Matteo Barbé è Cancion, un canecane. Quando si rotola a terra improvvisandosi cane, lo vedo corpo dall’anima molteplice. Potrebbe essere volpe, o cinciallegra, o radice che scava nella terra, o torrente, o suono di vento tra le fronde. Ma ora è canecane e gioca con i fratelli.
La reciprocità degli spunti rende l’azione continua e l’idea dell’uno si fa subito corale e diventa comunicazione ininterrotta. Esplorazione dell’ambiente, lotta, riposo, coccole, scherzi, solidarietà… e soprattutto gioco. Si vede la vita nella sua elementarità. Il corpo umano che aderisce al corpo terrestre, di terra e di aria. Un corpo che cerca altri corpi, pelle su pelle per comunicare lo stare vicini, lo stare insieme senza aggressività. La ricerca del calore nel contatto, o anche solo in uno sguardo.
Corpo bambino, voglia di abbracci. Ma poi lo vedo strattonato da Chicce, la madre. In un attimo l’orrore cancella il gioco. A grandi passi si fanno avanti la paura e il dolore e Matteo-canecane che sembrava avere trovato rifugio nella rassegnazione eccolo invece dibattersi e urlare, terrorizzato. La vittima. Con lo stupore che prova sempre qualunque essere vivente quando si trova di fronte all’abisso in cui il cuore smette di battere per sempre, e la mente si spegne, Matteo-canecane bambino è ora lo scandalo esistenziale dell’innocenza brutalizzata. Si toglie la maglia, la carne nuda grida la propria impotenza, non c’è strillo che possa fermare l’orco. Lui è solo carne, gliela si può strappare, la si può mettere in vendita.
L’anima che giocava non ha valore, non interessa a nessuno.
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