Fatta la conoscenza di
Tenebros, Michela, Jehuel, Barbi e Tommaso, il pubblico vede tornare i tre
amici sul ritmo trascinante delle percussioni. I tre riprendono a giocare a
pallacanestro. Sono ragazzi infantili, egocentrici, sfaticati, irrispettosi,
cinici e superficiali. Non hanno un futuro e nemmeno ci pensano. La loro unica
preoccupazione è mantenere uno status sociale soddisfacente e procurarsi i
soldi necessari per assicurarsi i piccoli piaceri nei quali si esauriscono le ambizioni.
Il testo non procede all’analisi
psicologica. Nessuno dei personaggi di “L’angelo dei morti” è costruito attorno
a un’idea di persona reale trasportata sulle assi del palcoscenico. Il teatro ecosistemico
(possiamo chiamarlo panico? proprio nel
senso di rivelazione del dio Pan, uomo-natura, spaventoso nel suo porsi al di
fuori e contro la civiltà umana) rifugge dalla cronaca individuale. Non intende
farsi specchio di dialoghi da salotto, o da sezione politica, o da piazzetta, o
da circolo intellettuale, o da studio di psicologo. In un sistema di equilibri
e di armonie, di sintesi degli opposti, di contraddizioni feconde, di stupori e
rivelazioni, la piccolezza del singolo stride. Lo studio psicologico è a monte
della costruzione del personaggio sulla scena e va lasciato là, lontano dagli
sguardi.
I tre ragazzi non sono
Riccardo, Antonio o Carlo; si chiamano Spam, Chat e Bug: nomi non nomi,
identità senza identità. Non hanno età, non hanno caratteri differenziati. Che
cosa sono? Metafore? Non si presentano fornendo, in modo diretto o indiretto,
le informazioni di base: io sono… abito… penso che… Si presentano come energia.
Irrefrenabile. Uscendo di corsa da dietro il cellofan, spintonando via gli altri,
invadono la scena urlando, impongono la propria presenza fisica. Saltano,
urtano, afferrano, lanciano… Libertà di movimento. L’io nel movimento. La parola,
infatti, non è fluida; è rimasticata, confusa, trattenuta. Scimmie evolute.
Umani animalizzati. Il raccordo tra la civiltà e la natura.
La loro comunicazione con
il pubblico non è tanto nel dire, quanto nel fare. Quello che dicono sembra non
avere importanza: sciocchezze, provocazioni infantili, cronache minime e poco
intelligenti, irrisioni. Quando dicono cose serie, si nota un certo imbarazzo.
Il fondo di amarezza è comunque ben nascosto.
La loro vitalità si
contrappone a quella degli altri personaggi. Diavolo e arcangela posano, come
anche Barbi, emula televisiva; l’angelo parolaio mette a rischio la ribellione con
un programma da predicatore televisivo; Tomtom diventa uno zombi; Manga è perbenismo
che chiama progresso lo sfruttamento lavorativo.
I personaggi non sono
quello che dicono, ma quello che fanno. I tre ragazzi destabilizzano, provocano
e accettano il cambiamento, il loro muoversi convulso è ricerca di qualcosa.
Gli altri sono chiusi ognuno in un proprio sistema ideologico o consumistico.
La loro verità è fallimento (diavolo e arcangelo), rovina (Barbi e Tomtom),
inefficacia (Manga). L’angelo è l’unico che vive un cambiamento straordinario:
da creatura soprannaturale si fa mortale, avido di vita. Ora dipende solo da
lui scegliere il tipo di vita.
Teatro panico, dunque. Destrutturazione,
violenza, vita e morte, cambiamenti radicali, ribellione e rivoluzione,
relativismo, laicismo e ateismo, libertà di pensiero e di coscienza…
La psicologia? Il teatro
ha due concorrenti che portano avanti la spettacolarizzazione del personaggio
con grande convinzione: il cinema e la televisione. Sceneggiati, drammi, serial…
Il teatro deve cercare una via propria originale, per non soccombere.
La via di una parola non
taciuta o soffocata (anche se la voglia viene, a causa dell’inquinamento da
cellulari, conversazioni logorroiche, opinionismi e blog e dibattiti e
idiotismi televisivi…), ma diversa.
Una parola che non
indaghi il personaggio (lasciamolo fare ai romanzieri e agli sceneggiatori), ma
lo racconti nelle sue attività dentro il palco-giardino. L’indagine non viene abbandonata,
ma riformulata nelle relazioni non solo con gli altri personaggi (noi siamo in
quanto siamo con), ma anche con gli elementi inorganici, dalla scenografia alle
luci all’oggettistica.
Sono le parole di
personaggi che osservano, interpellano, pensano, fanno reagendo agli stimoli
offerti dal contesto. La loro storia non è lineare, presenta buchi e salti, dal
passato balza al presente con un semplice a capo, non descrive nei dettagli, ma
invita a intuire, suggerisce e suggestiona.
Il personaggio è così
libero di procedere all’esplorazione dell’ambiente e dei compagni di scena
senza essere costretto a seguire vialetti leziosi di ghiaietto. Avanza senza
riguardi sul tappeto erboso e si sposta da un fiore a un albero, in piena
empatia.
Si procede, insomma, per emozioni,
più che per raccordi logici o psicologici.
Quali personaggi produce
un metodo di lavoro che si basa su punti come:
-
unità di
luogo (il tempo non importa, si è fermato)
-
riduzione al
minimo di informazioni utili per la comprensione della storia
-
dialoghi il
più possibile serrati, monologhi brevi
-
ironia,
ironia, ironia, e anche battute di bassa lega
-
eliminazione
di dialoghi non significativi, non metaforici, non illuminanti, non
inquietanti, non divertenti
-
eccetera?
Personaggi non riconoscibili come persone, ma come emblemi. Tipi. Nel
teatro panico un’erba infestante è sufficientemente descritta dalla funzione.
In un trattato scientifico se ne trovano i nomi in latino e la classificazione;
in un documentario se ne esaminano i dettagli; in un film horror si osserva il
modus operandi. Sul palcoscenico si mettono in evidenza le relazioni con il
prato, con gli animali e gli esseri umani. Essa, come personaggio, c’interessa per
quanto dice e fa nello spettacolo. Non per le motivazioni nascoste, l’ambiente
in cui è nata, l’educazione ricevuta, il periodo storico, la posizione politica…
E nemmeno per il messaggio sociale. I personaggi del teatro panico sembra che a
volte lancino messaggi o esprimano la morale finale. Poi, però, fanno uno sberleffo.
In conclusione, un personaggio è presentato non perché è interessante di
per sé, ma perché sono interessanti le relazioni con gli altri. E intendo sia
gli altri personaggi sia il pubblico.
Contro le parole (spesso eccessive) del cinema e della televisione, il
teatro offre la parola misurata e magica, che non ha nemmeno bisogno di
scenografia. La parola in teatro è talmente evocativa che crea da sola un set,
e opera cambiamenti di scenario, impone il trascorrere del tempo, delimita un
ambiente senza confini.
È questa la forza del teatro. Di costringere, con la propria energia, lo
spettatore a partecipare con l’energia dell’immaginazione, strappandolo allo
stato di passività che ha decretato il successo del piccolo schermo.
Il teatro attiva, e lo fa con prepotenza, al di fuori di tutte le regole.
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