lunedì 7 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte quarta)


Fatta la conoscenza di Tenebros, Michela, Jehuel, Barbi e Tommaso, il pubblico vede tornare i tre amici sul ritmo trascinante delle percussioni. I tre riprendono a giocare a pallacanestro. Sono ragazzi infantili, egocentrici, sfaticati, irrispettosi, cinici e superficiali. Non hanno un futuro e nemmeno ci pensano. La loro unica preoccupazione è mantenere uno status sociale soddisfacente e procurarsi i soldi necessari per assicurarsi i piccoli piaceri nei quali si esauriscono le ambizioni.
Il testo non procede all’analisi psicologica. Nessuno dei personaggi di “L’angelo dei morti” è costruito attorno a un’idea di persona reale trasportata sulle assi del palcoscenico. Il teatro ecosistemico (possiamo chiamarlo panico? proprio nel senso di rivelazione del dio Pan, uomo-natura, spaventoso nel suo porsi al di fuori e contro la civiltà umana) rifugge dalla cronaca individuale. Non intende farsi specchio di dialoghi da salotto, o da sezione politica, o da piazzetta, o da circolo intellettuale, o da studio di psicologo. In un sistema di equilibri e di armonie, di sintesi degli opposti, di contraddizioni feconde, di stupori e rivelazioni, la piccolezza del singolo stride. Lo studio psicologico è a monte della costruzione del personaggio sulla scena e va lasciato là, lontano dagli sguardi.
I tre ragazzi non sono Riccardo, Antonio o Carlo; si chiamano Spam, Chat e Bug: nomi non nomi, identità senza identità. Non hanno età, non hanno caratteri differenziati. Che cosa sono? Metafore? Non si presentano fornendo, in modo diretto o indiretto, le informazioni di base: io sono… abito… penso che… Si presentano come energia. Irrefrenabile. Uscendo di corsa da dietro il cellofan, spintonando via gli altri, invadono la scena urlando, impongono la propria presenza fisica. Saltano, urtano, afferrano, lanciano… Libertà di movimento. L’io nel movimento. La parola, infatti, non è fluida; è rimasticata, confusa, trattenuta. Scimmie evolute. Umani animalizzati. Il raccordo tra la civiltà e la natura.
La loro comunicazione con il pubblico non è tanto nel dire, quanto nel fare. Quello che dicono sembra non avere importanza: sciocchezze, provocazioni infantili, cronache minime e poco intelligenti, irrisioni. Quando dicono cose serie, si nota un certo imbarazzo. Il fondo di amarezza è comunque ben nascosto.
La loro vitalità si contrappone a quella degli altri personaggi. Diavolo e arcangela posano, come anche Barbi, emula televisiva; l’angelo parolaio mette a rischio la ribellione con un programma da predicatore televisivo; Tomtom diventa uno zombi; Manga è perbenismo che chiama progresso lo sfruttamento lavorativo.
I personaggi non sono quello che dicono, ma quello che fanno. I tre ragazzi destabilizzano, provocano e accettano il cambiamento, il loro muoversi convulso è ricerca di qualcosa. Gli altri sono chiusi ognuno in un proprio sistema ideologico o consumistico. La loro verità è fallimento (diavolo e arcangelo), rovina (Barbi e Tomtom), inefficacia (Manga). L’angelo è l’unico che vive un cambiamento straordinario: da creatura soprannaturale si fa mortale, avido di vita. Ora dipende solo da lui scegliere il tipo di vita.
Teatro panico, dunque. Destrutturazione, violenza, vita e morte, cambiamenti radicali, ribellione e rivoluzione, relativismo, laicismo e ateismo, libertà di pensiero e di coscienza…
La psicologia? Il teatro ha due concorrenti che portano avanti la spettacolarizzazione del personaggio con grande convinzione: il cinema e la televisione. Sceneggiati, drammi, serial… Il teatro deve cercare una via propria originale, per non soccombere.
La via di una parola non taciuta o soffocata (anche se la voglia viene, a causa dell’inquinamento da cellulari, conversazioni logorroiche, opinionismi e blog e dibattiti e idiotismi televisivi…), ma diversa.
Una parola che non indaghi il personaggio (lasciamolo fare ai romanzieri e agli sceneggiatori), ma lo racconti nelle sue attività dentro il palco-giardino. L’indagine non viene abbandonata, ma riformulata nelle relazioni non solo con gli altri personaggi (noi siamo in quanto siamo con), ma anche con gli elementi inorganici, dalla scenografia alle luci all’oggettistica.
Sono le parole di personaggi che osservano, interpellano, pensano, fanno reagendo agli stimoli offerti dal contesto. La loro storia non è lineare, presenta buchi e salti, dal passato balza al presente con un semplice a capo, non descrive nei dettagli, ma invita a intuire, suggerisce e suggestiona.
Il personaggio è così libero di procedere all’esplorazione dell’ambiente e dei compagni di scena senza essere costretto a seguire vialetti leziosi di ghiaietto. Avanza senza riguardi sul tappeto erboso e si sposta da un fiore a un albero, in piena empatia.
Si procede, insomma, per emozioni, più che per raccordi logici o psicologici.
Quali personaggi produce un metodo di lavoro che si basa su punti come:
-          unità di luogo (il tempo non importa, si è fermato)
-          riduzione al minimo di informazioni utili per la comprensione della storia
-          dialoghi il più possibile serrati, monologhi brevi
-          ironia, ironia, ironia, e anche battute di bassa lega
-          eliminazione di dialoghi non significativi, non metaforici, non illuminanti, non inquietanti, non divertenti
-          eccetera?
Personaggi non riconoscibili come persone, ma come emblemi. Tipi. Nel teatro panico un’erba infestante è sufficientemente descritta dalla funzione. In un trattato scientifico se ne trovano i nomi in latino e la classificazione; in un documentario se ne esaminano i dettagli; in un film horror si osserva il modus operandi. Sul palcoscenico si mettono in evidenza le relazioni con il prato, con gli animali e gli esseri umani. Essa, come personaggio, c’interessa per quanto dice e fa nello spettacolo. Non per le motivazioni nascoste, l’ambiente in cui è nata, l’educazione ricevuta, il periodo storico, la posizione politica… E nemmeno per il messaggio sociale. I personaggi del teatro panico sembra che a volte lancino messaggi o esprimano la morale finale. Poi, però, fanno uno sberleffo.
In conclusione, un personaggio è presentato non perché è interessante di per sé, ma perché sono interessanti le relazioni con gli altri. E intendo sia gli altri personaggi sia il pubblico.
Contro le parole (spesso eccessive) del cinema e della televisione, il teatro offre la parola misurata e magica, che non ha nemmeno bisogno di scenografia. La parola in teatro è talmente evocativa che crea da sola un set, e opera cambiamenti di scenario, impone il trascorrere del tempo, delimita un ambiente senza confini.
È questa la forza del teatro. Di costringere, con la propria energia, lo spettatore a partecipare con l’energia dell’immaginazione, strappandolo allo stato di passività che ha decretato il successo del piccolo schermo.
Il teatro attiva, e lo fa con prepotenza, al di fuori di tutte le regole.

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