venerdì 4 maggio 2012

L'ANGELO DEI MORTI, IL RACCONTO (parte seconda)


L’inizio è dunque tripartito: la vestizione (un limbo, luci in sala e palcoscenico spento, il confine tra l’attore e il suo ruolo, la muta, dal bozzolo esce una nuova creatura, il personaggio; e il pubblico spione? sconcertato, non sa come osservare, come giudicare, voyeurismo, sto in piedi o mi siedo? come ci si comporta, quando le regole vengono infrante? qualcuno rivolge cenni alla cabina di regia: spegnete le luci!), la dichiarazione d’intenti (all’improvviso, colori, atmosfera, musica imponente, coreografia d’impatto, la parola in una filastrocca dura, e tutti gli interpreti presenti sul palcoscenico, sagome sfocate dietro un cellofan: lo spettacolo è corale, ed è fatto di parola recitata e cadenzata e cantata, di luce e buio, di musica e silenzio, di movimento lento e veloce, di ritmo e montaggio di scene come esplorazione dell’ambiente drammaturgico; ma questa scena che significato ha? Tre ragazzi alla catena, sono all’inferno? Ci finiranno? Non si sa, non si capisce, ma non importa, non c’è niente da capire, c’è solo da lasciarsi trasportare dentro lo spettacolo), l’inizio vero e proprio con l’ingresso di attori che recitano le parole di una “storia”.
Ecco, l’Angelo dei morti è cominciato.
Il pubblico fa la conoscenza di un angelo, Jehuel, che si ribella a Dio e sceglie di farsi terrestre per sentire l’odore della vita, e non solo quello della morte (è un angelo becchino). Un diavolo, Tenebros, lo tenta per tirarlo dalla propria parte. Un’arcangela, Michela, deve riportarlo in cielo e difenderlo dalle tentazioni.
Subito dopo, incontriamo i tre ragazzi (Spam, Chat e Bug). Invadenti, chiassosi, irrispettosi, cinici, anche crudeli, vuoti, egoisti… ma simpatici. Nemmeno la madre di Spam, Barbi, pur essendo tanto stupida, risulta antipatica.  E il papà? Un politico delinquente, con una lista di reati infinita. Sembra anche prepotente e arido, un egocentrico carrierista che si vede franare la terra sotto i piedi. Ma pian piano non diventa simpatico anche lui? Soprattutto quando sarà ridotto a uno zombi?
Ma il pubblico non emette giudizi. Non si sforza nemmeno di orientarsi per capire chi sono e che posto hanno nella storia i personaggi. Ha l’impressione che una storia ci sia, ma che sia un poco confusa. Soprattutto frammentaria.
L’autore non è uno sprovveduto in relazione a storie lineari. Ha un’esperienza ventennale di libri per bambini e ragazzi. Ma in teatro… Il teatro non è un libro. Il teatro è un mondo. E un mondo lo si racconta andando in giro a esplorare, cogliendo visioni, impressioni sonore e visive, e frammento di storie. Là una storia di aggressione, qui una di fuga, e altrove un’altra di gratificazione, o di ripulsa, e poi di curiosità, o di solitudine… Un giardino non ha una storia lineare. Ci entrate, osservate, annusate, ascoltate, toccate, fate collegamenti, cambiate punto di vista, vi spostate, esplorate…
Nel giardino dovete essere persone, viaggiatori, scienziati e filosofi. Spettatori.
La drammaturgia dell’Angelo dei morti è così, un viaggio nell’ambiente che si è creato sul palcoscenico. Una storia c’è, ma che importa se non viene spiegata in modo ordinato e dettagliato? Che importa se qualche spettatore non ha le idee chiare? Si può forse raccontare un fiore? Uh, che noia! C’è sempre così tanto, da raccontare! Troppo! E allora ogni storia ne nasconde altre, e ognuna è come una cipolla, diceva qualcuno, che puoi sfogliare scendendo sempre più di livello fino al suo cuore candido.
Storie e sottostorie, livelli di comprensione. Interpretazioni.
La drammaturgia eco sistemica è rispettosa dell’ambiente, non lo inquina con parole da buttare, e nemmeno con gli sbadigli di monologhi senza fine e di dialoghi da salotto. È una drammaturgia che suggerisce, suggestiona, allude. Che si sforza di trattenere la petulanza delle parole affinché trovino l’equilibrio con le coreografie, le luci e le musiche.
Soprattutto, è una drammaturgia corale.
Il protagonismo? C’è forse un protagonista, in un giardino? L’imponente cedro al suo centro? Monotono, in confronto alla versatilità dei cespugli ai suoi piedi, fioriti in primavera ed estate, incendiati di rosso e di giallo in autunno.
La drammaturgia ecosistemica non prevede personaggi di contorno (la cameriera con due battute), non prevede nemmeno personaggi minori. Ogni personaggio ha una storia da raccontare e contribuisce all’equilibrio generale, con identica dignità e importanza.
Nessun filo d’erba deve alzare lo sguardo intimidito verso le fronde del cedro e nessun cedro deve insuperbire sul prato. Il significato della vita non sta nella differenza di dimensioni (in tutti i significati possibili), ma nella compartecipazione della vita stessa. Il nutrimento è un atto di reciprocità. L’esistenza è una radice condivisa.
Ecco, in conclusione, che la drammaturgia si fa rispettosa dei personaggi, e li mostra nelle relazioni interpersonali, senza farsi accalappiare dai signori delle storie lineari, dei finali sensati, delle trame a orologeria, dei meccanismi testuali realizzati sui tavolini dell’ingegno.
La vita dell’ambiente di palcoscenico è troppo impetuosa, irrazionale, imprevedibile, perché si lasci mettere in gabbia. Gli uccelli siano liberi di volare negli spazi infiniti.

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