico sia davvero la celebrazione di un “mistero”. Non ci sono rapporti con la divinità, nel teatro panico. Non vi si svolgono riti misteriosi. Non sono previste teologie o magie. Il rito è teatrale e proietta l’attore in un mondo virtuale con l’obiettivo di risvegliare l’immaginazione dello spettatore, di renderlo partecipe, di stimolarne l’atteggiamento critico, di farlo emozionare e pensare, di attivarlo insomma nel modo più completo possibile.
Ma perché l’attore si rende disponibile a tale fatica?
Il rito che celebra non serve per propiziare la divinità, non gli porta salute e benessere, non gli fa superare in senso sciamanico la soglia tra i mondi. Il suo è una ritualità di esplorazione. L’attore parte, visita il giardino-palcoscenico, stabilisce rapporti con oggetti reali e con altri immaginari, con un ambiente strutturato e destrutturante, con le suggestioni degli spazi e delle luci e delle musiche, con altri attori e con altri personaggi. Egli, interprete-personaggio è in interazione con altri interpreti-personaggi. Sono interazioni reali (tra interpreti) e irreali (tra personaggi). Sono una strategia per fondere insieme realtà e immaginazione.
Il giardino di cui si parla offre al visitatore una concretezza di fiori e piante, definite nelle forme e nei colori; ma anche una suggestione misteriosa di tonalità e rumori, mentre lo sguardo va dal seme al cielo. Si forma una visione diversa della realtà, mediata dall’irrealtà. L’attore può guardare il mondo con occhi diversi, da punti di vista diversi. Può scoprire cose nuove. Può rendersi protagonista della visione e dell’esplorazione e definire il proprio viaggio-spettacolo come ricerca di verità.
Tutto qua il rito del teatro panico: la verità sfiorata, intravista, annusata, percepita sulla pelle, ombra o balenio nel cuore e nella mente.
Spogliarsi e rivestirsi, per partecipare della trasformazione universale, e sfuggire alla trappola dell’io fortezza.
Nel teatro panico, l’attore invita il pubblico a fare come lui: spogliati e rivestiti, esplora, emozionati, pensa.
Sentiti elemento di un giardino. Lo vedi? Condividi la terra con tutti gli altri. Godi dello stesso sole, della stessa pioggia. Ma non sei qui solo per mettere radici, crescere, fiorire, fruttificare. Sei qui per immaginare. Per esplorare il giardino. Per sentirti non solo rosa, se sei rosa; ma anche rosmarino, ciliegio o alloro. Il giardino-palcoscenico è limitato e circondato da muri. Ma l’immaginazione ti porta oltre le barriere e rende sconfinato il tuo territorio.
Bella sensazione, vedere sempre più lontano.
Euforia, il teatro panico. Ti porta nelle profondità e poi nel cosmo. La colonna sonora è il battito del cuore dell’universo.


venerdì 11 maggio 2012

mercoledì 9 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte quinta)


