Canicani, come testo, nasce
una decina di anni fa. Camminando sulle rive del Ticino, mi imbatto in un cane
randagio, poi in un altro. Cani, cani
cani, Canicani. Che bel titolo per un’opera di teatro, penso. Ma chi sono i
canicani? I bambini, i figli. Una famiglia con figli canicani. E scrivo la
storia dei canicani. Anni e anni dopo, Stefano mi propone di metterla in scena,
facendone un musical. Il testo contiene già dialoghi in rima e filastrocche, da
lì l’idea della musica. Amplio il testo, ricamandolo come un’operetta, giocando
con le parole. “Stefano, ti do tanto materiale, troppo per una durata media.
Poi ci pensi tu” più o meno gli dico. Lui tuffa le mani nel forziere delle
parole e si entusiasma come di fronte a una sfida. L’unico argomento di dibattito
è il finale. Ne viene fuori un finale
con effetti speciali, un po’ new age, un po’ Don Giovanni di Mozart, un po’
consolatorio, un po’ speranzoso, un po’… A qualcuno piace, a qualcuno no. Ancora
non sappiamo che il finale non ci deve essere. L’opera debutta al Binario 7 nel
febbraio 2011. Scrive Gian Paolo Galasi: “Non
è possibile prevedere, qualora lo spettacolo arrivasse fisicamente dalle vostre
parti, a quali e quanti cambiamenti sarà soggetto.” Profetico. La durata è eccessiva, due ore. Ora, dopo quattro
repliche al Teatro Cooperativa, dura un’ora e mezzo. Il finale è scomparso,
insieme a due canzoni, insieme a cose belle che Stefano ha avuto il coraggio di
potare per rinvigorire una pianta sovraccarica di frutti. Eh, sì, è così che si
fa. Troppi frutti, e verranno piccoli e poco saporiti. Meglio rinunciare, sfoltire,
cancellare… Fa parte della vita, il sacrificio di vita.
Tagli
e ritocchi, ritocchi e tagli, e via via la messa in scena si fa più scorrevole,
agile, muscolosa, forte, emozionante. “Una sberla” dice uno spettatore. “Un
pugno nello stomaco” dice un altro.
Ma…
il testo originale che fine ha fatto?
Non
ha fatto una fine, è rinato sulla scena.
Nella
mia concezione di “teatro panico”, lo spettacolo non è il testo; non è nemmeno
il regista o l’attore “mattatore”; e nemmeno la sinergia della compagnia; è
molto di più. La fabbrica dello spettacolo è un impianto complesso, che
comprende la compagnia, l’allestimento con scenografie e musiche, il luogo di
rappresentazione, il pubblico. Lo spettacolo scaturisce dalle interazioni,
altrettanto complesse, tra tutti questi elementi. Quando si produce uno
spettacolo che dovrebbe rimanere immutato negli anni, si tende a vedere di più
l’immobilità della sua forma definita che non le variazioni dovute ai cambi di
sala, di interpreti, di coreografie, recitazione eccetera.
Lo
spettacolo non è mai finito e continua a farsi rappresentazione dopo
rappresentazione, alla ricerca della propria verità. Fa ciò che ogni uomo
dovrebbe fare nella propria vita: non fossilizzarsi mai, ma cercare
continuamente come cambiare sé stesso e il mondo in meglio, consapevole che l’ottimo
non può esistere e che la sua è una ricerca senza fine, che ha in sé stessa la
propria validità e la propria ragion d’essere.
Lo
spettacolo, come l’uomo, non si limita a indagare sé stesso attraverso il
drammaturgo o il regista, ma si apre a tutte le proprie componenti, cogliendo
stimoli e sviluppando intuizioni.
Un
dettaglio di scena, la stanchezza di un attore, l’umore del pubblico, una luce
sbagliata… tutto può essere notato, valutato e assimilato; tutto può
contribuire al nuovo spettacolo della replica successiva.
Non
si può quindi dire che il testo si pieghi, umiliato, alla creatività del
regista o alle esigenze espressive dell’attore; esso, invece, offre sé stesso per
entrare in sintonia con il tutto. E non lo fa per il bene comune, da martire;
ma lo fa per il proprio bene; per esplorare e realizzare le proprie
potenzialità e per offrire all’autore un percorso di scrittura non narcisistica,
ma sempre più efficace e profonda.
In
questo atteggiamento “panico”, di accettazione e collaborazione, si sviluppa l’esperienza
di fare teatro per il teatro, e non per il protagonismo. Un teatro vivo, che
spaventa ed emoziona, che sorprende e coinvolge.
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