L’inizio è dunque
tripartito: la vestizione (un limbo, luci in sala e palcoscenico spento, il
confine tra l’attore e il suo ruolo, la muta, dal bozzolo esce una nuova
creatura, il personaggio; e il pubblico spione? sconcertato, non sa come
osservare, come giudicare, voyeurismo, sto in piedi o mi siedo? come ci si
comporta, quando le regole vengono infrante? qualcuno rivolge cenni alla cabina
di regia: spegnete le luci!), la dichiarazione d’intenti (all’improvviso,
colori, atmosfera, musica imponente, coreografia d’impatto, la parola in una
filastrocca dura, e tutti gli interpreti presenti sul palcoscenico, sagome
sfocate dietro un cellofan: lo spettacolo è corale, ed è fatto di parola
recitata e cadenzata e cantata, di luce e buio, di musica e silenzio, di movimento
lento e veloce, di ritmo e montaggio di scene come esplorazione dell’ambiente
drammaturgico; ma questa scena che significato ha? Tre ragazzi alla catena,
sono all’inferno? Ci finiranno? Non si sa, non si capisce, ma non importa, non
c’è niente da capire, c’è solo da lasciarsi trasportare dentro lo spettacolo),
l’inizio vero e proprio con l’ingresso di attori che recitano le parole di una “storia”.
Ecco, l’Angelo dei morti
è cominciato.
Il pubblico fa la conoscenza
di un angelo, Jehuel, che si ribella a Dio e sceglie di farsi terrestre per
sentire l’odore della vita, e non solo quello della morte (è un angelo
becchino). Un diavolo, Tenebros, lo tenta per tirarlo dalla propria parte. Un’arcangela,
Michela, deve riportarlo in cielo e difenderlo dalle tentazioni.
Subito dopo, incontriamo
i tre ragazzi (Spam, Chat e Bug). Invadenti, chiassosi, irrispettosi, cinici,
anche crudeli, vuoti, egoisti… ma simpatici. Nemmeno la madre di Spam, Barbi,
pur essendo tanto stupida, risulta antipatica. E il papà? Un politico delinquente, con una
lista di reati infinita. Sembra anche prepotente e arido, un egocentrico
carrierista che si vede franare la terra sotto i piedi. Ma pian piano non
diventa simpatico anche lui? Soprattutto quando sarà ridotto a uno zombi?
Ma il pubblico non emette
giudizi. Non si sforza nemmeno di orientarsi per capire chi sono e che posto
hanno nella storia i personaggi. Ha l’impressione che una storia ci sia, ma che
sia un poco confusa. Soprattutto frammentaria.
L’autore non è uno sprovveduto
in relazione a storie lineari. Ha un’esperienza ventennale di libri per bambini
e ragazzi. Ma in teatro… Il teatro non è un libro. Il teatro è un mondo. E un
mondo lo si racconta andando in giro a esplorare, cogliendo visioni,
impressioni sonore e visive, e frammento di storie. Là una storia di
aggressione, qui una di fuga, e altrove un’altra di gratificazione, o di ripulsa,
e poi di curiosità, o di solitudine… Un giardino non ha una storia lineare. Ci
entrate, osservate, annusate, ascoltate, toccate, fate collegamenti, cambiate
punto di vista, vi spostate, esplorate…
Nel giardino dovete
essere persone, viaggiatori, scienziati e filosofi. Spettatori.
La drammaturgia dell’Angelo
dei morti è così, un viaggio nell’ambiente che si è creato sul palcoscenico.
Una storia c’è, ma che importa se non viene spiegata in modo ordinato e
dettagliato? Che importa se qualche spettatore non ha le idee chiare? Si può
forse raccontare un fiore? Uh, che noia! C’è sempre così tanto, da raccontare!
Troppo! E allora ogni storia ne nasconde altre, e ognuna è come una cipolla,
diceva qualcuno, che puoi sfogliare scendendo sempre più di livello fino al suo
cuore candido.
Storie e sottostorie,
livelli di comprensione. Interpretazioni.
La drammaturgia eco
sistemica è rispettosa dell’ambiente, non lo inquina con parole da buttare, e
nemmeno con gli sbadigli di monologhi senza fine e di dialoghi da salotto. È
una drammaturgia che suggerisce, suggestiona, allude. Che si sforza di
trattenere la petulanza delle parole affinché trovino l’equilibrio con le
coreografie, le luci e le musiche.
Soprattutto, è una
drammaturgia corale.
Il protagonismo? C’è
forse un protagonista, in un giardino? L’imponente cedro al suo centro?
Monotono, in confronto alla versatilità dei cespugli ai suoi piedi, fioriti in
primavera ed estate, incendiati di rosso e di giallo in autunno.
La drammaturgia ecosistemica
non prevede personaggi di contorno (la cameriera con due battute), non prevede
nemmeno personaggi minori. Ogni personaggio ha una storia da raccontare e
contribuisce all’equilibrio generale, con identica dignità e importanza.
Nessun filo d’erba deve
alzare lo sguardo intimidito verso le fronde del cedro e nessun cedro deve insuperbire
sul prato. Il significato della vita non sta nella differenza di dimensioni (in
tutti i significati possibili), ma nella compartecipazione della vita stessa.
Il nutrimento è un atto di reciprocità. L’esistenza è una radice condivisa.
Ecco, in conclusione, che
la drammaturgia si fa rispettosa dei personaggi, e li mostra nelle relazioni
interpersonali, senza farsi accalappiare dai signori delle storie lineari, dei
finali sensati, delle trame a orologeria, dei meccanismi testuali realizzati
sui tavolini dell’ingegno.
La vita dell’ambiente di
palcoscenico è troppo impetuosa, irrazionale, imprevedibile, perché si lasci
mettere in gabbia. Gli uccelli siano liberi di volare negli spazi infiniti.
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