Rivediamo il racconto. S’intrecciano tre storie. Quella di un angelo ribelle inseguito dall’arcangela (che vorrebbe riportarlo in cielo) e dal diavolo (che vorrebbe corromperlo). Quella di una coppia agiata, Tomtom e Barbi, che a causa della vita criminale di lui (un politico) potrebbe perdere tutto; firma quindi un patto satanico per avere l’Aldilàdisney, il luogo di tutte le felicità. E quella di tre ragazzi che avviano un’impresa commerciale subito fallita: mettere in comunicazione vivi e morti via internet. L’elemento comune è Manga, la prozia evocata, la castigamatti, il deus ex machina che cala dal cielo sulla terra per rimettere ordine in una “umanità degenerata. Sesso da tutte le parti. Sesso e violenza”. Ma il suo intervento non sarà provvidenziale e non risulterà risolutivo. Nessuna morale, nessun ordine, nel finale. Solo le cose messe a nudo: uno spogliarello.
Riordinando. L’onorevole Tomtom rischia di finire in galera e chiede invano l’aiuto di un angelo ribelle, Jehuel, che si fa ospitare da tre ragazzi (Spam, Chat e Bug). Collabora a un folle progetto che riporta in vita la prozia di Spam, Manga. Intanto, l’arcangela Michela prova invano a riprendersi Jehuel, tentato dal diavolo Temebros che approfitta della missione per portarsi all’inferno Tomtom e la moglie Barbi. Manga è scandalizzata dallo stile di vita dei discendenti e si illude di sistemare le cose con il moralismo e l’attività lavorativa: mette tutti a pitturare la casa. L’ultima battuta è sua: “Cambiamo il colore di questa vecchia casa. Era morta, ora è risorta.”
Ma ancora una volta i tre ragazzi infrangono le regole e inducono tutti a scatenarsi come loro. Poi, in un flash di pochi secondi, uno spogliarello lento e seducente. Fine.
Durante la vicenda si assiste ad alcune trasformazioni:
-          l’angelo Jehuel si toglie ali e aureola e indossa abiti umani
-          Tomtom e Barbi si strappano i vestiti, si truccano in modo appariscente e diventano zombi
-          i ragazzi sembrano accettare la disciplina imposta da Manga e si mettono a pitturare (fin che dura)
L’arcangela, il diavolo e Manga non possono cambiare, rappresentano sistemi dogmatici, rigidi. Tutti e tre sono destinati al fallimento e all’avvilimento. Dice Michela: “Una si dà tanto da fare… spadate di qua, spadate di là… e alla fine ha l’impressione che non è servito a niente.”
Hanno avuto tutti e tre la presunzione di porsi al di sopra degli altri, di essere in grado di decidere del loro destino, in base a… a che cosa? A sistemi religiosi che avvalorano la propria verità divina con la durata storica? Che cosa sono duemila anni, se non una frazione minima di tempo? Non sono più antichi gli scarafaggi? Ma non traiamone conseguenze teologiche, per carità.
Possiamo però fare riferimenti alle strategie di messa in scena.
La rigidità dogmatica appartiene a molti registi formatisi in un sistema affascinante e chiuso, perfetto solo per chi l’ha ideato. Sono i registi onnipotenti, unici fruitori di genialità, che manovrano le altri componenti dell’allestimento come pedine su una scacchiera. Ma contro chi giocano?  Solo contro sé stessi. Restii alla collaborazione, chiusi in una turris eburnea, gli occhi brillanti di scintille divine, tormentati e tormentanti, falsi schizoidi, veri paranoici.
Questi registi hanno forme mentali, regole, punti fermi, stili, e pretendono di imporre la loro visione statica ad attori, musicisti e tecnici; ma soprattutto agli autori.
Per loro il drammaturgo esiste solo quando è asservito al regista.  Altrimenti è solo uno scrittore di prosa. Con ferocia e accanimento si dedicano a smembrare, tagliare, accorpare, riscrivere le parole, sempre sicuri di potere fare meglio.
Offrono al pubblico grandi produzioni, ma alla lunga non fanno che ripetere ripetere ripetere.
Porsi al servizio del cambiamento e della trasformazione richiede doti rare: umiltà, modestia, disponibilità, ascolto, accettazione, sincerità. E un io imbrigliato.
Come si può visitare un giardino a testa alta, con atteggiamento sprezzante? Di fronte alla bellezza ci si inchina. E la bellezza non appartiene solo all’orchidea o alla rosa, ma anche al fiore di campo e all’erba selvatica.
Il giardino non è solo estetica, ma vita sotterranea e aerea, fitta e invisibile rete di relazioni, voci misteriose, scoperta e stupore, silenzio, beatitudine, e violenza improvvisa (ci sono anche ragni e gazze!).
Il regista trasforma la parola, la rende visibile; ma deve essere sempre disponibile al cambiamento sia del proprio modus operandi sia di sé stesso. È così fecondo e così appagante, cambiare! È l’unica forma di eternità che abbiamo nella durata breve di vita, il rinnovamento.
Il regista ascolti gli attori, ascolti il drammaturgo, accetti la collaborazione, guardi il mondo non con i propri occhi ma con quelli del mondo stesso.
Diavoli, arcangeli, moralizzatori, istitutori, legislatori e fautori di progresso materiale e di ordine sociale non possono accettare il cambiamento come regola di vita. A parte quello che decretano loro, e che deve poi diventare immutabile status quo.
Il cambiamento è misterioso, non è programmabile. Una volta dichiarata la propria disponibilità, esso può giungere o tardare, al di fuori della nostra volontà immediata. Ma si realizza, e si connatura in noi, e ci rende elastici e sensibili.
Nessun fiore fiorisce per una volontà esterna prepotente e infantile, ma grazie a una sinergia tanto complessa che però ha un nome semplice: vita.



