sabato 5 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte terza)


Quello del palcoscenico sembra uno spazio finito. Dietro, il fondale nero copre il muro di fondo dell’edificio; sui lati, tolti alla vista dalle quinte nere, camerini, servizi, quadro elettrico… e sul davanti un sipario che tirato inscatola lo spazio. La quarta parete. C’è, non c’è, a seconda della messa in scena. Nell’Angelo è stata negata, dato che gli attori sono saliti sul palcoscenico dalla platea; ma è stata reinventata come schermo del cinema o della televisione, quando si sono spogliati; e poi gli stessi attori l’hanno distrutto, lanciando sulle prime file il lungo telo bianco.
Sul fondo, la scenografia prevede un muro di cellofan: un altro schermo? Ma la visione è distorta, ciò che vi avviene dietro è censurato e allo spettatore giungono solo immagini distorte. Una cosa intuisce: là dietro c’è un altro mondo, forse l’inferno. Uno spazio tripartito, proprio come l’inizio.
Il palcoscenico-ambiente per vivere lo spettacolo; uno spazio virtuale oltre il palcoscenico, fatto di sagome e luce; lo spazio di contorno, in parte occupato dal pubblico.
Sul palcoscenico sono stati sistemati un panca, un tavolino ricoperto dal telo bianco e due sedie. Che cosa suggeriscono, questi elementi? L’arredo di un giardino, pare. Infatti, i tre ragazzi lo occupano giocando a pallacanestro. E in seguito Barbi e Manga indicheranno il cellofan chiamandolo “casa”. Tuttavia, il diavolo invade questo spazio; e in seguito anche gli altri personaggi “anime dannate” che stazionano dietro il cellofan.
Uno spazio definito in modo vago, ma pur sempre realistico, che viene utilizzato in modo improprio e diventa altro, un luogo virtuale quanto il retro del cellofan. D’altronde, aria, terra e acqua, in un giardino, non fanno che mescolarsi in continuazione.
Lo spazio virtuale dietro il cellofan è versatile e si piega a tutte le esigenze della sceneggiatura. Ci cade l’angelo, e ci ritorna per procurarsi degli indumenti umani e per polemizzare con Dio. Ci vanno Tomtom e Barbie come se rientrassero in casa; e Barbie come se andasse in centro per fare commissioni; ne esce Manga, richiamata in vita; ci va e viene Michela, l’arcangela… ehi, lei va e viene dal paradiso! In conclusione, lo spazio virtuale dietro la parete liquida colorata (quasi un varco per altri mondi e altri tempi) è inferno e paradiso, casa e città.
Lo spettatore, tuttavia, non si pone questi problemi. Accetta la suddivisione dello spazio senza preoccuparsi di schematizzare gli itinerari dei personaggi; gli interessa solo che riappaiano per interessarlo, divertirlo, emozionarlo. La mappa è flessibile e varia nel tempo. D’altronde, il susseguirsi delle stagioni impedisce che un giardino si cristallizzi in una visione razionale e definitiva. Dove c’erano i narcisi ora sbocciano le viole, un angolo verde apparirà poi spoglio. I colori cambiano, le geometrie si modificano.
I personaggi vanno e vengono tra lo spazio di realtà e quello virtuale non ignorando il pubblico, al quale rivolgono viso e gesti; ma trattandolo come elemento irreale, che non fa parte della vicenda narrata, togliendo quindi ogni individualità alla massa silenziosa. Essi hanno davanti a sé una caverna semibuia, abitata da individui che prestano attenzione. Uno spazio misterioso, quello del pubblico. Simile a quello della metropoli che circonda il giardino. Uno spazio minaccioso, di inquinamento e annessione. Ma per la durata dello spettacolo lo spazio ecosistemico prevale sull’atrio con il grande lampadario, sulla platea affollata e perfino sul pericoloso esterno di traffico convulso. Gli attori, vivendo lo spazio, ci tirano dentro lo spettatore, strappandolo alla poltrona, alla strada, alla città.
Come in un giardino lo spazio è determinato non solo dalla peculiarità e dalla disposizione delle piante, ma anche dai dislivelli del terreno, dalla combinazione delle tonalità, dall’uso dei componenti organici e non organici; così sul palcoscenico spazio reale e spazio virtuale possono mescolarsi, grazie anche alle luci e alle musiche; e oggetti come una bicicletta o un telo di dieci metri da tendere, gonfiare e lanciare dilatano e restringono lo spazio, anche se solo per pochi secondi.
Un giardino-frutteto non sono fatti solo per la contemplazione. Essi devono essere usati. La cura delle piante, il contatto fisico con la terra, la raccolta dei frutti… In un teatro ecosistemico lo spazio è manipolabile come ogni altro elemento, al di là della classificazione razionale e delle convenzioni d’uso.
Tutto si trasforma, anche la misura in metri di un palcoscenico.

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