Quello del palcoscenico
sembra uno spazio finito. Dietro, il fondale nero copre il muro di fondo dell’edificio;
sui lati, tolti alla vista dalle quinte nere, camerini, servizi, quadro
elettrico… e sul davanti un sipario che tirato inscatola lo spazio. La quarta
parete. C’è, non c’è, a seconda della messa in scena. Nell’Angelo è stata
negata, dato che gli attori sono saliti sul palcoscenico dalla platea; ma è
stata reinventata come schermo del cinema o della televisione, quando si sono
spogliati; e poi gli stessi attori l’hanno distrutto, lanciando sulle prime
file il lungo telo bianco.
Sul fondo, la scenografia
prevede un muro di cellofan: un altro schermo? Ma la visione è distorta, ciò
che vi avviene dietro è censurato e allo spettatore giungono solo immagini
distorte. Una cosa intuisce: là dietro c’è un altro mondo, forse l’inferno. Uno
spazio tripartito, proprio come l’inizio.
Il palcoscenico-ambiente
per vivere lo spettacolo; uno spazio virtuale oltre il palcoscenico, fatto di
sagome e luce; lo spazio di contorno, in parte occupato dal pubblico.
Sul palcoscenico sono
stati sistemati un panca, un tavolino ricoperto dal telo bianco e due sedie. Che
cosa suggeriscono, questi elementi? L’arredo di un giardino, pare. Infatti, i
tre ragazzi lo occupano giocando a pallacanestro. E in seguito Barbi e Manga indicheranno
il cellofan chiamandolo “casa”. Tuttavia, il diavolo invade questo spazio; e in
seguito anche gli altri personaggi “anime dannate” che stazionano dietro il
cellofan.
Uno spazio definito in
modo vago, ma pur sempre realistico, che viene utilizzato in modo improprio e
diventa altro, un luogo virtuale quanto il retro del cellofan. D’altronde,
aria, terra e acqua, in un giardino, non fanno che mescolarsi in continuazione.
Lo spazio virtuale dietro
il cellofan è versatile e si piega a tutte le esigenze della sceneggiatura. Ci
cade l’angelo, e ci ritorna per procurarsi degli indumenti umani e per polemizzare
con Dio. Ci vanno Tomtom e Barbie come se rientrassero in casa; e Barbie come
se andasse in centro per fare commissioni; ne esce Manga, richiamata in vita;
ci va e viene Michela, l’arcangela… ehi, lei va e viene dal paradiso! In
conclusione, lo spazio virtuale dietro la parete liquida colorata (quasi un
varco per altri mondi e altri tempi) è inferno e paradiso, casa e città.
Lo spettatore, tuttavia,
non si pone questi problemi. Accetta la suddivisione dello spazio senza
preoccuparsi di schematizzare gli itinerari dei personaggi; gli interessa solo
che riappaiano per interessarlo, divertirlo, emozionarlo. La mappa è flessibile
e varia nel tempo. D’altronde, il susseguirsi delle stagioni impedisce che un
giardino si cristallizzi in una visione razionale e definitiva. Dove c’erano i
narcisi ora sbocciano le viole, un angolo verde apparirà poi spoglio. I colori
cambiano, le geometrie si modificano.
I personaggi vanno e
vengono tra lo spazio di realtà e quello virtuale non ignorando il pubblico, al
quale rivolgono viso e gesti; ma trattandolo come elemento irreale, che non fa
parte della vicenda narrata, togliendo quindi ogni individualità alla massa
silenziosa. Essi hanno davanti a sé una caverna semibuia, abitata da individui
che prestano attenzione. Uno spazio misterioso, quello del pubblico. Simile a
quello della metropoli che circonda il giardino. Uno spazio minaccioso, di
inquinamento e annessione. Ma per la durata dello spettacolo lo spazio ecosistemico
prevale sull’atrio con il grande lampadario, sulla platea affollata e perfino
sul pericoloso esterno di traffico convulso. Gli attori, vivendo lo spazio, ci
tirano dentro lo spettatore, strappandolo alla poltrona, alla strada, alla
città.
Come in un giardino lo
spazio è determinato non solo dalla peculiarità e dalla disposizione delle
piante, ma anche dai dislivelli del terreno, dalla combinazione delle tonalità,
dall’uso dei componenti organici e non organici; così sul palcoscenico spazio
reale e spazio virtuale possono mescolarsi, grazie anche alle luci e alle
musiche; e oggetti come una bicicletta o un telo di dieci metri da tendere,
gonfiare e lanciare dilatano e restringono lo spazio, anche se solo per pochi
secondi.
Un giardino-frutteto non sono
fatti solo per la contemplazione. Essi devono essere usati. La cura delle
piante, il contatto fisico con la terra, la raccolta dei frutti… In un teatro ecosistemico
lo spazio è manipolabile come ogni altro elemento, al di là della
classificazione razionale e delle convenzioni d’uso.
Tutto si trasforma, anche
la misura in metri di un palcoscenico.
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