lunedì 7 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte quarta)


Fatta la conoscenza di Tenebros, Michela, Jehuel, Barbi e Tommaso, il pubblico vede tornare i tre amici sul ritmo trascinante delle percussioni. I tre riprendono a giocare a pallacanestro. Sono ragazzi infantili, egocentrici, sfaticati, irrispettosi, cinici e superficiali. Non hanno un futuro e nemmeno ci pensano. La loro unica preoccupazione è mantenere uno status sociale soddisfacente e procurarsi i soldi necessari per assicurarsi i piccoli piaceri nei quali si esauriscono le ambizioni.
Il testo non procede all’analisi psicologica. Nessuno dei personaggi di “L’angelo dei morti” è costruito attorno a un’idea di persona reale trasportata sulle assi del palcoscenico. Il teatro ecosistemico (possiamo chiamarlo panico? proprio nel senso di rivelazione del dio Pan, uomo-natura, spaventoso nel suo porsi al di fuori e contro la civiltà umana) rifugge dalla cronaca individuale. Non intende farsi specchio di dialoghi da salotto, o da sezione politica, o da piazzetta, o da circolo intellettuale, o da studio di psicologo. In un sistema di equilibri e di armonie, di sintesi degli opposti, di contraddizioni feconde, di stupori e rivelazioni, la piccolezza del singolo stride. Lo studio psicologico è a monte della costruzione del personaggio sulla scena e va lasciato là, lontano dagli sguardi.
I tre ragazzi non sono Riccardo, Antonio o Carlo; si chiamano Spam, Chat e Bug: nomi non nomi, identità senza identità. Non hanno età, non hanno caratteri differenziati. Che cosa sono? Metafore? Non si presentano fornendo, in modo diretto o indiretto, le informazioni di base: io sono… abito… penso che… Si presentano come energia. Irrefrenabile. Uscendo di corsa da dietro il cellofan, spintonando via gli altri, invadono la scena urlando, impongono la propria presenza fisica. Saltano, urtano, afferrano, lanciano… Libertà di movimento. L’io nel movimento. La parola, infatti, non è fluida; è rimasticata, confusa, trattenuta. Scimmie evolute. Umani animalizzati. Il raccordo tra la civiltà e la natura.
La loro comunicazione con il pubblico non è tanto nel dire, quanto nel fare. Quello che dicono sembra non avere importanza: sciocchezze, provocazioni infantili, cronache minime e poco intelligenti, irrisioni. Quando dicono cose serie, si nota un certo imbarazzo. Il fondo di amarezza è comunque ben nascosto.
La loro vitalità si contrappone a quella degli altri personaggi. Diavolo e arcangela posano, come anche Barbi, emula televisiva; l’angelo parolaio mette a rischio la ribellione con un programma da predicatore televisivo; Tomtom diventa uno zombi; Manga è perbenismo che chiama progresso lo sfruttamento lavorativo.
I personaggi non sono quello che dicono, ma quello che fanno. I tre ragazzi destabilizzano, provocano e accettano il cambiamento, il loro muoversi convulso è ricerca di qualcosa. Gli altri sono chiusi ognuno in un proprio sistema ideologico o consumistico. La loro verità è fallimento (diavolo e arcangelo), rovina (Barbi e Tomtom), inefficacia (Manga). L’angelo è l’unico che vive un cambiamento straordinario: da creatura soprannaturale si fa mortale, avido di vita. Ora dipende solo da lui scegliere il tipo di vita.
Teatro panico, dunque. Destrutturazione, violenza, vita e morte, cambiamenti radicali, ribellione e rivoluzione, relativismo, laicismo e ateismo, libertà di pensiero e di coscienza…
