Una recensione-critica che farà riflettere Lupusagnus su molte cose.
Collocandosi come capitolo finale della trilogia sulla famiglia iniziata conMamma mammazza e proseguita con Verginella, Canicani conferma l’interesse di Stefano De Luca (allievo di Strehler al Piccolo Teatro e fondatore della compagnia LupusAgnus) per le tematiche a tinte forti e la passione per il “work in progress”. Il tema, almeno sulla carta, è quello del commercio d’organi, perpetrato a gestione familiare, da parte dei genitori a danno dei figli.
Questi ultimi, come suggerisce esplicitamente il rafforzativo del titolo (Canicani), sono degradati a un livello ancor più bestiale degli animali, ridotti alla stregua di risorse economico-alimentari (uno è costretto a spacciare, un’altra a prostituirsi, il terzo a offrire i suoi organi). Come i migliori amici dell’uomo i canicani non si ribellano al loro padrone, subiscono e restano fedeli alla mano che (non) li nutre.
Di fatto la tematica del commercio d’organi risulta più una contingenza che il fulcro delle problematiche che De Luca mette in evidenza: alla base di questa distorsione di ruoli e di dinamiche familiari, sembrano dire il regista e il drammaturgo Aquilino, c’è un appiattimento culturale generato da alcuni modelli sociali iniqui.
Non a caso un televisore impera da subito sulla scena e lì rimane fino a librarsi fluttuante in un finale che lascia presagire il successo del suo dominio. Ovviamente la famiglia è il primo luogo dove questo imprinting attecchisce, alimentando nei membri adulti un egoismo asentimentale, condotto non in nome della propria sussistenza (mors tua, vita mea), ma della propria comodità e del proprio capriccio.
Se la materia è drammatica e presentata con disincantata brutalità (abbondano sacchetti pieni di sangue, incesti, stupri ecc.), la recitazione vira, secondo uno schema conosciuto, verso il grottesco. I personaggi sono macchiette esasperate degli exempla negativi/patetici che incarnano, la loro clownerie iperbolizza la realtà senza riuscire però a restituirla allo spettatore nella sua complessità. Non mancano canzoni né vere e proprie gag, che per quanto siano il palese tentativo di coinvolgere il pubblico facendolo specchiare attraverso i propri tic ricreativi (karaoke/grande fratello/circo), rimangono poco giustificate da un punto di vista narrativo, rischiando di sfilacciarne le trame o di fungere da meri riempitivi. In questa continua amplificazione, le filastrocche, i calambour e gli aforismi – “in ogni orco c’è un bambino divorato” – del testo di Aquilino perdono suggestione e capacità evocativa.
Spettacoli in fieri, si diceva, quelli di De Luca, attenti a modificarsi a seconda della percezione e delle impressioni del pubblico, e, bisogna rendergliene il merito, non si tratta di retorica, ma di una vera e propria poetica: Canicani è stato recentemente rimaneggiato con un finale diverso in chiave pessimista.
Con queste premesse, la scelta di tirare fuori dall’armadio, insieme ai pantaloni a zampa di uno dei personaggi, il dibattito di fine spettacolo, appare decisione giustificata e funzionale più che feticcio passatista. Sicuramente il pubblico del Teatro della Cooperativa – luogo della prima milanese dello spettacolo che aveva debuttato l’anno scorso a Monza - particolarmente sensibile alle tematiche sociali, è l’interlocutore ideale per questo tipo di confronto e, se si pazienta, si possono ascoltare i commenti di un pubblico vivo. Insieme al dibattito, infine, viene proposto un test psicologico: viene distribuito un elenco di parole tra le quali lo spettatore dovrà segnalare quelle che meglio rappresentano il proprio stato d’animo dopo ciò che ha visto.
Solo poche hanno accezione positiva, molte, invece, sono declinazioni diverse del polo opposto.
Non è un buon segno che, mentre si legge il questionario, emerga alla mente un’ambiguità, per quanto involontaria: si riferiscono ai contenuti o allo spettacolo stesso?
Corrado Rovida