La psicologia? Il teatro ha due concorrenti che portano avanti la spettacolarizzazione del personaggio con grande convinzione: il cinema e la televisione. Sceneggiati, drammi, serial… Il teatro deve cercare una via propria originale, per non soccombere.
La via di una parola non taciuta o soffocata (anche se la voglia viene, a causa dell’inquinamento da cellulari, conversazioni logorroiche, opinionismi e blog e dibattiti e idiotismi televisivi…), ma diversa.
Una parola che non indaghi il personaggio (lasciamolo fare ai romanzieri e agli sceneggiatori), ma lo racconti nelle sue attività dentro il palco-giardino. L’indagine non viene abbandonata, ma riformulata nelle relazioni non solo con gli altri personaggi (noi siamo in quanto siamo con), ma anche con gli elementi inorganici, dalla scenografia alle luci all’oggettistica.
Sono le parole di personaggi che osservano, interpellano, pensano, fanno reagendo agli stimoli offerti dal contesto. La loro storia non è lineare, presenta buchi e salti, dal passato balza al presente con un semplice a capo, non descrive nei dettagli, ma invita a intuire, suggerisce e suggestiona.
Il personaggio è così libero di procedere all’esplorazione dell’ambiente e dei compagni di scena senza essere costretto a seguire vialetti leziosi di ghiaietto. Avanza senza riguardi sul tappeto erboso e si sposta da un fiore a un albero, in piena empatia.
Si procede, insomma, per emozioni, più che per raccordi logici o psicologici.
Quali personaggi produce un metodo di lavoro che si basa su punti come:
-          unità di luogo (il tempo non importa, si è fermato)
-          riduzione al minimo di informazioni utili per la comprensione della storia
-          dialoghi il più possibile serrati, monologhi brevi
-          ironia, ironia, ironia, e anche battute di bassa lega
-          eliminazione di dialoghi non significativi, non metaforici, non illuminanti, non inquietanti, non divertenti
-          eccetera?
Personaggi non riconoscibili come persone, ma come emblemi. Tipi. Nel teatro panico un’erba infestante è sufficientemente descritta dalla funzione. In un trattato scientifico se ne trovano i nomi in latino e la classificazione; in un documentario se ne esaminano i dettagli; in un film horror si osserva il modus operandi. Sul palcoscenico si mettono in evidenza le relazioni con il prato, con gli animali e gli esseri umani. Essa, come personaggio, c’interessa per quanto dice e fa nello spettacolo. Non per le motivazioni nascoste, l’ambiente in cui è nata, l’educazione ricevuta, il periodo storico, la posizione politica… E nemmeno per il messaggio sociale. I personaggi del teatro panico sembra che a volte lancino messaggi o esprimano la morale finale. Poi, però, fanno uno sberleffo.
In conclusione, un personaggio è presentato non perché è interessante di per sé, ma perché sono interessanti le relazioni con gli altri. E intendo sia gli altri personaggi sia il pubblico.
Contro le parole (spesso eccessive) del cinema e della televisione, il teatro offre la parola misurata e magica, che non ha nemmeno bisogno di scenografia. La parola in teatro è talmente evocativa che crea da sola un set, e opera cambiamenti di scenario, impone il trascorrere del tempo, delimita un ambiente senza confini.
È questa la forza del teatro. Di costringere, con la propria energia, lo spettatore a partecipare con l’energia dell’immaginazione, strappandolo allo stato di passività che ha decretato il successo del piccolo schermo.
Il teatro attiva, e lo fa con prepotenza, al di fuori di tutte le regole.

domenica 6 maggio 2012

DOPO IL MANGIALIBRI

Ero super ansioso e abbastanza preoccupato... però in fondo è stato incredibile (Davide).
Mi sono sentito teso, allegro e intimorito perché c'era il mio allenatore in prima fila. Alla replica ho provato tanta sicurezza perché le battute me le ricordavo a memoria, anche se avevo la pelle d'oca (Marc).
Stavo per mettermi a piangere però per fortuna è andato tutto secondo i piani, ho sentito molti applausi, mi sono così emozionata che arrivata a casa saltavo di qua e di là (Chiara).
Le risate dei bambini durante lo spettacolo mi facevano provare molta felicità e questo mi ha caricato per fare bene. Questa esperienza la rifarei per tutta la vita (Davide).
Il primo giorno con i genitori avevo paura di sbagliare, infatti qualche errore l'ho fatto... ma menomale che gli spettatori non sapevano le battute. Gli applausi dei bambini mi tiravano via l'ansia (Indro).
La seconda volta ero più tranquillo e meno emozionato perché c'erano bambini e non adulti che mi facevano sbagliare (Lapo).
La cosa più bella è quella di stare sul palco e sentire gli applausi per tutti (Carlo).
Avevo paura di sbagliare. Se gli altri personaggi non partivano con la battuta precedente andavo in tilt totale. Quando siamo arrivati alla filastrocca finale pensavo: Uffa, è già finito! Quando provavamo a scuola mi sembrava lungo, ma in quel momento mi sembrava più corto (Laura).
Molta ansia, nervosa, felicità perché c'erano tutti i parenti. Invece il secondo giorno con i bambini ero molto tranquilla, ma non ero tanto felice perché quello era l'ultimo giorno di teatro (Sara).
Mi è piaciuto quando i bambini ridevano e battevano le mani e i piedi quando Marc urlava Odissea! Odissea! Odissea! (Samuel).
La seconda volta non ero agitato come la prima, e mi sono divertito a sentire gli applausi e le risate (Andrea).
La prima volta ho provato paura di sbagliare e felicità perché tutti  erano entusiasti della recita e mi sono anche divertito a dire zwim! ragnatelato! (Marco).
Siccome la prima volta è andata benissimo e gli spettatori sono stati entusiasti, anche noi "attori" siamo stati molto entusiasti e così la seconda volta non abbiamo avuto paura di sbagliare, è andato tutto alla grande e ci siamo divertiti un mondo! (Chiara).
Il primo giorno con i genitori ho provato: ansia perché era la prima volta, paura quando mi sono inceppato nella filastrocca. Il secondo giorno ero più sicuro, infatti ho fatto tutto giusto tranne forse la velocità della voce (Jordi).



sabato 5 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte terza)


Quello del palcoscenico sembra uno spazio finito. Dietro, il fondale nero copre il muro di fondo dell’edificio; sui lati, tolti alla vista dalle quinte nere, camerini, servizi, quadro elettrico… e sul davanti un sipario che tirato inscatola lo spazio. La quarta parete. C’è, non c’è, a seconda della messa in scena. Nell’Angelo è stata negata, dato che gli attori sono saliti sul palcoscenico dalla platea; ma è stata reinventata come schermo del cinema o della televisione, quando si sono spogliati; e poi gli stessi attori l’hanno distrutto, lanciando sulle prime file il lungo telo bianco.
Sul fondo, la scenografia prevede un muro di cellofan: un altro schermo? Ma la visione è distorta, ciò che vi avviene dietro è censurato e allo spettatore giungono solo immagini distorte. Una cosa intuisce: là dietro c’è un altro mondo, forse l’inferno. Uno spazio tripartito, proprio come l’inizio.
Il palcoscenico-ambiente per vivere lo spettacolo; uno spazio virtuale oltre il palcoscenico, fatto di sagome e luce; lo spazio di contorno, in parte occupato dal pubblico.
Sul palcoscenico sono stati sistemati un panca, un tavolino ricoperto dal telo bianco e due sedie. Che cosa suggeriscono, questi elementi? L’arredo di un giardino, pare. Infatti, i tre ragazzi lo occupano giocando a pallacanestro. E in seguito Barbi e Manga indicheranno il cellofan chiamandolo “casa”. Tuttavia, il diavolo invade questo spazio; e in seguito anche gli altri personaggi “anime dannate” che stazionano dietro il cellofan.
Uno spazio definito in modo vago, ma pur sempre realistico, che viene utilizzato in modo improprio e diventa altro, un luogo virtuale quanto il retro del cellofan. D’altronde, aria, terra e acqua, in un giardino, non fanno che mescolarsi in continuazione.
Lo spazio virtuale dietro il cellofan è versatile e si piega a tutte le esigenze della sceneggiatura. Ci cade l’angelo, e ci ritorna per procurarsi degli indumenti umani e per polemizzare con Dio. Ci vanno Tomtom e Barbie come se rientrassero in casa; e Barbie come se andasse in centro per fare commissioni; ne esce Manga, richiamata in vita; ci va e viene Michela, l’arcangela… ehi, lei va e viene dal paradiso! In conclusione, lo spazio virtuale dietro la parete liquida colorata (quasi un varco per altri mondi e altri tempi) è inferno e paradiso, casa e città.
Lo spettatore, tuttavia, non si pone questi problemi. Accetta la suddivisione dello spazio senza preoccuparsi di schematizzare gli itinerari dei personaggi; gli interessa solo che riappaiano per interessarlo, divertirlo, emozionarlo. La mappa è flessibile e varia nel tempo. D’altronde, il susseguirsi delle stagioni impedisce che un giardino si cristallizzi in una visione razionale e definitiva. Dove c’erano i narcisi ora sbocciano le viole, un angolo verde apparirà poi spoglio. I colori cambiano, le geometrie si modificano.
I personaggi vanno e vengono tra lo spazio di realtà e quello virtuale non ignorando il pubblico, al quale rivolgono viso e gesti; ma trattandolo come elemento irreale, che non fa parte della vicenda narrata, togliendo quindi ogni individualità alla massa silenziosa. Essi hanno davanti a sé una caverna semibuia, abitata da individui che prestano attenzione. Uno spazio misterioso, quello del pubblico. Simile a quello della metropoli che circonda il giardino. Uno spazio minaccioso, di inquinamento e annessione. Ma per la durata dello spettacolo lo spazio ecosistemico prevale sull’atrio con il grande lampadario, sulla platea affollata e perfino sul pericoloso esterno di traffico convulso. Gli attori, vivendo lo spazio, ci tirano dentro lo spettatore, strappandolo alla poltrona, alla strada, alla città.
Come in un giardino lo spazio è determinato non solo dalla peculiarità e dalla disposizione delle piante, ma anche dai dislivelli del terreno, dalla combinazione delle tonalità, dall’uso dei componenti organici e non organici; così sul palcoscenico spazio reale e spazio virtuale possono mescolarsi, grazie anche alle luci e alle musiche; e oggetti come una bicicletta o un telo di dieci metri da tendere, gonfiare e lanciare dilatano e restringono lo spazio, anche se solo per pochi secondi.
Un giardino-frutteto non sono fatti solo per la contemplazione. Essi devono essere usati. La cura delle piante, il contatto fisico con la terra, la raccolta dei frutti… In un teatro ecosistemico lo spazio è manipolabile come ogni altro elemento, al di là della classificazione razionale e delle convenzioni d’uso.
Tutto si trasforma, anche la misura in metri di un palcoscenico.

venerdì 4 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte seconda)


L’inizio è dunque tripartito: la vestizione (un limbo, luci in sala e palcoscenico spento, il confine tra l’attore e il suo ruolo, la muta, dal bozzolo esce una nuova creatura, il personaggio; e il pubblico spione? sconcertato, non sa come osservare, come giudicare, voyeurismo, sto in piedi o mi siedo? come ci si comporta, quando le regole vengono infrante? qualcuno rivolge cenni alla cabina di regia: spegnete le luci!), la dichiarazione d’intenti (all’improvviso, colori, atmosfera, musica imponente, coreografia d’impatto, la parola in una filastrocca dura, e tutti gli interpreti presenti sul palcoscenico, sagome sfocate dietro un cellofan: lo spettacolo è corale, ed è fatto di parola recitata e cadenzata e cantata, di luce e buio, di musica e silenzio, di movimento lento e veloce, di ritmo e montaggio di scene come esplorazione dell’ambiente drammaturgico; ma questa scena che significato ha? Tre ragazzi alla catena, sono all’inferno? Ci finiranno? Non si sa, non si capisce, ma non importa, non c’è niente da capire, c’è solo da lasciarsi trasportare dentro lo spettacolo), l’inizio vero e proprio con l’ingresso di attori che recitano le parole di una “storia”.
Ecco, l’Angelo dei morti è cominciato.
Il pubblico fa la conoscenza di un angelo, Jehuel, che si ribella a Dio e sceglie di farsi terrestre per sentire l’odore della vita, e non solo quello della morte (è un angelo becchino). Un diavolo, Tenebros, lo tenta per tirarlo dalla propria parte. Un’arcangela, Michela, deve riportarlo in cielo e difenderlo dalle tentazioni.
Subito dopo, incontriamo i tre ragazzi (Spam, Chat e Bug). Invadenti, chiassosi, irrispettosi, cinici, anche crudeli, vuoti, egoisti… ma simpatici. Nemmeno la madre di Spam, Barbi, pur essendo tanto stupida, risulta antipatica.  E il papà? Un politico delinquente, con una lista di reati infinita. Sembra anche prepotente e arido, un egocentrico carrierista che si vede franare la terra sotto i piedi. Ma pian piano non diventa simpatico anche lui? Soprattutto quando sarà ridotto a uno zombi?
Ma il pubblico non emette giudizi. Non si sforza nemmeno di orientarsi per capire chi sono e che posto hanno nella storia i personaggi. Ha l’impressione che una storia ci sia, ma che sia un poco confusa. Soprattutto frammentaria.
L’autore non è uno sprovveduto in relazione a storie lineari. Ha un’esperienza ventennale di libri per bambini e ragazzi. Ma in teatro… Il teatro non è un libro. Il teatro è un mondo. E un mondo lo si racconta andando in giro a esplorare, cogliendo visioni, impressioni sonore e visive, e frammento di storie. Là una storia di aggressione, qui una di fuga, e altrove un’altra di gratificazione, o di ripulsa, e poi di curiosità, o di solitudine… Un giardino non ha una storia lineare. Ci entrate, osservate, annusate, ascoltate, toccate, fate collegamenti, cambiate punto di vista, vi spostate, esplorate…
Nel giardino dovete essere persone, viaggiatori, scienziati e filosofi. Spettatori.
La drammaturgia dell’Angelo dei morti è così, un viaggio nell’ambiente che si è creato sul palcoscenico. Una storia c’è, ma che importa se non viene spiegata in modo ordinato e dettagliato? Che importa se qualche spettatore non ha le idee chiare? Si può forse raccontare un fiore? Uh, che noia! C’è sempre così tanto, da raccontare! Troppo! E allora ogni storia ne nasconde altre, e ognuna è come una cipolla, diceva qualcuno, che puoi sfogliare scendendo sempre più di livello fino al suo cuore candido.
Storie e sottostorie, livelli di comprensione. Interpretazioni.
La drammaturgia eco sistemica è rispettosa dell’ambiente, non lo inquina con parole da buttare, e nemmeno con gli sbadigli di monologhi senza fine e di dialoghi da salotto. È una drammaturgia che suggerisce, suggestiona, allude. Che si sforza di trattenere la petulanza delle parole affinché trovino l’equilibrio con le coreografie, le luci e le musiche.
Soprattutto, è una drammaturgia corale.
Il protagonismo? C’è forse un protagonista, in un giardino? L’imponente cedro al suo centro? Monotono, in confronto alla versatilità dei cespugli ai suoi piedi, fioriti in primavera ed estate, incendiati di rosso e di giallo in autunno.
La drammaturgia ecosistemica non prevede personaggi di contorno (la cameriera con due battute), non prevede nemmeno personaggi minori. Ogni personaggio ha una storia da raccontare e contribuisce all’equilibrio generale, con identica dignità e importanza.
Nessun filo d’erba deve alzare lo sguardo intimidito verso le fronde del cedro e nessun cedro deve insuperbire sul prato. Il significato della vita non sta nella differenza di dimensioni (in tutti i significati possibili), ma nella compartecipazione della vita stessa. Il nutrimento è un atto di reciprocità. L’esistenza è una radice condivisa.
Ecco, in conclusione, che la drammaturgia si fa rispettosa dei personaggi, e li mostra nelle relazioni interpersonali, senza farsi accalappiare dai signori delle storie lineari, dei finali sensati, delle trame a orologeria, dei meccanismi testuali realizzati sui tavolini dell’ingegno.
La vita dell’ambiente di palcoscenico è troppo impetuosa, irrazionale, imprevedibile, perché si lasci mettere in gabbia. Gli uccelli siano liberi di volare negli spazi infiniti.

giovedì 3 maggio 2012

L’ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte prima)

Sono le ore 21.00, si dovrebbero dare i segnali per invitare il pubblico a prendere posto e spegnere le luci; poi, dovrebbe iniziare lo spettacolo. Non va così. C’è ancora gente nell’atrio, in sala molti sono in piedi, altri si aggirano tra i corridoi per salutare, quasi tutti chiacchierano, il brusio intenso precede il buio dell’attesa, come sempre; qualcuno fissa la scena a sipario tirato: un fondale di plastica semitrasparente (telo doppio copri tutto per imbianchini); una panca di ferro smaltata di bianco; un tavolino ricoperto da un telo candido lungo una decina di metri che finisce in platea; due sedie bianche. Dal fondo avanzano nove ragazzi. Vestono casual, non sono certo qui per una serata culturale. Portano un sacchetto di plastica capiente. Si dirigono verso il palcoscenico, ma ognuno per conto proprio, come se non facesse parte del gruppo. Non fanno caso al pubblico. Nella confusione, in un primo momento risultano quasi invisibili, ma poi vengono notati. Gli sguardi dei presenti si fissano sulle loro schiene. Li seguono fino a che li vedono salire sul palcoscenico. Ma… è cominciato lo spettacolo? Eppure, le luci in sala sono ancora accese. Una svista. I dilettanti ne fanno di sbagli! La gente non sa che cosa fare. Qualcuno si siede. Ma i ragazzi non si mettono a recitare. Con naturalezza, come se fossero in camerino, si spogliano, scambiano qualche battuta a voce bassa, tra sorrisi, o espressioni concentrate, qualche sospiro. Il pubblico, sconcertato, li vede mettersi in mutande, a torso nudo; le ragazze, però, dietro il cellofan. Li vede indossare gli abiti di scena. Li vede scomparire, uno dopo l’altro, dietro il telo di plastica. Ora in platea sono tutti seduti. Sulla scena rimane solo Tommaso-Tomtom. L’Armani è complicato da indossare. Ma lui fa con calma, senza farsi prendere dall’ansia. Ecco, raccoglie gli indumenti da attore, si aggiusta la cravatta da personaggio e scompare anche lui dietro il telo. Sul palcoscenico, finora illuminato solo dalle luci di sala, sale lenta una luminosità di tramonto; le luci di sala si spengono e il pubblico è rassicurato: questo sì che è un inizio di spettacolo. Sboccia, prepotente come un papavero, l’alluvione sonora di un Dies irae. Tre ragazzi alla catena rotolano sull’assito, un demone in elegante completo nero-viola con rosa bianca all’occhiello li controlla: “… tu mi dai tutto di te / e diventi più di un re, / ma ricorda, ciò che è dato / ti fa mio: sei dannato!” La scena è forte, sul telo di plastica acceso dalla gelatina rossa premono le mani dei dannati che emettono lamenti bestiali. Gli attori, per tutto lo spettacolo, se ne staranno lì, dietro il telo. Non possono abbandonare la scena, il testo, i compagni, la recita. Non devono entrare e uscire. Gli attori sono sempre in scena, mentalmente e fisicamente. Non ha senso che con un sospiro se ne vadano tra le quinte (a ridiventare attori? No, no, sono personaggi!) e poi ritornino come se niente fosse, dopo avere magari sbirciato in platea, o spinto lo sguardo oltre il vetro di una finestra, o scambiato due chiacchiere con un tecnico, o pensato ai problemi personali. E tutti collaborano, oh se collaborano! alla riuscita dello spettacolo. Ci sono i cori, le voci, i rumori, i movimenti… Teatro ecosistemico. Sistema aperto. Wikipedia: “Un ecosistema è una porzione di biosfera delimitata naturalmente, cioè l’insieme di organismi animali e vegetali che interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda. Ogni ecosistema è costituito da una comunità di organismi ed elementi non viventi con il quale si vengono a creare delle interazioni reciproche in equilibrio dinamico.” Spazio, attori, testo, scenografia, oggetti, costumi… Il teatro come ambiente. Determinato l’ambiente, non si può uscirne. L’attore-organismo vive in quell’ambiente. E ci vive in una serie di interazioni (con i partner, il testo, lo spazio, le luci…) che devono produrre quell’equilibrio dinamico giudicato poi dal pubblico in termini di partecipazione emotiva, cognitiva ed estetica. Non c’è teatro se non si stabiliscono le relazioni corrette ed efficaci tra tutti gli elementi che contribuiscono a creare l’ambiente/spettacolo. E questi elementi sono molti e molti di loro sono sottovalutati, come capita in natura, dove l’animale grosso e aggressivo gode di maggiore considerazione rispetto all’insetto o ai minerali del suolo o al filo d’erba. Rispetto per l’ambiente, rispetto per tutte le componenti dello spettacolo. Non esistono solo il regista, l’autore e gli attori. Ci sono i tecnici (Elio, fratello di Tommaso-Tomtom, in una mattinata ha imparato a fare il tecnico luci sotto la guida di Alex, un professionista), le mamme che fanno le costumiste e le P.R., le macchiniste e le impresarie… e i papà che montano e smontano, gli amici che danno una mano e un consiglio… Questo nel nostro teatro, teatro di paese e di gioco. Nel teatro grande sapete tutti quante persone concorrono con la loro fatica e la loro genialità a costruire uno spettacolo. Viva quindi il protagonismo allargato. Nel nostro teatro piccolo, tutti sono protagonisti; e nessuno fa il divo. E questo è rispetto per l’ambiente. (continua)